Rilke: le misteriose esistenze

Rilke: le misteriose esistenze. Rainer Maria Rilke tra le pennellate di Caspar David Friedrich

Porre la propria attenzione su Rainer Maria Rilke (1875-1926) per arricchirsi di suggestioni nuove comporta, nel lettore, la nascita di un coinvolgimento emotivo degno di grande attenzione. Il poeta, infatti, fin da adolescente ha costellato la propria esistenza di pensieri e parole vicini al suo temperamento riflessivo, divenuti col tempo universali.

Rainer Maria Rilke protagonista di uno schizzo a matita preparatorio per la realizzazione del suo ritratto, opera di Leonid Pasternak.

La vita del poeta è stata segnata da incontri e viaggi oltre che dall’interesse per l’arte che ha offerto sempre un contributo prezioso alla sua crescita personale e professionale. Fondamentale è stato lo studio della filosofia, soprattutto quella di Nietzsche che ha fatto da base alla sua poetica profonda e spesso tormentata. Acuto osservatore della natura, delle vite interiori delle persone e delle cose, attraverso la lettura delle sue opere più famose come I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), Elegie Duinesi (1923), Sonetti a Orfeo (1923), si deduce come Rilke sia potuto diventare e sia tutt’oggi considerato tra i più importanti poeti tedeschi del XX secolo. 

Rileggere Rainer Maria Rilke – ogniqualvolta si ha bisogno di parole e sensazioni che illuminino mente e anima – richiede momenti in cui ci si ferma, si respira e si osserva il mondo con occhi diversi e nuovi.

Tornare a soffermarsi su Rilke, poeta boemo di lingua tedesca, è come accettare un invito a lasciarsi andare a un fiume di parole cariche di suggestioni che il lettore più attento custodisce in una parte della propria quotidianità e a cui può far visita quando ne sente il bisogno.

Alcune frasi e i pensieri spesso diventano parte integrante del proprio vissuto e sopravvivono come una voce amica di cui si sente l’eco anche a distanza di tempo.

Sfogliare pagine lette in passato equivale a un incontro tra persone conosciute.

Rileggere ed emozionarsi ancora ha l’effetto dell’ascolto della loro voce. Per quanto non si potrà mai sostituire una presenza con un libro, tuttavia un libro potrà sempre tentare di compensare una mancanza. Le parole, infatti, hanno un potere inimmaginabile, sono come melodie incalzanti e senza tempo capaci di trasportare lontano.

Lettere a un giovane poeta

Così è per “Lettere ad un giovane poeta”, testo epistolare di grande spessore letterario, pubblicato postumo nel 1929, capace di offrire spunti, spaziando dall’arte alla scrittura in modo intimo e suggestivo. Lo scambio epistolare, durato cinque anni, avviene tra un giovane allievo dell’Accademia, Franz Xaver Kappus, e il già noto poeta Rilke il quale si dimostra ben disposto ad affrontare con il giovane Kappus tematiche profonde e sincere.

Il testo diventa un piccolo scrigno di suggerimenti che prendono forma pagina dopo pagina, pensiero dopo pensiero. E ritrovarsi in quelli di Rilke non è cosa ardua, soprattutto per coloro i quali hanno permesso al linguaggio dell’arte di parlare alla loro anima senza fermarsi mai.

“La maggior parte degli avvenimenti sono indicibili” scrive Rilke in una lettera datata 17 febbraio 1903. “Si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura.”

È innegabile che le immagini richiamino parole, così come le parole a loro volta richiamano immagini, figure, colori. Silenzioso è il cammino degli eventi e delle voci come quello delle opere che in un luogo lontano legano il loro destino a pensieri sempre vivi e pulsanti. Breve è il percorso che collega le intuizioni pittoriche a quelle letterarie, lasciando negli uomini lo stupore e il desiderio di conoscere oltre.

Rilke e l’arte di Friedrich

Proprio in uno di questi percorsi è possibile trovare le opere di Caspar David Friedrich, pittore romantico tedesco, nelle cui opere, o “misteriose esistenze” secondo Rilke, la ricercata solitudine dei suoi personaggi e il silenzio che avvolge le poche figure ritratte di spalle, offrono una visione diversa del mondo in cui ciò che si vede è appunto indicibile e allo stesso tempo affascinante.

“Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, opera del 1818.

Tutto in Friedrich è protagonista: l’ombra, il silenzio, l’uomo, le rovine, la natura, l’orizzonte. Tutto ha una propria voce che, rendendo partecipe l’osservatore, narra storie e suggestioni in cui ognuno può ritrovarsi.

Caspar David Friedrich, Paesaggio con lago di montagna al mattino (1823-1835). La natura, nelle opere di Friedrich, è ricca di simbolismi.

L’uomo con la propria solitudine, è parte integrante della natura, di fronte alla quale si sente piccolo e senza voce, sia che venga ritratto nel contesto naturale come nel celebre “Viandante sul mare di nebbia” (1818), sia che si ponga nell’atto di osservare da una piccola apertura come in “Donna alla finestra” (1822). 

“Donna alla finestra” è un’opera di Caspar David Friedrich datata 1822.

L’osservatore segue l’andamento curvilineo e malinconico del corpo della donna e quasi si identifica con i suoi pensieri e il suo silenzio. L’ambiente spoglio e vuoto si contrappone alla natura limpida e serena che è al di fuori, che è possibile in parte vedere e in parte immaginare. Sembra che la vita luminosa sia in quell’”altrove” incorniciato dalla finestra e dal vetro soprastante con la quale la donna cerca una sorta di “corrispondenza d’amorosi sensi”. 

Rainer Maria Rilke è chiamato anche “il poeta filosofo”.

Corrispondenza che trova riscontro ancora una volta in un’altra lettera di Rilke datata 23 dicembre 1903, nella quale l’invito ad instaurare un legame con quello che di silenzioso ci circonda, diventa un messaggio di speranza, un invito ad accogliere quell’altrove che al di là di una finestra invita e appaga:

“Se tra gli uomini e voi non c’è comunione, tentate d’essere vicino alle cose, e non vi abbandoneranno; ancor esistono, prossime, le notti e i venti, che solcano gli alberi e molti paesi; ancora tra le cose e negli animali tutto è pieno di evento cui v’è concesso di partecipare.”

 

(di Miriam Guzzi)

 

Potrebbe piacerti anche: Il bello odoroso preraffaellita

Sulla combinatoria come struttura narrativa

Sulla combinatoria come struttura narrativa. Di Mariaclara Menenti Savelli, Editore

 

Uno degli studi più significativi della matematica dell’Ottocento riguarda l’esistenza di geometrie diverse e tutte ugualmente valide, con alla base leggi comuni, costitutive di visioni “altre” del mondo. Ciò che la rigorosa geometria euclidea aveva codificato, fu messo in discussione dalla “geometria non euclidea” che teorizzò i “piani di realtà”. Esistevano cioè “luoghi” e livelli diversi di un’unica stessa realtà.

E così il “senso”, il significato delle cose, poteva assumere diverse direzioni.

Lewis Carroll nel celebre Trough the looking-glass – And what Alice found there ci aveva ricordato come potesse essere facilmente verificata dalla sua protagonista la presenza di due diversi e opposti piani di realtà, perfettamente presenti nel medesimo momento e spazio:

“Facciamo finta che il vetro sia diventato sottile come un velo e che noi possiamo passarci attraverso …Sta diventando una specie di nebbia, ora, te l’assicuro! Sarà abbastanza facile attraversarlo … […] E realmente il vetro stava sciogliendosi e dileguandosi come una nebbiolina lucente ed argentata. Un momento dopo Alice era al di là dello Specchio e con un piccolo salto, eccola giù, nella misteriosa stanza.  La prima cosa che fece fu di guardare se c’era il fuoco nel camino, e con molto piacere vide che c’era realmente…”

Sulla combinatoria come struttura narrativa. Lewis Carroll

Negli anni Ottanta dell’Ottocento la “teoria degli insiemi” di Georg Cantor fece emergere tutta una serie di paradossi insiemistici di cui il più noto è il paradosso di Russell.

I luoghi o piani della realtà possono essere pensati come insiemi di elementi, ma non sempre elementi di se stessi, così secondo il paradosso di Russell: Un insieme di farfalle non è la farfalla.

Così potremo definire “l’insieme dei piani di realtà come la realtà” o “l’insieme dei piani di realtà eccetto la realtà”.  Questo paradosso ha come elemento di intrusione, l’autoreferenza degli enunciati della realtà.  Entrambi gli enunciati, infatti, sono esatti se presi singolarmente ma, se posti a confronto, creano un paradosso. La “colpa” non è da attribuire all’uno o all’altro degli enunciati ma solo al modo in cui essi si riferiscono l’uno all’altro.

Ai piani di realtà possono corrispondere quindi diversi enunciati, dichiarazioni opposte di una stessa effettività. La dipolarità comporta che il senso di ogni piano sia dato da un insieme di leggi, segni, corrispondenti linguistici di ogni realtà. E dal loro esatto contrario.

È questa la logica interna al nostro sistema linguistico- semantico, per cui il senso di ogni cosa non è già dato, ma scaturisce da uno sforzo analitico, dalla dialettica degli opposti, da una contraffazione della logica stessa.

Nel 1995 Italo Calvino pubblica Una pietra sopra, che contiene una delle sue riflessioni più interessanti: Cibernetica e fantasmi, appunti di narrativa come processo combinatorio.

Nel suo scritto oppone il gioco della combinatoria (come pura strategia di significazione, alternativa ma non opposta a quella tradizionale del tipo contenuto-forma, attraverso la quale si usano i segni per far saltare il piano dei segni stessi) a quello della concezione classica della letteratura. Giunge così a parlare della combinatoria come il passaggio da un piano all’altro della realtà che si ottiene attraverso il gioco delle” funzioni narrative”.

Sulla combinatoria come struttura narrativa. Italo Calvino

Combinatoria che fornisce un’alternativa alla una concezione statica della cultura letteraria, divenendo forza rivoluzionaria e conservatrice, in cui vivono “cibernetica e fantasmi” cioè razionalità e progresso, mito e inconscio.

Così Calvino arriva a definire la letteratura come: “un gioco combinatorio che segue le possibilità implicite del proprio materiale […] ma è un gioco che a un certo punto si trova investito di un altro significato non oggettivo di quel livello linguistico sul quale ci stavamo muovendo, ma slittato da un altro piano, tale da mettere in gioco qualcosa che su un altro piano sta a cuore all’autore o alla società a cui appartiene”.

Nell’azione del racconto, la dipolarità costituisce secondo Calvino la rivincita della discontinuità, divisibilità, combinatorietà su tutto ciò che è corso continuo, gamma di sfumature che stingono una sull’altra.

La spiegazione dei piani di realtà in Calvino, però, rimane confinata al progetto della “padronanza del senso” come attributo divino, flusso o emanazione spirituale che si riversa dal significato al significante, dall’autore al critico. Al centro della speculazione dello scrittore torinese è il linguaggio, strumento capace di spostare il senso da un piano all’altro, “saltando” da un piano di realtà sommerso ad uno nascosto, costituito dal livello del mito e del tabù.

Sulla combinatoria come struttura narrativa. Italo Calvino

Così facendo i piani di realtà, intesi come segmenti o livelli di una stessa realtà o al di fuori della realtà stessa, possono essere analizzati come strutture logiche, come frazioni oppositive di spazio-tempo che innescano l’attività del racconto.

 

di Mariaclara Menenti Savelli, Editore

L’autofiction secondo Philip Roth

Operazione Shylock: l’autofiction secondo Philip Roth. Di Giorgio Galetto          

Operazione Shylock, romanzo di Philip Roth pubblicato in Italia da Einaudi nel 1993, è uno dei più originali esempi di narrazione autofinzionale tra quelli susseguitisi da quando questa modalità narrativa è nata, ed è stata in un certo senso codificata.

Nell’era della cosiddetta post-verità anche la transmedialità diventa un fattore rilevante nell’elaborazione creativa.

È ciò che accade ad esempio al Montalbano di Camilleri sdoppiato tra tv e letteratura, o a Houellebeck personaggio mediatico, autore e personaggio letterario: sia in Riccardino, opera postuma pensata da Camilleri come uscita di scena (è il caso di dirlo) del celebre commissario.

Ne La carta e il territorio di Houellebeck, l’autore compare come personaggio, o per meglio dire: un personaggio che porta il nome dell’autore e ne ha le caratteristiche.

L’ espediente è utilizzato anche in Operazione Shylock di Philip Roth.

L’autofiction secondo Philip Roth

Nel caso di Roth la faccenda è ancora più complessa: più che di metanarrazione e transmedialità la questione è quella sempre viva, tra menzogna e verità. Qui la complessità d’intreccio del romanzo è strettamente connessa alla sua natura autofinzionale.

Operazione Shylock ha come sottotitolo «una confessione», e si apre con una premessa del narratore:

Ho ricavato Operazione Shylock da diari e taccuini. Il libro è la cronaca più precisa che io possa fornire di fatti veri dei quali sono stato protagonista a 54 o 55 anni e culminati all’inizio del 1988, nell’assenso che diedi alla proposta di intraprendere un’operazione di controspionaggio per il servizio segreto israeliano, il Mossad.

Operazione Shylock: l’autofiction secondo Philip Roth. La prima edizione di Operazione Shylock (Simon & Schuster, U.S.A.)

La prefazione continua entrando nel merito del processo Demjaniuk, operaio della Ford di Cleveland accusato di essere l’Ivan il Terribile di Treblinka, l’operatore della camera a gas che aveva mandato a morte migliaia di ebrei.

Si tratta di un fatto vero e documentato, svoltosi esattamente in quel modo e in quei giorni. Il narratore condivide l’identità dell’autore: Philip Roth, scrittore ebreo americano, di stanza a Londra al tempo dei fatti, racconta una vicenda che lo coinvolge in quanto persona Philip Roth, e in cui nulla sembra discostarsi di una virgola dalla cosiddetta realtà.

Sembrerebbe a tutti gli effetti una cronaca autobiografica relativa a una vicenda singolare e inquietante che lo ha coinvolto. Il background e il contesto sono assolutamente coincidenti con la realtà biografica dello scrittore.

La vicenda centrale, il caso Demjanjuk, è accaduta realmente ed è fedelmente descritta nel romanzo. Il sottotitolo, una confessione, risulta di fatto credibile, e il lettore si immerge nella narrazione convinto di leggere quella che a tutti gli effetti è una cronaca.

L’autofiction secondo Philip Roth.

A questo punto l’autore mette in campo gli effetti speciali. Nella narrazione si susseguono una girandola di eventi al limite del surreale, che molto spesso sfociano nel comico. Subito il protagonista narratore viene a sapere dell’esistenza di un suo omonimo, che si spaccia per lui e che scopriremo a breve avere anche il suo aspetto, il quale sta promuovendo in Israele una paradossale campagna a favore del controesodo degli ebrei dallo stato, per tornare in Europa. Questo doppio di Philip Roth si espone addirittura con il leader polacco di Solidarnosc, Lech Walesa, per discutere il rientro in Polonia degli Ebrei; i giornali riportano questo incontro e altre notizie sulle iniziative del sosia.

Parlando di sosia, Roth dichiara apertamente alcuni antecedenti letterari cui il lettore potrebbe pensare, smarcandosene:

I sosia figurano soprattutto nei libri, come copie pienamente materializzate che incarnano l’occulta depravazione del rispettabile originale […] sapevo tutto di queste fantasie dell’io diviso, avendole decodificate come meglio non si sarebbe potuto una quarantina di anni prima all’università. Ma questo non era un libro che stavo studiando o un libro che stavo scrivendo, e questo sosia non era un personaggio che nel senso gergale della parola […] un nome che avevo imparato ad apprezzare molto tempo prima di avere letto del dottor Jekyll e del signor Hide o di Goljadkin primo e Goljadkin secondo.

Roth autore sgombra il campo dagli equivoci: la creazione del doppio non è un’indagine tardo-romantica, surreale o allegorica, del lato oscuro. Qui si parla di realtà e finzione, di verità e menzogna (le citazioni da Stevenson e Dostoevskj sono indicative).

Roth ci fa sperimentare il potere della letteratura svelando apertamente il meccanismo della metanarrazione davanti ai nostri occhi di lettori distratti:

           ma questo non era un libro che stavo studiando o un libro che stavo scrivendo.

Invece sì, è proprio ciò che sta facendo. E ancora:

Potevo capire la tentazione di annullarsi e diventare imperfetti o posticci in modi nuovi e divertenti: vi avevo ceduto anch’io […] ancora più ampiamente di così nei miei romanzi: dove avevo la mia faccia, la mia voce, dove rivendicavo addirittura brani utili della mia biografia, e tuttavia, sotto la maschera di me, ero una persona completamente diversa. Ma questo non era un romanzo, e non andava bene.

Di nuovo: è proprio di un romanzo, invece, che si tratta, e noi che leggiamo lo sappiamo bene.

Quest’ultima citazione sembra dare una definizione di autofiction così come l’autore l’ha praticata finora, negandone il grado di attendibilità attraverso questo ulteriore e più sofisticato esperimento autofinzionale, che afferma di non esserlo in assoluto. Presentandosi infatti come una cronaca, Roth sembra voler affinare le sue armi narratologiche.

Per affermare cosa? Che non si può mai sapere fino in fondo cosa sia vero, o meno, neanche riguardo la Storia. E sono in gioco la credibilità e oggettività della realtà.

La narrazione era partita infatti col racconto dello stato allucinatorio dovuto ad un medicinale che ha determinato nel Roth personaggio (ma siamo certi che questa non sia la verità?) una forma depressiva acuta durata qualche mese.

Questa scarsa lucidità nel giudicare i fatti ritorna: nelle domande che il narratore rivolge a se stesso, e poi nel fatto che giungerà a dubitare di sé, a incarnare i panni dell’altro Roth, a sostenerne le ragioni impersonandolo.

Roth autore abilmente dissemina sottotrame, apre digressioni in cui il tema risulta essere sempre il rapporto verità-menzogna, e in cui l’olocausto e la questione ebraico-palestinese sono certamente rilevanti ma come discorso di secondo grado, forniscono il termine di paragone della Storia, sono il parametro dell’oggettività apparente, a fronte dell’insincerità plausibile della fiction letteraria.

Tutto il romanzo è incentrato sull’impossibilità di scoprire la verità, sia riguardo la vicenda dei due Roth, ma complessivamente riguardo la Storia e la realtà.

La nota per il lettore, alla fine del libro, ci toglie ogni dubbio:

              Questo libro è un’opera di fantasia […] questa confessione è falsa.

 

 

di Giorgio Galetto

Murakami: le connessioni irresistibili

Murakami: le connessioni irresistibili. Presentazione del Cahier “Mishima versus Murakami”

Murakami Haruki (per rispettare la tradizione giapponese che antepone il cognome al nome proprio)  è, senza dubbio, uno dei più grandi scrittori contemporanei. Affrontare un suo testo vuol dire accettare di trovarsi sospesi a testa in giù su un ponte mobile e non sapere più a quale dimensione si voglia davvero appartenere. Ci si sente solo liberi, emozionati, eccitati per quel respiro nuovo che si inala da ogni sua parola, da ogni nota che riempie l’aria e da quello stupore che ci fa intravedere mondi possibili.

Murakami: le connessioni irresistibili.

In una delle sue rare interviste, rilasciata nel 2018 a Deborah Treisman sul The New Yorker e che riporta l’allusivo titolo The underground worlds of Haruki Murakami, scopriamo uno scrittore e un uomo fuori da ogni schema, uno dei geni letterari dei nostri tempi, che pur nell’apparente equilibrio e nella pacatezza dell’uomo orientale, nasconde una frenesia e un desiderio di avventura che lo portano a esplorare mondi possibili e relazioni mancate. Murakami conosce l’importanza di non dare giudizi, di percepire situazioni e cose per quelle che sono, non che dovrebbero essere, per come il mondo si presenta a lui, pieno di suspence, di spiriti in cerca di risposte, di misteri nascosti dietro una cascata o nei passi felpati di un gatto. Murakami è un uomo schivo, amante della solitudine, che concede pochissime interviste e partecipa raramente a eventi pubblici:

Non faccio molta socializzazione. Mi piace stare da solo in un posto tranquillo, con molti dischi e, possibilmente, gatti.

Murakami: le connessioni irresistibili. I gatti, la corsa e la musica jazz sono le più grandi passioni dello scrittore giapponese.

Ma dentro di lui vive un universo immaginifico, un sistema costellato da milioni di piccoli esseri irreali, pecore immaginarie, uomini e donne concentrati su problemi impossibili da risolvere, figure oniriche ed evocative. Leggere il suo pensiero, oltre i romanzi acuti e visionari o i racconti in cui narra di situazioni e persone che descrive nella naturale evanescenza di un sogno, vuol dire avvicinarsi all’animo di un uomo fuori dall’ordinario, capace di non fermarsi mai alle apparenze, incapace com’è di innalzare muri o barriere tra quello che viene definito mondo “reale” e quello che non lo è:

I lettori a volte mi dicono che scrivo di mondi irreali e che il protagonista va in quel mondo e poi torna in quello reale. Ma non riesco quasi mai a vedere il confine tra mondo irreale e mondo realistico (and the realistic world).

Cioè non lo definisce “mondo non reale”, ma “mondo realistico”. Una sottile differenza semantica tra i due aggettivi che ci offre la possibilità di comprendere come la sua visione delle cose del mondo si basi semplicemente sulla stima di quella che si ritiene essere la “realtà reale”, e non su un’accettazione cieca di questa. È il suo calarsi in profondità, all’interno di realtà tutte possibili e tutte praticabili nelle loro regole e principi che permette l’accesso a una dimensione alternativa, a un universo separato e distinto dal nostro ma con esso coesistente. E questo è un espediente che lascia infinite possibilità, poiché se nella nostra realtà le cose si sono evolute in altre cose, in quella parallela potrebbe non essere accaduto o accaduto al contrario.

Murakami: le connessioni irresistibili. “Molto spesso il mio narratore è un ragazzo che avrei potuto essere ma che non sono io”. 

Nei romanzi di Murakami, però, non ci troviamo di fronte a storie alternative, a ucronie insomma, ma alla simultanea presenza, fisicamente misurata, di più dimensioni di realtà, di molti mondi. Esistono cioè “luoghi” e piani diversi di realtà e il significato delle cose può quindi non essere univoco e le azioni, lo spazio-tempo, le regole che sottendono il nostro mondo, possono assumere diverse direzioni e significati:

Quando mi calo nella scrittura, sono lì, all’interno di un pozzo profondo e mentre sono lì incontro cose strane. Ma mentre li vedo, sembrano naturali ai miei occhi. […] Mi guardo intorno, descrivo quello che vedo e poi, semplicemente, torno indietro. Se non tornassi sarebbe spaventoso. Ma sono un professionista, quindi posso tornare.

La naturalezza e la spontaneità con cui descrive il suo calarsi in un mondo diverso da quello in cui vive “normalmente”, ci mostra la capacità di essere scrittore visionario, immerso e vivente in diversi alterni mondi, perché conserva la consapevolezza di poterli dominare, passando da uno spazio all’altro, da un tempo all’altro, lasciando a ogni mondo le stranezze, le cose spaventose, i paradossi che gli appartengono. La curiosità lo spinge a inseguire storie, lungo il filo sottile dei sogni e dei desideri:

Molto spesso il mio narratore, il mio protagonista, è un ragazzo che avrei potuto essere ma che non sono io, ma è sempre una specie di alternativa a me.

Scrivere per Murakami è una routine, un impegno come correre o ascoltare jazz, ma sempre guidato da una profonda, volontaria scelta:

Una volta che mi siedo alla mia scrivania, già so cosa accadrà dopo. Se non lo faccio, se non voglio scrivere qualcosa, non scrivo. Scrivo quando voglio scrivere, cosa voglio scrivere e nel modo in cui voglio farlo. […] La scrittura ha bisogno di concentrazione e di resistenza, perché scrivere un libro non è così difficile, ma continuare a scrivere per molti anni è quasi impossibile.

Murakami Haruki. Scrivere come mestiere.

Un concetto per lui fondamentale, esposto e sviluppato in Shokugyō to shite no shōsetsuka (Il mestiere dello scrittore), pubblicato nel 2015 e arrivato in Italia solo nel 2017 (nell’edizione Einaudi, con la traduzione di Antonietta Pastore):

Chiunque può scrivere un romanzo, dal mio punto di vista, non è un insulto nei confronti di questo genere letterario, ma piuttosto una forma di elogio. Insomma, la narrativa è come un ring di lotta libera sul quale può salire chiunque lo desideri. […] Tuttavia, se salire sul ring non presenta particolari problemi, restarci a lungo è una faticaccia. Questo i romanzieri lo sanno bene. Scrivere un romanzo o due non è poi così difficile. Ma pubblicarne molti, mantenersi con la propria scrittura e sopravvivere in quanto romanziere, è tutt’altra cosa. Un’impresa dura, non alla portata di tutti. […] richiede qualcosa di speciale. Un certo talento e una certa fermezza sono necessari, è ovvio. Ma in più occorre una capacità specifica. C’è chi ce l’ha e chi no. Chi ne è dotato per natura, e chi l’ha acquisita per essersi sforzato anima e corpo.

Ma cosa pensa Murakami dei suoi personaggi, quelli che cercano, che a volte trovano e a volte no, che si perdono, che centrano gli obiettivi che si sono prefissi ma che alla fine non sono mai a loro agio nella realtà in cui vivono?

Per me è un tema importante mancare qualcosa, cercare, trovare. I miei personaggi cercano spesso qualcosa che è andato perduto. A volte è una ragazza, a volte una causa, a volte un obiettivo. Ma stanno sempre cercando qualcosa di importante per loro, qualcosa che comunque è andato perso. E quando il personaggio lo trova non è, però, felice. Ci sarà sempre una sorta di delusione. […] Perché se il personaggio è felice, non c’è alcuna storia. Quello che voglio fare è scrivere cose serie, complicate e difficili e per farlo devo calarmi, devo essere disposto a scendere sempre più in profondità.

Murakami: le connessioni irresistibili. Dalla delusione nascono grandi storie.

Ecco perché un Cahier che parla di lui e del suo bisogno di epifanie e di sogni. Perché Murakami è lo scrittore che fa dell’invenzione letteraria una musica di improvvisazione, libera, senza spartito, ma piena di inventiva e di slanci verso l’ignoto. Tutto si mescola, si unisce, si frammenta, per poi disfarsi ancora, mentre ci trasporta, con una scrittura ricca di citazioni, variazioni sul tema, passaggi segreti che si snodano in frasi apparentemente semplici, all’interno di un’armonia difficilmente raggiungibile. Murakami scrive come se suonasse ed è una musica familiare, riconoscibile, che si insinua in un quotidiano stravolto da fatti e circostanze strane e a volte orrifiche ma in cui ognuno di noi riesce a trovare il proprio appagante rifugio, le proprie connessioni irresistibili.

Sigrid Undset: contro il nazismo, la forza delle parole

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole 

Una perla rara dimenticata. Sigrid Undset è stata tra le poche donne (in tutto sedici) ad aver vinto il premio Nobel per la Letteratura. Una scrittrice norvegese che si oppose strenuamente al nazismo. Una voce da conoscere e amare. 

Nata il 20 Maggio del 1882, Sigrid proveniva da una antica famiglia di proprietari terrieri, gli Halvorsen, che nella prima metà del ‘700 si era insediata nella valle del fiume Atna, dove oggi sorge il meraviglioso Parco Nazionale di Rondane. 

Era stato il nonno di Sigrid, un sottufficiale, a muoversi per primo verso nord accettando una mansione in una workhouse. Le “case lavoro” erano istituzioni basate su una legge norvegese che autorizzava la polizia a trattenere poveri e vagabondi fino a un massimo di sei mesi, impiegandoli in diversi tipi di lavori “socialmente utili”, diremmo oggi. Chissà cosa l’avrà spinto tanto lontano, a vivere in un contesto tanto ingrato. Sappiamo che fu un cambiamento radicale: il nonno di Sigrid cambiò il cognome nome in Undset, ispirandosi a un luogo di cui la nonna gli aveva narrato. Un uomo duro ma anche volubile, testardo e inquieto, una figura che risalterà per contrasto con quella intellettuale e rassicurante del padre di Sigrid.

Ingvald Undset, il padre di Sigrid.

Ingvald è colto, curioso, aperto a nuovi stimoli e amante dei viaggi in Europa. Si laurea e poi conclude un dottorato in archeologia, divenendo un nome nel campo. Nonostante la morte prematura, ad appena 40 anni, la sua passione e le sue competenze nell’ambito della storia vichinga avranno una grande influenza su Sigrid e costituiranno terreno fertile per lo sviluppo del suo pensiero e dei suoi scritti. 

Sigrid somigliava al padre: cresciuta in un ambiente di liberi pensatori, era abituata a mettere sempre tutto in discussione. Mostra sin da bambina una personalità originale e anticonformista: non le piaceva la scuola, proprio come più tardi, da adulta, non imparò mai ad amare il suo lavoro da impiegata. A 27 anni, si dimetterà, per iniziare una nuova vita.

Introversa, solitaria e riflessiva, la sua vita è sempre stata nei libri. 

Capita che a molti venga dato ciò che era in origine destinato ad altri, ma nessun uomo può ricevere in dono un destino che non sia il proprio.

La sua vicenda personale è costellata di colpi di scena e di testa: come il matrimonio con il pittore Anders Castus Svarstad, con il quale aveva intrapreso una relazione “illecita” (Svarstad era sposato e aveva tre figli) tre anni prima. Svarstad era un uomo brillante e amante dei viaggi (il viaggio, un tema ricorrente nella vita e nell’opera di Sigrid), famoso soprattutto per la pennellate vivida e suggestive con cui ritraeva ora Chicago ora Londra, ora Bruges, Parigi, Roma e Napoli.

Un dipinto di Svarstad che ritrae Via Bocca di Leone, a Roma.

Lascia la prima moglie per Sigrid nel 1912 ma 7 anni dopo il matrimonio è già incrinato. I due avevano avuto tre figli, uno dei quali gravemente malato.

Sono anni difficili, in cui Sigrid trova rifugio nella scrittura.

Il matrimonio non funziona: il marito le tarpa le ali, anteponendo la propria carriera artistica a quella di Sigrid. Lei inizia a interessarsi alla questione femminile, indaga modelli e proposte, scrive di emancipazione, si trova a polemizzare con alcune posizioni del movimento femminista. Parallelamente, coltiva un suo percorso spirituale, studia e svolge ricerche sulle religioni scandinave. Scrive romanzi storici, raccolte di leggende, diviene un’autorità nel campo degli studi medioevali. 

Sigrid legge moltissimo anche opere a lei vicine. Traduce dall’inglese al norvegese, arrivando inoltre a elaborare critiche complesse e profonde su autori come le sorelle Brontë e David Herbert Lawrence. 

Il suo primo romanzo, nel frattempo, ha già dato scandalo, affrontando un tema delicato come quello dell’adulterio, da un punto di vista tutto femminile.

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole. Sigrid è giovanissima quando decide di inviare il suo primo manoscritto a una casa editrice. Il testo viene rigettato: è tutto da rifare. Lei non si abbatte, utilizza le critiche per correggere il tiro, rivedere lo stile, crescere nella scrittura. Il manoscritto successivo è un successo (e sarà la stessa casa editrice che aveva rifiutato la prima proposta a pubblicarlo).

A seguire ci saranno una serie di scritti in cui il tema dell’amore infelice ricorrerà come leitmotiv, sullo sfondo di ambientazioni ora moderne ora medievali. Gli orrori della prima guerra mondiale e i tormenti personali però la segneranno profondamente. La ricerca spirituale la porterà in quegli anni a scoprire il cattolicesimo, al quale si converte nel 1924.

A quel punto il matrimonio con Svarstad, secondo la legge cattolica, è nullo. E lei è una donna libera.

Nel 1928 la sua carriera è all’apice: vince il premio Nobel per la letteratura. Il cristianesimo entra nei suoi scritti in modo sempre più evidente, nonostante la conversione, in Norvegia – nazione quasi esclusivamente luterana -, sia vista con enorme sospetto. La sua morale è forte e peculiare ma continua a essere apprezzata anche da chi non ne condivide la spiritualità.

I suoi sono libri che spronano a occuparsi e preoccuparsi del prossimo, a vivere con responsabilità, a rispettare la vita e la natura intorno a noi. 

I suoi interessi investono pian piano anche la politica: Sigrid ricerca e scrive sulla filosofia del nascente partito nazista. Si dichiara acerrima avversaria del regime sin dai primordi, scorgendo dal 1933 in poi, nella figura di Adolf Hitler, l’incarnazione di un male feroce e aberrante che, come una profezia, esploderà di lì a qualche anno.

Nella Germania nazista le sue parole vengono bollate come pericolose, i suoi libri messi all’indice. Il suo nome entra presto nella lista nera della Gestapo. 

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole. Nel 1933, in Germania, gli studenti nazisti di più di 30 università saccheggiano le biblioteche in cerca di libri considerati una minaccia per la nazione tedesca. Tra gli scritti letterari e politici che vengono dati alle fiamme ci sono anche le opere di Sigrid Undset. (Credit: United States Holocaust Memorial Museum, Washington).

Quando Bjerkebæk viene occupata dalle truppe tedesche è costretta a fuggire. Due dei tre figli sono già morti, una di malattia, l’altro in battaglia. Nel 1940, insieme al figlio minore, si unisce al movimento di resistenza per poter attraversare la Norvegia e mettersi in salvo in Svezia, oltrepassando la città bombardata di Åndalsnes e la contea di Nordland. Dalla Svezia decide poi di salpare per gli Stati Uniti, dove per tutta la durata della guerra continua a scrivere e a tenere conferenze per la pace e contro l’ideologia nazista.

Riuscirà a rientrare in patria solo a guerra finita, ricevendo dal governo norvegese onorificenze e premi per l’impegno a favore della liberazione. Dalla guerra però non si riprenderà mai. Vivrà pochi anni nel totale silenzio, per infine spegnersi e essere sepolta accanto al figlio e alla figlia: un tumulo con tre semplici croci di legno scuro, nel piccolo villaggio di Mesnali. 

Sigrid Undset

 

 

 

Potrebbe piacerti anche: La Storia delle Donne

Nello spazio e nel tempo

Nello spazio e nel tempo della scrittura tutto può e deve essere possibile.

Tutto e il contrario di tutto, se “tutto” indica sì una quantità non ben definita (o irrimediabilmente difficile da contenere nell’immaginazione) ma anche e soprattutto la profondità con cui questa dovrebbe essere raccontata.

Ma nella scrittura in cui ci si imbatte e con cui si è costretti a fare i conti da più di vent’anni, il dono dell’imprevisto, del “tutto” complesso e stilisticamente superiore, ha lasciato il posto a patetici tentativi d’opera.

A cominciare dalla gestione del tempo e dello spazio.

  • Gestione dello spazio

Nello spazio e nel tempo della scrittura non si ha l’obbligo dell’informazione certa.

La contestualizzazione spaziale dietro alla quale molti autori del mainstream si rifugiano per i loro apparenti non confessabili pensieri e comportamenti, si realizza sempre in luoghi fintamente umanizzati, ingenuamente “reali”, dotati di una quantificabile e determinata distanza relazionale (vicino, lontano, a due passi da, sopra, sotto…).

Questo li conforta e li tranquillizza, perché attraverso esperienze semplici e ben collocate in un preciso spazio d’azione, possono narrare la banalità dell’essere. Ovvero, possono descrivere quello che “tutti pensano e sentono”, senza mai scoprire le loro vere intenzioni (sempre che ne abbiano).

Non desiderano altro che compiacere a tutti i costi, evitando accuratamente di risultare “pesanti” e complessi nel lessico, asserviti a un mercato editoriale sempre meno esigente.

Fingono oppure una spregiudicatezza sessuale, cercando di risvegliare nel lettore quell’eccitazione da iniziazione adolescenziale che bene si confà a letture distratte in assolati momenti vacanzieri o in tediose domeniche invernali.

Ricordiamo che lo scrittore non è uno storico, a meno che non scriva esplicitamente di fatti e uomini più o meno lontani nel tempo (ma allora si tratta di un lavoro di attenta ricerca, spesso di accademia). Non è neanche un giornalista (mestiere diverso e mal conciliabile con l’autorale).

Nella scrittura di romanzi o racconti si seguono regole diverse rispetto a quelle imposte dalla scrittura scientifica o giornalistica.

Nello spazio e nel tempo della scrittura non si ha perciò l’obbligo dell’informazione certa. Lo scrittore ha dalla sua lo strumento della più libera interpretazione di ciò che vede e vive – compresa quella di gestire una punteggiatura e una struttura del periodare svincolata da regole imposte per convenzione, perché profondo conoscitore di tutti quei dettami che si accinge ad infrangere e a sovvertire -.

Cioè è libero da ogni legame. Non deve piacere a tutti i costi. Non deve essere politicamente corretto, non deve ammantarsi di infinita umanità per scrivere.

Uno scrittore deve scrivere perché ha l’esigenza di farlo e di farlo senza rispettare regole preconcette, senza essere ingabbiato in uno status, senza obblighi morali.

I buoni sentimenti a tutti i costi, quelli decomplessificati, pensierini da scuola elementare di certi scrittori e poeti contemporanei o il loro rozzo humor nero, dovrebbero essere lasciati ai giornalisti del caffè del mattino, a certe riviste patinate, a certi “strilloni” che fanno dell’insulto un comodo alibi per nascondere l’assoluta mancanza di pensiero.

Parole mainstream. Si soffre la mancanza di complessità e di profondità di pensiero.

Nel narrare un’azione, una storia o un singolo istante fatto di sensazioni o percezioni, gli scrittori cólti possono invece sottrarsi dall’obbligo di precisare il luogo in cui tutto si svolge.

Possono delinearne semplicemente i contorni, descriverne solo alcune caratteristiche o raccontare anche i più piccoli dettagli, senza però permettere il riconoscimento di un luogo preciso, che abbia nome e coordinate certe e, magari, instillare nel lettore il dubbio che si tratti di un sogno, di un’allucinazione, di una rêverie, insomma.

Il luogo deve suscitare curiosità e interesse nel lettore, senza però svelarsi troppo. Niente di più facile che risultare banali.

Anche quando uno scrittore cita il nome di un luogo e ne indica sezione e inquadramento, questo può risultare ineffabile, difficile da cogliere nella sua interezza.

Perché uno scrittore deve rispondere soprattutto a se stesso, alle sue intenzioni, alle sue sensazioni.

E queste mai saranno dirette verso spiegazioni pedisseque e non richieste, verso il tutto esplicitato, perché è il mistero del vero/non vero, che da sempre avvolge la finzione letteraria, a costituire l’unica e la sola regola dell’animo autoriale.

  • Gestione del tempo

Usciamo dalla linearità. Deformazioni nello spaziotempo.

Posso fare lo stesso con il tempo?

Apparentemente no, perché si suppone che, per convenzione, il tempo sia lineare o unidirezionale, una sorta di freccia lanciata verso un obiettivo che siamo certi possa trovarsi solo davanti a noi.

Ma se abbandonassimo le convenzioni per una moderna relatività, potremmo collocare ogni cosa all’interno di un momento che non avrebbe specifiche dettagliate.

Certo la difficoltà nel discorso narrativo sta nell’uso imprescindibile del tempo verbale, mi si potrà obiettare. Vero, ma se usassimo con attenta esperienza momenti verbali differenti, magari all’interno di un flusso di coscienza, allora sì che il tempo non avrebbe un periodo fisso e statico, preciso, ma tutto sarebbe insondabile, sospeso, ammantato di quel mistero che permette di essere lì dove si desidera essere, dove la nostra mente vuole abitare, visitando luoghi o persone del passato o del futuro, pur restando fisicamente ancorati a terra.

La finzione letteraria non può avere confini.

Nello spazio e nel tempo, la finzione letteraria non può avere confini.

Le strutture non possono più essere rigide, predeterminate, limitanti. Non si può più affermare con certezza che il mio atto narrativo debba imprescindibilmente essere raccontato solo utilizzando determinazioni temporali certe e assolute. Poiché nulla è più instabile e relativo del tempo.

E la scrittura, linguaggio e parodia di se stessa, per “arrivare” davvero e per fare a pezzi codici, significanti e significati, invenzioni verbali, dovrà sempre esplodere “in schegge di incandescente (espressionistica) espressività”, come scrisse Alberto Arbasino.

 

 

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

Scopri i nostri Corsi in Scrittura

Per approfondire la tematica Manifesto Decostruttivista

Introduzione al concetto di Entropia in Scrittura

L’Entropia (dal greco. ἐν «dentro» e -tropie «-tropia» volgere, quindi tendenza a rivolgere l’attenzione in varie direzioni) è un concetto scientifico che misura il grado di equilibrio raggiunto da un sistema in un determinato momento. Ma può divenire strumento per lo scrittore. Vediamo quindi un’introduzione al concetto di Entropia in Scrittura. 

La II Legge della Termodinamica afferma che l’energia termica (il calore) fluisce sempre da un corpo più caldo a uno meno caldo e mai in direzione contraria. Se concepiamo il tempo come lineare, allora possiamo affermare che tutto ciò sia assolutamente vero, poiché prima si nasce e poi si muore e mai viceversa.

Ma il tempo è davvero lineare?

Il concetto di Entropia in Scrittura potrebbe riassumersi come l’ordine nel disordine o viceversa, poiché il tempo non è una lunga linea unidirezionale e quindi non possiamo distinguere tra passato e futuro.

La scrittura usa l’entropia come energia interiore, da impiegare per analizzare, descrivere, precisare, trasformandola così in uno strumento, in un pensiero, coniugando lo spirito scientifico con la sottile sensibilità lirica.

Ma come appropriarsi di un concetto scientifico e farne uno strumento di scrittura?

Le strade possono essere molteplici. Calvino utilizza, ad esempio, il concetto di entropia per il superamento del contrasto tra pensiero scientifico e pensiero umanistico, quindi tra sperimentazione e attività conoscitiva.

Italo Calvino
Entropia in scrittura. Italo Calvino

Ma vediamo altri esempi pratici di scrittura entropica:

Gli operai ricurvi ci demoralizzano […] invece di finirla con quell’odore di olio. Ci si arrende all’odore e al rumore come ci si arrende alla guerra e per notti intere quel rumore d’olio proprio come se mi avessero messo un naso nuovo, un cervello nuovo per sempre

Céline,Viaggio al termine della notte

Louis Ferdinand Céline
Louis Ferdinand Céline

Sensazioni immediate che si percepiscono nelle solitarie passeggiate, il soffocante tanfo di sudore che si mescola al profumo di cibo e al fumo e al vapore liberato dall’acqua […] e al rinfrescante crepuscolo e al mio appartamento odoroso di calce fresca

Tadeusz Borowski, Il mondo di pietra

Tadeusz Borowski
Tadeusz Borowski

Abade: metà francese e metà annamita, viveva sul suo pianeta strano e solitario […] dove le nuvole, l’odore delle poincine le giungevano come una musica che emergeva a intervalli da un’oscurità urlante di discordanze

Thomas Pynchon, Entropia

L'edizione americana di "Entropia"
L’edizione americana di “Entropia”

 

Articolo di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

 

Scopri tutti i nostri Corsi in Scrittura

Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere

Scrivere poesie, quali sono i concetti base da conoscere? Scrivere poesie è un’arte che richiede studio e attenzione, oltre a una sensibilità spiccata che si esprime attraverso l’uso degli strumenti propri della lirica. Ecco tre concetti base che ogni poeta deve conoscere. 

1) La Metrica:

costituisce la forma della poesia, e dà significato e compiutezza al testo lirico.

È la regola, la base e la sua conoscenza è indispensabile per chi voglia fare poesia.

La metrica organizza il tempo della lirica e i suoni dei segni linguistici, mettendoli in relazione tra loro.

E fin dall’antichità i testi organizzati in versi erano anche testi per la musica, pensiamo ai testi trobadorici o ai sonetti dei poeti della Scuola Siciliana. Qui Jacopo da Lentini:

Andando, ad ogni passo
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c’a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare
.

Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere. Jacopo da lentini è stato tra i più importanti esponenti della Scuola poetica siciliana

Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere.

2) La Rima:

è l’identità di suono tra la parte finale di uno o più versi a partire dall’ultima vocale tonica. 

La rima è tecnica, visione formale del testo lirico e, come tale, complessa.

Esistono rime perfette e imperfette, baciate, alternate, incrociate, incatenate…Uno dei “modi” più semplici è quello di abbinare a due a due i versi da rimare:

 

Meriggiare pallido e assorto

Presso un rovente muro d’orto

Ascoltare tra i pruni e gli sterpi

Schiocchi di merli

Fruscii di sterpi

 

Ancora Montale ma stavolta una rima “incrociata”:

 

Spesso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l’accartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

 Un grande poeta conosce perfettamente le regole metriche e gestisce l’andare a capo in modo magistrale.

Eugenio Montale
Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere. Eugenio Montale, poeta del male di vivere

Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere.

3 – Il Verso Libero:

Quando si parla di verso libero, si affronta l’inevitabile tema dell’evoluzione della forma lirica in molti suoi aspetti. Spesso si ritiene che il verso libero sia soltanto una prosa lirica e non un verso misurato.

Ma nei Petits poèmes en prose di Baudelaire ci si trova davanti a un vero e proprio linguaggio poetico, anche se manca il verso vero e proprio. Stessa cosa in “Foglie d’erba” di Walt Whitman e nel famoso “Capitano! Mio capitano!”.

Capitano! Mio Capitano!
il nostro duro viaggio è finito,
la nave ha scapolato ogni tempesta,
il premio che cercavamo ottenuto, il porto è vicino,
sento le campane,
la gente esulta, mentre gli occhi seguono la solida chiglia, il vascello severo e audace:
ma, o cuore,
cuore,
cuore!
gocce rosse di sangue dove sul ponte il mio Capitano giace caduto freddo morto.

Walt Whitman
Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere. Walt Whitman, cantore della libertà nella sua più alta espressione

Il verso libero significa sì rifiuto della tradizione metrica e poetica, ma ricordiamo che questo è possibile solo attraverso una profonda conoscenza della metrica classica, tanto profonda da poterla rovesciare e riscrivere.

 

Scopri tutti i nostri Corsi in Scrittura nella sezione dedicata

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (II parte)

“A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (II parte)” è il proseguo del nostro viaggio attraverso la scrittura. Arte e pratica, percezione di noi stessi e del mondo, talento e scoperta del nostro Io più intimo. Dal III secolo a oggi, per un percorso che vedrà protagonisti scrittori, poeti, critici, filosofi e che ci permetterà di esplorare angoli nascosti e prospettive inedite. Oggi parliamo di: ispirazione, terrore, conclusione.

Leggi qui la prima parte

“L’arte della scrittura” è un’opera del III d. C. del poeta cinese Lu Ji, funzionario di corte. Risulta un testo quanto mai attuale.
  • Ispirazione

Riflessioni sull’ “Arte della scrittura”  del poeta cinese Lu Ji, III secolo d. C.

Sull’ispirazione

Giunge il momento in cui le emozioni

Ci soffocano, anche se ogni stimolo

 richiede risposte;

ci sono le volte in cui

lo spirito si paralizza.

Lo scrittore si sente come morto

[…] Come il letto di un fiume in totale siccità.

Spesso ci si domanda: cos’è l’ispirazione e come può permettere di respirare a pieni polmoni o soffocare anche il più intraprendente, vigoroso, temerario spirito che a lei sola si affida?

L’ispirazione (dal latino tardo inspiratio, da inspirare) può essere ricondotta all’idea di un intervento divino che permetta l’azione del pensare, in modo da rivelare la verità nascosta delle cose.

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (II parte) – L’ispirazione è un insieme di elementi, tutti necessari e che hanno bisogno di unirsi, incastrarsi, trovare una dimensione e uno spazio spirituale idoneo per mostrarsi.

L’ispirazione è talento, curiosità, vocazione, esperienza, tecnica.

Occorre così sondare il nostro spirito, la nostra anima, sprofondare nel più oscuro degli abissi per poter riemerge e portare alla luce quei pensieri più difficili da accettare, quelli più delicati, prepotenti, ingombranti, quelli che si trasformeranno in parola scritta.

L’ispirazione è cercare la verità che è dentro di noi e darle voce, in un percorso continuo, giornaliero, incessante, perché lo scrittore senta di nuovo, sotto i suoi piedi, scorrere le acque tempestose di un fiume in piena.

  • Terrore

Temo che il mio calamaio

possa asciugarsi

che le parole giuste

siano quelle introvabili.

Voglio rispondere all’ispirazione

di ogni momento.

Quale è la cosa che fa più paura a chi si avventura lungo il cammino della scrittura? Pensare di non avere più nulla da dire.

Cosa fare quando manca l’ispirazione? incalzare le emozioni è un errore che induce errore, dice Lu Ji.

Che la mente diventi all’improvviso un campo sterile, un deserto di sassi arrotondati dal vento, senza più punte aguzze, asperità, sorprese. Che svegliandosi una mattina ci si accorga che quella scintilla che bruciava dentro, si sia improvvisamente e irrimediabilmente spenta e che le parole, da strumenti pronti a incidere, sia siano trasformate in materia molle, deformabile, inefficace, non più capaci di uscire allo scoperto.

“E incalzare le emozioni è un errore che induce errore” ribadisce Lu Ji.

Ma come fare se il terrore ci assale? Se l’angoscia di non riuscire più a dare forza ai propri pensieri diventasse abitudine? Forse tornare a penetrare il mistero che unisce noi alla scrittura, che tiene saldamente avvinghiati intelletto e animo, quello che ci permette ogni giorno di attraversare la soglia che separa i nostri pensieri più veri dalle nostre parole.

  • Conclusione

L’uso della scrittura è base di ogni principio

Essa percorre distanze infinite

E nulla al mondo può fermarla.

Scende come pioggia dalle nuvole

[…]

Canta nel flauto e nelle corde

E ogni giorno ne esce rinnovata.

La scrittura: dal latino scriptūra, part. pass. del verbo scribĕre, che anticamente indicava il segnare lettere e parole con lo stilo su tavolette di cera, è diventata l’attività o l’arte dell’esprimersi, fino ad appropriarsi dell’abilità giocolieristica di giudicare le realtà e gli altri, in un divertimento fatto di rimandi, sottintesi, retoriche adulazioni.

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (II parte) – l’arte dello scrivere racchiude noi stessi.

La scrittura è un’arte e come tutte le arti non conosce se stessa mai fino in fondo.

Spesso si decontestualizza e diviene narrazione forzatamente oggettiva ma profondamente distaccata, o si fa partecipe, alludendo a sentimenti e a sensazioni che si confidano come condivise, o si frammenta, si spezzetta, si frantuma per raccontare realtà, un altrove soggettivo e prepotentemente evocativo.

La scrittura è farsa del quotidiano, finzione ed enfasi, piacere puro, virginale o contaminazione di idee volutamente provocatorie o è delicatamente attenta, sottile, persuasiva.

La scrittura, l’arte dello scrivere, comunque si esprima, racchiude noi stessi, a volte poco, a volte interamente ma, ricordiamolo, mostra sempre chi siamo, racchiusi dentro un lungo e complesso flusso di coscienza o in un piccolo, breve ed emozionante haiku.

 

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (I parte)

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (I parte): partiamo per un viaggio alla ricerca delle emozioni della scrittura.

“L’arte della scrittura”, opera del III d. C. del poeta cinese Lu Ji, funzionario di corte, risulta un testo quanto mai attuale. Dopo averlo letto e interiorizzato, mi sono chiesta come mai la scrittura, da sempre considerata pratica sacra, valore da proteggere, in cui contenuti ed estetica dovrebbero unirsi al rigore e all’onestà intellettuale, sia stata vista invece, in certa letteratura odierna, come una pratica inutile a cui applicarsi, un mero passatempo in cui trastullarsi.

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (I parte) – La scrittura è pratica sacra, in cui contenuti ed estetica dovrebbero unirsi al rigore e all’onestà intellettuale.

Il mondo ha bisogno di riscoprire nella scrittura una guida anagogica, una maestra di vita e di necessità intellettuale e sì, anche fisica, carnale, capace di occupare lo spazio e il tempo senza limiti e barriere.

Lu Ji traccia una strada, una linea di pensiero che potrà sembrarci anacronistica e che potrebbe anche risultare estranea a una prima lettura, ma che ci permette di guardare oltre il tempo e noi stessi.

Dobbiamo riappropriarci di bellezza, contemplazione e azione, abbandonando banalità e cliché

Pensare che quelle parole, pronunciate nel III secolo d.C., siano talmente radicate in noi, può allarmarci, disorientarci, ma anche permetterci di riflettere sul come riappropriarci di tanta bellezza, contemplazione e azione, abbandonando banalità, cliché e ritrovando il desiderio, il piacere della scoperta, della curiosità, dell’emozione.

Sull’inizio:

       A occhi chiusi ascoltiamo

       la musica interiore,

       smarriti tra domande e pensieri.

      […]

     Mettiamo immagini e parole

     tra quelle non raccolte

    dalle generazioni precedenti. 

L’inizio, l’incipit, il principio. Quando inizi a raccogliere i pensieri per trasformarli in parole, è come quando cerchi i suoni, la tattilità di emozioni non raccontate prima. La scrittura è una eco profonda tra spiritualità e materialità, contatto con noi stessi e con la realtà che percepiamo. Musica interiore che si fa parola, risonanza di immagini che nella nostra mente si saziano di desideri e di profondità.

L’inizio è tutto. È il modo in cui mostriamo come vogliamo essere, cosa vogliamo mostrare di noi e del nostro sentire.

L’inizio riporta il tutto a una rete di simboli e valori.

È il pensiero racchiuso in una parola, attimo che si fa tempo indefinito e che riporta il tutto a una rete di simboli e di valori. L’inizio è ciò che ci distingue, è la soggettività, l’unicità, l’essenza stessa del percepire e del percepirci.

Sullo scegliere le parole:

    Il poeta fa luce nell’oscurità profonda, 

    che questo voglia dire rende facile il difficile,

    o difficile il facile

Scegli, seleziona, ragiona sulle parole da unire ad altre parole, in un incedere a volte leggero, a volte faticoso, come quando inizi un viaggio, sapendo che la strada che hai scelto ti porterà là dove hai deciso di andare o dove la scrittura decide di condurti.

La scrittura è spirito vivo e sostanza immateriale che fin quando rimane dentro di noi è immersa nel disordine rimbombante dei pensieri.

Ma quando è pronta a staccarsi, a uscire fuori e possiamo farne corpo vivo e suggestione, allora desideriamo di assaporarne ogni singola vibrazione, ogni più piccolo momento.

Ma quanto è difficile scegliere le parole giuste?

Quanto ci costa enumerare, arricchire, sfamare i nostri pensieri con parole a più alto valore nutritivo, per far germogliare i nostri sentimenti? Siamo davvero noi a decidere sempre quali espressioni scegliere per descrivere ciò che proviamo o è la scrittura che, come un fuoco ardente, semina scintille e accende tutto ciò su cui si posa?

  Continua… Leggi qui la seconda parte

 

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, storica dell’Arte e critico letterario)

Scopri la nostra offerta formativa dedicata alla Scrittura visitando la pagina Corsi. 

L’autore dentro il libro

L’autore dentro il libro.

Ci sono libri e autori di cui si parla con passione e spesso con un vero e proprio sentimento di amore. Ci si lascia avvolgere, soffocare, accarezzare come se fossero amanti, amici, complici. Esistono poi autori e libri di cui si parla perché hanno rappresentato il momento topico di una qualche generazione o hanno raccontato di mondi alterati e di falsi miti.

Ci sono autori e libri che raccontano se stessi, che si autorizzano a essere capolavori, che creano dipendenza, rancore, frustrazione, eccitazione.

Autori di cui temi il giudizio mentre leggi voracemente parole pensate e spesso non pronunciate:

Eppure tu… avrai tenuto tra le braccia, come adesso tieni me, chissà quante donne. […] Certo sono tua moglie ma vorrei anche un poco essere la tua amante.

Arthur Schnitzler pubblica questo piccolo spregiudicato capolavoro teatrale, intitolato Reigen (Girotondo), nel 1900. A causa di problemi giudiziari legati ad accuse di pornografia, verrà messo in scena soltanto nel 1920 al Kleines Schauspielhaus di Berlino con la regia di Max Reinhardt.

Un’opera audace, scomoda, intensa, che porta alla luce le ipocrisie delle regole sociali e morali del tempo, imponendo all’amore e al sesso una diversa dimensione, più leggera, effimera, coinvolgente. E Schnitzler lo troviamo lì, dentro la sua opera, dentro tutte le sue opere. Autore dentro il libro. 

L’autore dentro il libro. Arthur Schnitzler

Le guarda nascere. Si avventura in esse, nei rapporti umani, nella frammentazione dei sentimenti, in un continuo susseguirsi di emozioni, nella bellezza delle parole in cui tutto si cela o si svela.

Tutto in lui è creazione di sogni e suoni.

I suoi scritti sono universi di emozioni e fraintendimenti che si dispiegano sulla tela dell’egoismo umano, della difficoltà dei rapporti, della sovrapposizione dei desideri:

Godimento… estasi… benissimo, non c’è nulla da dire… è qualcosa di certo. In questo momento io godo…d’accordo, lo so, godo. Oppure sono in estasi, va bene. Anche questo è certo. E quando è passato, è passato e basta. Ma appena… come devo dire.. appena non ci si abbandona al momento, e si pensa al prima o al poi… be’, allora è finita: il prima è incerto… il poi è triste… insomma, ci si sente turbati e basta. Non ho ragione?.

Una verità o una parvenza di verità nascosta in un girotondo di parole, araldo di sensazioni dissimulate, in cui il rapporto tra due persone è destinato a perdersi, a dissolversi nell’istante della conoscenza reciproca.

Tutto appare finzione, realtà e finzione, una percezione del mondo che è ricerca estenuante di sentimenti possibili, di interiorità, di percezioni avvolte in belle frasi e che frammentano il reale in minuscole particelle che girano e si disperdono nel vento della quotidianità: “Ma la felicità non esiste. In genere, proprio le cose di cui più si parla non esistono… per esempio l’amore. È esattamente lo stesso”.

Cosa gli si oppone oggi? Di quali arditi sentimenti ci facciamo complici?

Il mainstream e la moderna letteratura o lirica da esposizione in autogrill, magari promossa sul palco di uno spettacolo domenicale, ha deteriorato in questi ultimi anni il rapporto costruttivo tra autore e lettore, riducendolo a un sistema unidirezionale, dove l’autore cita, autocitandosi, sentenze e aforismi, mentre il lettore fa sue e “spara” sul web citazioni delle autocitazioni, convincendosi di sentirle proprie solo perché poco impegnative e facili da interpretare.

Storie di maschietti assaliti da turbinose informazioni sessuali, di loro pensieri che generano ridicoli incontri con le voglie stringenti e passeggere, solo a guardare i lati più in vista di cameriere che vorrebbero soltanto tornare a casa dopo dieci ore di lavoro; di donne con emozioni e appetiti sessuali bloccati, che decidono che sia arte la mancanza di controllo, per poi rimuginare per ore sul perché.

Siamo invasi da “poesiucolaggini” che di impegnato hanno solo la scarsa conoscenza dell’ortografia di una lingua che si dichiara come propria: scalcinati, zoppicanti pensieri ammantati con vesti stropicciate e maleodoranti, da chiacchiere infruttuose sul cambio del tempo, il costo del sacchetto della frutta e i “progressi muscolari” fatti a Zumba.

E tutto è accompagnato da una scrittura che di misterioso e visionario non ha nulla.

Pagine e pagine imbrattate di banalità, infarcite di pedanterie, ricche di “sentito dire”, che viaggiano negli autobus caldi di sudore e svogliatezza, che respirano creme solari al cocco, che puzzano di liquame di sigarette elettroniche, che sono sporchi di sabbia e di noia.

Dove è finito l’autore dentro il libro? Dove troviamo il piacere di essere fragili, vulnerabili, instabili, incoerenti? 

Il dolore, come qualsiasi altro sentire, non è qualcosa che accade semplicemente. Non è universale né pretende di esserlo. È relativo, soggettivo, spesso arbitrario, ma mai banale:

E alla fine rimane un rettangolo vuoto, una finestra, una stella dietro una finestra, un lenzuolo steso alla finestra… o forse anche questo è un grande gigantesco incubo (Roberto Bolaño, I detective selvaggi). 

E eccolo, Bolaño è lì, dentro il suo libro.

Roberto Bolaño Ávalos – autore dentro ogni suo libro

È per questo che dobbiamo tornare a credere che la vera letteratura, la scrittura incorruttibile, visionaria, destabilizzante, esista ancora ed esista nei nuovi scrittori, nei talenti emergenti, nel coraggio del loro sentire, negli artisti a tutto tondo, che scrivono senza aspettarsi like distratti, senza attendere ricompense immediate, che donano la loro scrittura a chi vuole accoglierla e amarla.

In tutti gli scrittori, artisti, autori alla ricerca di sogni e di suoni, che sanno trasformare la loro scrittura in parola artistica che si svela, io credo fermamente e per loro mi batto, perché ogni opera d’arte sia davvero un avvenimento indicibile.

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

Elogio dell’Imperfetto

Elogio dell’Imperfetto.

I tempi verbali accompagnano le nostre azioni. Funzionano come motori di ricerca: fissano l’istante, aggiungono contorni, mostrano possibilità, filtrano informazioni.

L’imperfetto è il tempo di uno sguardo a qualcosa di appena passato, un voltarsi lento e appena accennato a tutto ciò che ancora ci segue e segna il nostro passaggio.

La sua etimologia latina imperfectus ci riconduce al non compiuto e che forse è o non è disponibile al compimento. Ma l’imperfetto ha in nuce il divenire, il desiderio o l’idea del miglioramento, la frenesia dell’attuazione, la tensione verso l’inesauribile.

Il perfetto, invece, è il tempo del compiuto o dell’irreparabile. Dal latino perfectus, participio passato del verbo perficere, ovvero finire, completare, impone l’idea del già compiuto, di un irreparabile destino, dell’impossibilità al superamento di ciò che siamo stati e che non saremo.

Perfetto è l’intero, la chiusura fisica e mentale, l’inammissibilità di un accrescimento, di una aggiunta, di una minima postilla al nostro essere. Se sei perfetto appartieni al tempo dell’arrestabile istante, della cristallizzazione dei movimenti e delle azioni che furono e che non più saranno.

Così principio e fine sono racchiusi in un unico guscio, gabbia di ferro dell’illogico che non soddisfa il presente né ipotizza un futuro e ci mostra l’impossibilità di mutare l’anteriore, lasciandocene solo il ricordo.

Quando Schopenhauer parla del tempo come la forma ideale per l’apparizione della volontà, cita il presente come unico solo momento di cui abbiamo il reale possesso:

La forma dell’apparizione della volontà è solo il presente, non il passato né il futuro; questi non esistono se non per il concetto e per l’incatenamento della coscienza, sottoposta al principio di ragione. Nessuno ha vissuto nel passato, nessuno vivrà nel futuro: il presente è la forma di ogni vita, è un possesso che nessun male può strapparle…Il tempo è come un cerchio che giri infinitamente”.

Elogio dell’imperfetto. Arthur Schopenhauer

Il presente è l’atto del sentire momentaneo, fuggevole, arbitrario, frazione di tempo che non discerne il futuro né può voltarsi a guardare il passato.

Il presente è l’apparente, fugace insieme di mille percezioni, un intricato attimo di piacere o di dolore, ma questo istante si trova necessariamente invischiato nella tela di ragno di tutto ciò che siamo stati e che ci ostiniamo a credere di non essere più. Viviamo il presente come l’azione del futuro e ci affidiamo a un tempo che forse sarà, come unica conferma.

Il presente non è essere ma la negazione di esso. E come sottolineava Borges:

Contrariamente a quanto afferma Schopenhauer nella sua tavola di verità fondamentali, ogni frazione di tempo non riempie simultaneamente lo spazio intero, il tempo non è ubiquo”.

Così mi ostino a essere perché forse sarò e non potrò più essere ciò che sono stato.

L’imperfetto è il tempo della potenzialità, della padronanza del senso, capace di spostare il piano di realtà da un livello all’altro. Si mostra a noi come un filo di lana che si allunga verso un presente futuribile. È il tempo delle istanze, della speranza di poter ancora essere o non essere, la porta di passaggio tra diversi piani, un nuovo spazio d’azione.

L’imperfetto penetra il vuoto oscuro del perfetto mostrandoci la strada verso un viaggio iniziatico alla conoscenza di noi stessi, senza limiti, né strutture logiche, né frazioni oppositive.

Perché la vita è un istante imperfetto” (F. Kafka). E così, siamo “imperfetto”, sempre.

 

di Mariaclara Menenti Savelli