Arte e teoria della mente: percezione e godibilità di un’opera.
Uno dei problemi che per molti anni ha interessato gli studiosi di psicologia dell’arte è stato quello di determinare cosa debba intendersi per godibilità di un’opera artistica e quanto questa sia influenzata dall’aspetto psicologico.
Innanzitutto, cosa conduce lo spettatore ad apprezzare un’opera d’arte riconoscendone il suo valore? La bellezza di un’opera d’arte è legata soltanto a quello che Wilhelm Worringer nel suo studio Abstraktion und Einfühlung (Astrazione ed Empatia) chiamava «la facoltà di suscitare felicità»?

Cosa fa di un dipinto o di una scultura un’opera d’arte e non solo qualcosa di esteticamente apprezzabile?
Una delle formule utilizzate per spiegare come funziona il sistema estetico è quella secondo cui il godimento estetico è godimento in sé oggettivizzato. Ovvero, la godibilità di un’opera d’arte avviene sulla base non solo della nostra percezione, come capacità di immedesimarci in essa, ma anche in relazione al contesto storico in cui l’opera è inserita e alle nostre pregresse esperienze culturali. Questo determina l’innesco di un’attività interiore: la capacità del soggetto di avviare un sentimento di empatia e di piacere nei confronti di ciò che sta guardando.

Il concetto di «empatia positiva» fu elaborato da Theodor Lipps in Ästhetik, per spiegare il moto dell’animo che si attiva nel soggetto che contempla un’opera d’arte.
Una forma di libertà, di libero arbitrio dunque, nel vivere quello che si ritiene bello e godibile, proprio perché permette di attivare in noi sentimenti di empatia e, in qualche modo, di identificazione con quello che riteniamo vicino al nostro modo di sentire e di vivere le emozioni.
Quando si è iniziato ad applicare il pensiero scientifico alla critica dell’arte come progetto sistemico, si sono confrontate opere di diversi periodi storici e sono state teorizzate regole comuni. Un’opera d’arte – afferma lo studioso austriaco Alois Riegle, riconosciuto come uno dei pionieri della Storia dell’arte – non può essere definita solo in relazione a un canone meramente estetico ma anche e soprattutto in funzione del coinvolgimento dello spettatore. Un’arte per essere tale ha bisogno, quindi, della partecipazione profonda di chi osserva, di quell’attività interiore che comporta un processo visivo e cognitivo.

Un cambiamento radicale del modo di intendere l’opera d’arte, che ha portato Rudolf Amhein (uno dei maggiori rappresentanti della Gestaltpsychologie e teorizzatore dell’applicabilità degli strumenti scientifici propri della psicologia alle arti visive) a sviluppare il concetto di visual thinking, secondo il quale i sensi operano in maniera dinamica e intelligente per la costruzione dell’immagine e per la formulazione dei concetti ad essa legati.
Nell’opera Art and visual perception (che esce in Italia nel 1962 con il titolo Arte e percezione visiva. Una nuova grammatica del vedere) egli asserisce che la psicologia dell’arte ha permesso di valutare con maggiore chiarezza «la differenza tra il mondo fisico e il suo aspetto e, successivamente, tra ciò che si vede e ciò che viene registrato in un medium artistico […] ciò che si vede dipende da chi sta guardando e da chi gli ha insegnato a guardare».
Un concetto fondamentale che cambierà l’idea stessa di Storia dell’arte, definendola disciplina autonoma.
Il principio verrà rielaborato anni più tardi da Ernst Kris e da Ernst Gombrich, appartenenti, come Amhein, alla Scuola di Storia dell’arte di Vienna. Ernst Gombrich ha segnato, attraverso i suoi saggi sulla Storia dell’arte, un momento fondamentale nello studio della scoperta visiva e del ritratto, partendo dall’indagine sull’arte nobile dei Manieristi, soprattutto in relazione all’uso della distorsione e alla diversa rispondenza alla realtà dei tratti fisiognomici individuali.

Un’attenta analisi sul comportamento dello spettatore- osservatore porterà Gombrich ad affermare che «non esiste un occhio innocente» ma che la percezione visiva si basa sulla classificazione delle informazioni, sull’esperienza delle stesse e sul loro confronto. L’atto del guardare non è soltanto un mero atto percettivo, ma è di fatto un atto interpretativo.
Da sempre l’arte ha comunicato idee, opinioni, concetti attraverso segni e simboli, cui si aggiunge la relazione che si instaura tra artista e spettatore. Una relazione determinante ai fini della conoscenza di come un semplice stimolo sensoriale possa diventare interpretazione di una realtà legata a un preciso periodo storico-culturale.

Vedere con gli occhi e vedere con la mente, quindi. Ed Eric Kandel (lo psichiatra e neuroscienziato statunitense che nel 2000 è stato insignito del premio Nobel per la medicina) afferma che non si può percepire ciò che non si può classificare. Un’immagine d’arte vista con lo sguardo di chi osserva «ci porta inevitabilmente a considerare i processi percettivi ed emotivi di ricreazione nel cervello dello spettatore».
In generale analizzare un’opera d’arte comporta la capacità di elaborare informazioni e confrontare esperienze, formando modelli di riferimento culturali e sociali. Elaborando, quindi, ciò che Kandel stesso ha battezzato come teoria della mente.
articolo di Mariaclara Menenti Savelli