Che cos’è il Green Marketing?

Che cos’è il Green Marketing?

In molti lo confondono con il Greenwashing. Ignorando, invece, che il Green Marketing nasce grazie alle pressioni dei movimenti ambientalisti degli anni 70. Esso presenta caratteristiche e strumenti ben diversi da quelli utilizzati dal suo “gemello cattivo” greenwashing. Facciamo chiarezza. 

Dopo aver visto l’ultima campagna di una nota associazione ambientalista fare riferimento al Marketing Green come sinonimo di Greenwashing ho creduto necessario tornare sull’argomento. L’utilizzo improprio del termine è paradossale se si pensa che nella storia del Green Marketing figurano grandi nomi dell’ambientalismo mondiale, come Gro Harlem Brundtland (che oltretutto fu a lungo impegnata anche sul fronte femminista). Esso nasce, infatti, con la volontà di portare il dibattito etico all’interno delle strutture economiche capitaliste, fino ad allora votate soltanto alla crescita ad ogni costo. Ne avevo già parlato in un mio articolo del 2019, che trovate qui. 

Negli ultimi decenni il termine “Green Marketing” è stato spesso utilizzato in modo improprio. Un uso che ha contribuito a sminuire gli sforzi di chi ha fatto dell’impegno verso la sostenibilità una missione. Riappropriamoci, allora, del corretto utilizzo del termine e dei valori connessi alla fondazione di questa disciplina. Recuperando tutto quanto di buono e utile per il pianeta possiamo trarne. 

Che cos’è il Green Marketing? 

Green Marketing è un termine ombrello che abbraccia strategie e strumenti volti al design e alla promozione di prodotti sostenibili, sia a livello sociale che ambientale. La nascita di questa disciplina va a braccetto con l’avvento del concetto di “sviluppo sostenibile”. 

Green Marketing: John Grant è tra i maggiori esponenti della disciplina.

Che cos’è il Greenwashing?

Con Greenwashing si intende un insieme di tecniche volte a ingannare il consumatore, facendo percepire un determinato prodotto o servizio come sostenibile (o più sostenibile di quanto esso sia realmente). Propagandando, cioè, falsi vantaggi per la salute del pianeta, delle persone o delle società. In Italia per Green Washing un’azienda può finire in tribunale e essere condannata per pubblicità ingannevole (come accaduto a Gorizia, lo scorso Febbraio). 

In che cosa Green Marketing e Greenwashing sono diversi?

Il Green Marketing è una scienza sociale che ha come obiettivo quello di generare sostenibilità, conciliando gli obiettivi di crescita con il benessere delle persone e del pianeta. Se il Greenwashing si pone come obiettivo il mettere in piedi un inganno (e l’attenzione del green washer è dunque tutta puntata sul manipolare la mente del consumatore), il green marketer concentra invece i suoi sforzi virtuosi sulla creazione di prodotti e servizi il cui impatto sia ridotto o nullo, studiando a fondo materiali, strategie, opzioni e processi “verdi”, che facciano bene a chi consuma e a chi produce (curandosi, ad esempio, dei diritti dei lavoratori e delle comunità di produttori, riducendo gli sprechi, eliminando le materie plastiche dai packaging, mettendo in piedi strategie circolari).

Nel Green Marketing il design etico del prodotto, che deve essere sostenibile e a basso impatto lungo tutto il suo ciclo di vita, è punto di partenza e condizione imprescindibile. La comunicazione arriva dopo.

Nel Green Marketing il prodotto/servizio è “green by design”, ovvero verde per definizione – o verde o nullo. Intorno al prodotto o al servizio, che deve essere sostenibile, pulito, trasparente e dall’impatto positivo, ruotano tutte le attenzioni del marketer etico. 

A cosa serve il Green Marketing?

L’attenzione nei confronti delle tematiche legate alla sostenibilità è cresciuta negli ultimi decenni. La consapevolezza sull’impatto dei propri acquisti (unita alle eco-ansie) spinge sempre più persone a privilegiare prodotti “eco”, “green” o “naturali”.

Purtroppo, a servirsi di strategie di marketing pervasive sono soprattutto i grandi gruppi multinazionali. Il Greenwashing (ovvero strategie di Green Marketing “snaturate” in quanto prive dei fondamentali presupposti etici), è utilizzato come strumento per aumentare i profitti. E ottiene spesso grande successo nel confondere il consumatore.

Non a caso un recente sondaggio condotto nel Regno Unito, che ha coinvolto oltre mille persone, ha prodotto un curioso risultato: secondo il campione le aziende di retail più sostenibili sarebbero Amazon, H&M e Primark. Lasciamo al lettore le dovute conclusioni (qui come esempio un approfondimento del Guardian sull’impatto sociale e ambientale di Amazon nel 2022). Il dato, comunque, almeno sulla cecità dei consumatori, sembra parlare chiaro.

Tutto questo è avvenuto anche a causa di una “demonizzazione” del marketing in sé e per sé. Dobbiamo riappropriarcene come strumento di design e di comunicazione efficace.

È molto importante che i piccoli produttori, imprenditori e associazioni del mondo green sappiano come comunicare al meglio il proprio valore. Il Green Marketing si rivolge proprio a loro. 

Il marketing etico valorizza le persone e la natura dietro i prodotti.

Conoscere il Green Marketing, infine, come consumatori, ci aiuta a riconoscere i prodotti davvero etici e sostenibili, e ad arginare così il fenomeno del Green Washing, evitando di cadere in trappola.

Quali sono alcuni esempi di Green Marketing? 

I prodotti e le campagne delle imprese del biologico e del biodinamico, il design del merchandising delle associazioni ambientaliste e le loro campagne di raccolta fondi. I prodotti e le campagne dei consorzi equosolidali. La strategia social del turismo responsabile e solidale. Sono tutti esempi di messa a terra di strategie di Green Marketing. 

Le campagne del Green Marketing non si limitano a presentare il prodotto come sostenibile, bensì forniscono garanzie di conformità a standard di sostenibilità riconosciuti e affidabili.

Agiscono inoltre come vere e proprie campagne di  sensibilizzazione per il consumatore, che viene invitato a informarsi e a comprendere maggiormente cosa si celi dietro ogni acquisto, aiutandolo a evitare di cadere nei tranelli del Green Washing.

Un esempio di Green Marketing: Campagna pubblicitaria dei negozi NaturaSì.

Nel Green Marketing l’etica è il fondamento dell’azione e consumatore e produttore sono vicini, condividono gli stessi valori, che portano avanti producendo o acquistando prodotti e servizi sicuri e trasparenti. 

Non solo tutela dell’ambiente: anche i diritti dei lavoratori sono una tematica centrale nella campagne Green. Un prodotto è sano quando rispetta tutti.

Il Green Marketing è comune anche nelle medie e piccole imprese, dove l’artigianalità del prodotto e l’attenzione alla tutela dei territori e delle risorse è più forte. 

Come riconoscere il Green Washing?

La maggior parte delle campagne di prodotti “verdi” portate avanti da grandi gruppi multinazionali ricade nel greenwashing. Questo perché l’impatto di alcuni grandi gruppi sull’ambiente e sulle società è talmente grande da non poter essere compensato da piccole azioni, che oltre a essere gocce nel mare, vengono utilizzate come “scuse” per “vestirsi” di sostenibilità. I casi più eclatanti riguardano le aziende coinvolte nell’inquinamento da plastica (ad esempio i produttori di acqua o bibite in bottiglia).

Campagna di Greenpeace contro Coca Cola.

Anche i grandi gruppi di fast fashion ricorrono al greenwashing. Pur rappresentando la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella del petrolio e la seconda industria per impiego di schiavitù infantile e femminile nella produzione, si servono spesso di “capsule collection”, ovvero collezioni in edizione limitata, prodotte in cotone biologico o in plastica riciclata. Le campagne pubblicitarie dedicate sono spesso un trionfo di multiculturalità, empowerment femminile e bambini che giocano spensierati tra i prati. Il ritorno di immagine è alto, almeno nel consumatore poco attento. La spesa, per la grande azienda fashion, è minima. E può continuare a inquinare in pace. 

Il Greenwashing (e i suoi fratelli Pinkwashing e Socialwashing) spesso adottano strategie sottili e subdole, che rendono difficile anche al consumatore esperto e scaltro accorgersi dell’inganno.

Accade, ad esempio, quando i grandi gruppi progettano e mettono in vendita nuovi brand. Un processo che vede la fondazione di aziende ad hoc, senza che l’affiliazione alla multinazionale madre sia chiaramente esplicitata. E così, il principale produttore di plastica mondiale può mettersi a vendere succhi di frutta “naturali”, con un nuovo nome e una nuova veste grafica accattivante. L’ignaro consumatore li mette nel carrello, senza sapere che sta finanziando un’azienda che magari, su altri prodotti, boicotta. 

Come puntualizza Matt Palmer di Plastics Rebellion – Gruppo appartenente a XR UK (in questo articolo), “Il greenwashing […] è pericoloso: significa che le persone decidono volontariamente – e inconsapevolmente – di supportare il tuo progetto, nella convinzione errata di fare del bene al pianeta”.

 

Il Greenwashing è una “verniciata di verde”, che sotto la superficie si dimostra ben poco sostenibile.

 

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Anna Stella Dolcetti si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School, specializzandosi in Green Marketing presso l’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali. Laureata in Lingue e Culture Orientali, è insegnante di Yoga certificata Yoga Alliance RYT-500. 

Le Grandi Dimissioni. Alla ricerca di una vita sostenibile

Il tema della sostenibilità investe ogni aspetto della nostra vita. Anche quello lavorativo. Il fenomeno delle Grandi Dimissioni ha portato alla luce quanto la ricerca di una vita rispettosa delle nostre emozioni possa spingerci ad affrontare l’incertezza e condurci lontano.  

“Sostenibile” significa “Che può essere affrontato”.  

Ragionando sul concetto di sostenibilità mi sono imbattuta in articoli, podcast, blog, libri, conferenze che negli ultimi mesi hanno popolato social e rubriche. Ad oggi possiamo attingere a una grande quantità di informazioni e nozioni sul tema della sostenibilità.

Ma cosa si intende per sostenibilità?

“Sostenibile” significa “che può essere affrontato”. – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Stando al vocabolario, sostenibilità significa “La possibilità di essere sopportato, spec. dal punto di vista ecologico e sociale.”


La definizione di sviluppo sostenibile secondo la Commissione delle Nazioni Unite è “lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri”. La sostenibilità è legata al processo di cambiamento, dove lo sfruttamento delle risorse, gli investimenti e l’integrazione tecnologica lavorano assieme per valorizzare non solo il potenziale attuale, ma anche quello futuro. I pilastri sui cui si fonda sono, convenzionalmente, tre: economico, ambientale e sociale. Se interconnessi e adeguatamente comunicanti, possono dar vita a sistemi e società virtuose e rispettose degli ambienti socio-culturali nelle quali sono inserite. 

Oltre le convenzioni, però, ci siamo noi, che abitiamo e viviamo questi contesti socio-culturali con le nostre quotidianità, i nostri desideri, i nostri sogni, facendo del nostro meglio per vivere in “maniera sostenibile”. 

Ognuno di noi agisce con la sua matrice e la sua motivazione personale che lo spinge a differenziare i rifiuti, a scegliere la bicicletta al posto dell’automobile, a chiudere il rubinetto mentre ci si spazzola i denti, a coltivare l’orto condominiale condiviso, a scegliere lo scambio di abiti usati piuttosto che acquistarne di nuovi. Potrei citare tanti esempi virtuosi, facilmente scovabili nel mondo del web. Ma io vorrei uscirne, oggi, e vedere cosa succederebbe se alla parola sostenibilità affiancassimo un quarto pilastro: l’emotività. 

Vivo da due anni in una regione montana del nord Italia perché nel settembre 2020, in piena pandemia, quando iniziavano ad aprirsi primi spiragli di libertà rivelatesi poi essere solo momentanei, ho lasciato tutto quello che avevo costruito in ventotto anni tra le risaie della pianura padana e i navigli milanesi. Col senno di poi, ho scoperto di non essere stata l’unica, ma anzi, che come me stava facendo circa l’85% in più di lavoratori rispetto all’anno precedente la pandemia (fonte: Ministero del Lavoro, Banca d’Italia e ANPAL).

Tutto questo sarebbe diventato un vero e proprio fenomeno, chiamato “le Grandi Dimissioni”.

L’ho fatto perché una spinta dentro di me mi diceva che quella vita non era quella che volevo. Che dovevo cercare altro, o altrove, una vita che mi rendesse serena e in equilibrio. Si è trattato, in verità, di una scelta di pancia, che devo ammettere di aver fatto nel pieno delle mie possibilità di quel momento, nonché nel pieno di tutte le mie paure. Ho pensato “Se non ora, quando?” con tutta la spontaneità, la semplicità (e l’ingenuità) che chi mi conosce sa bene che spesso mi contraddistinguono.

Ho lasciato un lavoro da Art Director in un’agenzia pubblicitaria di Milano, dove avevo un contratto a tempo indeterminato e un’infelicità a tempo illimitato che mi garantivano uno stipendio fisso alla fine del mese.

Le Dimissioni come strumento di libertà: alla ricerca di una vita emotivamente sostenibile. “Avevo un contratto a tempo indeterminato e un’infelicità a tempo illimitato” – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Non sopportavo il peso della contraddizione che in quegli ambienti regna sovrana: si organizzano teambuilding per creare affiatamento tra colleghi ma poi, di contro, non viene persa occasione per fare nascere competizione e gelosie interne. La vita privata sembra non essere importante ma, anzi, completamente ignorabile. Ciò che conta è dimostrare di lavorare sempre di più e sempre meglio.

Ho abbracciato l’incertezza e me ne rendo conto solo adesso, abbandonando quell’illusione di felicità ovattata che ti porta, di contro, la certezza.

Se lo chiedeste ai miei genitori probabilmente non sarebbero d’accordo con me. Tutt’oggi si chiedono come abbia fatto, con uno sguardo nei miei confronti sempre a cavallo tra l’affascinato, l’ammirato e il preoccupato. Ho abbandonato la certezza, per quanto mi riguarda, non solamente dal punto di vista lavorativo e professionale ma anche personale, avendo lanciato alle ortiche solo poche settimane prima il mio matrimonio, già organizzato e fissato. Insomma, nel giro di un paio di mesi la mia vita si è totalmente ribaltata. Se qualche anno fa mi avessero raccontato cosa sarei riuscita a ricostruire e come sarei riuscita a ricostruirmi non ci avrei mai creduto. Qui dove vivo ho trovato una nuova dimensione. Certamente non è quella di un lavoro fisso, ma mi dà l’opportunità di vivere a pieno le mie giornate, libera delle mie decisioni e padrona del mio lavoro da Art Director e illustratrice Freelance.

Vivo finalmente a contatto con la Natura, perché la vicinanza con la terra è molto più sentita. E anche se si sta per due settimane senza uscire per fare trekking, si vive a contatto con l’ambiente, con la montagna, con il lago, con le vigne e gli uliveti.

Qui la pioggia è semplicemente pioggia, non un peso che intensifica il traffico del lunedì mattina. La neve è semplicemente neve, non un imprevisto che sporca le strade. Le persone sono semplicemente persone, e spesso non una fonte di guadagno o un numero seriale del badge di lavoro. 

“Vivo finalmente a contatto con la Natura. Cambia il paradigma, cambia la scala di valori, cambiano gli occhi con cui si guarda il mondo”. – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Con questo non voglio rinnegare quello che è stata la mia “vita precedente” – e la chiamo così volontariamente, perché adesso mi sembra di viverne un’altra totalmente nuova. Vorrei solo scrivere di come ho dovuto, nella mia piccola esperienza, valutare quanto fosse emotivamente sostenibile una scelta piuttosto che un’altra, quando, di contro, l’altra scelta era anche solo restare ferma dove mi trovavo, nella vita che conoscevo e che avevo imparato ad apprezzare con gli anni.

Se il concetto di sostenibilità è strettamente legato al concetto di cambiamento e di sguardo al futuro è facile capire come adattarlo alle nostre vite e come fare dei ragionamenti soggettivi che possano aiutarci a “sfruttare” a pieno le nostre risorse personali per inseguire la felicità, o qualcosa che le si avvicini il più possibile. 

Rispettando noi stessi, i nostri desideri, le nostre paure, i nostri passati traumatici, i nostri ricordi felici, i nostri passi falsi e i nostri difetti più profondi, senza giudicarci, possiamo arrivare a capire quanto una scelta sia da noi sostenibile nel lungo periodo. Rientra nella nostra necessità di essere umani e di tutelare noi stessi in un momento storico che sembra non vedere mai luce. È adesso, quando tutto intorno a noi sembra crollare e tornare ad essere precario, che dobbiamo prendere il coraggio di ascoltare. Seguendo quella voce interna che troppo spesso mettiamo a tacere. 

A Milano si parla di lavoro prima ancora di sapere il nome dell’interlocutore. Adesso, qui in Trentino, mi rendo conto di avere intere conversazioni senza che l’argomento lavoro venga nemmeno sfiorato.

Cambia il paradigma, cambia la scala di valori, cambiano gli occhi con cui si guarda il mondo. Tutto sta nell’essere pronti ad accogliere il cambiamento. E, a lungo termine, a sostenerlo con tutti i nostri mezzi e il nostro bagaglio emotivo. Presto potremo accorgerci che avremmo dovuto rischiare prima, perché eravamo pronti da molto più tempo di quanto pensavamo.

 

Testo e illustrazioni di Tiziana Pesenti (Illustratrice e Art Director, specializzata in Branding e Green Design, Tiziana è tra i docenti della nostra Summer School in Green Marketing

Rewilding: ridisegnare il rapporto tra essere umano e natura

La sottrazione di aree alla natura selvaggia – nella speranza di riuscire poi a farne a meno – è una caratteristica fondante della nostra civiltà: dai campi coltivati ai pascoli, dalle città alle fabbriche, il nostro sviluppo economico e sociale si è retto finora sulla nostra capacità di riorganizzare, modificare e alterare gli spazi naturali, ovvero di renderli funzionali alle attività umane, controllando e confinando le espressioni più selvagge della natura. Questo processo ha un nome: antropizzazione. Ma alla luce della crisi ambientale che stiamo vivendo è lecito chiedersi: un modello diverso è possibile? Il concetto esiste già: si chiama “rewilding”.

Ma che cos’è il rewilding? 

Il World Economic Forum lo definisce come “l’atto di riportare un’area del pianeta al suo stato originale”, modificando perciò il pensiero tradizionale di controllo e gestione della natura come azione dall’alto, incorporando invece “nuovi elementi di progettazione architettonica o paesaggistica” che concilino le necessità degli esseri umani con quelle degli ecosistemi, con prospettive di sostenibilità a lungo termine.

Non parliamo di tutelare gli “spazi verdi” bensì di permettere alla natura di riappropriarsi di alcuni spazi.

John muir
Rewilding: ridisegnare il rapporto tra essere umano e natura. John Muir, ambientalista e narratore della natura selvaggia.

Il rewilding è un modo per ridisegnare il rapporto tra noi e la natura.

La natura di cui abbiamo bisogno, infatti, non è quella di un curato prato all’inglese: perché i meccanismi di autoregolazione funzionino, perché gli insetti impollinatori facciano il loro lavoro e non si assista al prevalere di una specie sull’altra, abbiamo bisogno di una “natura autentica”. Si tratta di una visione volta al reale ripristino degli ecosistemi, la quale non può che prevedere che sia l’uomo a fare un passo indietro. Il nuovo paradigma richiede saggezza e analisi per giungere alla riduzione degli sprechi e del proprio impatto ambientale. Occorre ridisegnare un modello nuovo.

 

Rewilding: ridisegnare il rapporto tra essere umano e natura. Il rewilding ha come obiettivo quello di ispirare e motivare le persone a restaurare gli ambienti e i processi naturali.

Un’assunzione di responsabilità che dallo scorso Febbraio ritroviamo anche in Costituzione: innanzitutto nel comma all’articolo 9, in cui si ribadisce che la Repubblica si impegna a tutelare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi (questi ultimi due termini sono particolarmente significativi, in quanto rimandano alla “natura autentica” di cui sopra), anche nell’interesse delle future generazioni. Ma anche negli incisi all’articolo 41, i quali, in relazione all’iniziativa economica, ribadiscono che essa non possa svolgersi recando danno all’ambiente. Poche, semplici parole che costituiscono una svolta epocale. A patto, però, che a queste segua la reale adozione di modelli innovativi.

Non è un progetto che si possa improvvisare: perché il rewilding sia sostenibile, sicuro e vantaggioso, occorre un approccio scientifico e il coinvolgimento di tutti gli attori locali. Ma con quali vantaggi?

Secondo l’IUCN il rewilding è un asset fondamentale nella lotta al cambiamento climatico: aumenta lo stoccaggio di CO2 e protegge inoltre le popolazioni dai rischi legati agli eventi climatici estremi.  Si registra anche un impatto positivo significativo “sulla salute umana, in particolare per gli abitanti delle città con meno accesso agli spazi esterni”.

A differenza di quanto si potrebbe pensare, inoltre, esso rappresenta anche un’efficace misura contro il rischio zoonosi. Uno studio del 2021 apparso su Restoration Ecology mette in luce come il ripristino di ecosistemi perduti, anche in città, debba essere considerato come un vero e proprio imperativo in quanto “servizio reso alla salute pubblica”: non solo un ecosistema in salute si “autoregola”, tenendo lontani i virus, ma ci permette anche di attuare “contromisure ecologiche”, utili a ridurre i microrganismi circolanti e i loro vettori (come studiato per il patogeno responsabile della malattia di Lyme, il batterio Borrelia, in Giappone).

Per creare un nuovo “patto di sostenibilità” occorre però un cambio di paradigma. Significa infatti “riappacificarsi” con la natura, lasciandole i suoi spazi e godendone, imparando a far sì che non si debba più scegliere “tra noi e lei”.

La natura, anche in città, promuove il nostro benessere psico-fisico.

 

Anche la Royal Swedish Academy of Science ha di recente ribadito che la transizione verso nuovi sistemi è qualcosa che richiede più di un semplice sforzo: è una svolta di prospettiva radicale nella nostra concezione della relazione uomo-natura. Si tratta, in effetti, di saldare una frattura (che è tale sia in quanto percepita, sia perché legata ai nostri modelli di organizzazione); un passaggio che però, nell’era dei cambiamenti climatici e delle minacce ambientali, potrebbe davvero fare la differenza.

Rewilding vuol dire felicità. Esso ha infatti, più indirettamente, numerosi effetti positivi sul raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità e di pace sul nostro pianeta: più viviamo a contatto con la natura, più ce ne sentiamo parte e più ci attiviamo per la sua salvaguardia. Il contatto con l’ambiente sviluppa le nostre visioni sistemiche e ci rende più consci della necessità di cooperare tra comunità umane.

La natura è fonte di creatività e ispirazione. Servizi ecosistemici di incalcolabile valore.

Uno studio pubblicato su Applied Research in Quality of Life lo scorso aprile conferma infatti i dati raccolti nel corso di una famosa ricerca dell’Università dell’Illinois condotta alla fine del decennio scorso: non solo “gli individui con una migliore relazione con la natura sono più inclini ad adottare uno stile di vita sostenibile” ma da questa relazione traggono anche benefici maggiori, che si traducono in livelli di benessere generale più elevati, di felicità e qualità delle relazioni con gli altri statisticamente migliore.

Una lezione che, alla luce dell’esperienza pandemica e di quanto stiamo vivendo in queste settimane, non possiamo permetterci di dimenticare.

Johan Robinson, a capo dell’unità dedicata alla biodiversità nel Global Environment Facility del programma UNEP, ha dichiarato:

il COVID-19 ci ha insegnato che la vita sulla terra è interconnessa. Come specie dominante nella rete delle interazioni abbiamo la grande responsabilità di agire operando le scelte più giuste.

La salute del nostro ambiente è influenzata dalle nostre azioni, che ce ne ricordiamo o meno, con tutte le conseguenze e le responsabilità che questa posizione comporta.

 

Salute del pianeta e salute umana sono strettamente correlate.

La nostra salute e le nostre economie (in una parola, la nostra sopravvivenza) dipendono dalla qualità della relazione che siamo capaci di tessere con la natura e con le altre comunità umane, oltre le semplici visioni meccanicistiche di sfruttamento.

Un nuovo patto di pace passa anche da qui.