Identità in fuga

Identità in fuga: alla ricerca dell’autenticità nell’era dei social media

Pirandello e De Martino sulla crisi dell’identità e della presenza 

Luigi Pirandello pubblica a Roma nel 1904 “Il fu Mattia Pascal” (inizialmente sulla rivista “Nuova Antologia”, poi in un volume indipendente). È un romanzo complesso dal punto di vista narrativo, ricco di livelli di lettura e che per questi e altri motivi, continua a destare l’interesse degli studiosi e dei lettori contemporanei. I temi affrontati sono di estrema attualità, per l’analisi profonda di concetti come l’identità, la libertà, la ricerca del significato stesso dell’esistenza.

Luigi Pirandello

Pirandello riflette sull’identità dell’individuo in un mondo che impone spesso alle persone di indossare maschere sociali, di mutare la propria vera essenza, per ricoprire un ruolo che permetta l’accettazione, il consenso e l’omologazione.

Il protagonista Mattia Pascal sperimenta il concetto di identità attraverso un drastico cambiamento di vita e di disconoscimento della “presenza”, nel momento in cui finge la propria morte per poter diventare qualcun altro.

Un tema assolutamente rilevante nel nostro tempo, in cui sembra che l’identità individuale sia messa in discussione, spesso negata, nascosta, a causa della pressione di una società che impone standard sempre più alti e che si affida ai “like” dei social media. Gli individui si trovano a gestire così diverse identità fittizie, a causa della “natura fluida” del mondo contemporaneo, come magistralmente analizzato da Zygmunt Bauman in “Intervista sull’identità”:

Nel nostro mondo fluido impegnarsi per tutta la vita nei confronti di un’identità, o anche non per tutta la vita ma per un periodo di tempo molto lungo, è un’impresa rischiosa. Le identità sono dei vestiti da indossare e mostrare, non da mettere da parte e tenere al sicuro…

Opera di Vadim Bogulov

Così nel protagonista del romanzo di Pirandello, Mattia Pascal, si innesca un vero e proprio conflitto tra la libertà individuale e le aspettative sociali. Dopo aver abbracciato la sua nuova identità, Pascal diventato Adriano Meis, sperimenta una libertà che non aveva mai conosciuto prima. Tuttavia, si accorgerà che anche questa sensazione di libertà è effimera, poiché fortemente limitata dalle convenzioni sociali e dalle aspettative degli altri.

Eppure la scienza, pensavo; ha l’illusione di render anche più facile e più comoda L’esistenza! Ma, ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando, io: «E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica?»

L’indagine sul perché dell’esistenza individuale è sempre strettamente legata al senso stesso della vita, della nostra presenza nel mondo che può esserci confermato dalla ricerca spirituale o dall’impegno sociale, ma la sfida più grande, nella società moderna, rimane quella della ricerca universale del significato, del motivo per cui esistiamo e della conferma della nostra identità.

Nel 1948 Ernesto De Martino pubblica “Il mondo magico: Prolegomeni a una storia del magismo”, saggio fondamentale che pone in luce il concetto di “crisi della presenza” e ci accorgiamo che le interpretazioni antropologiche di De Martino e l’analisi della presenza nel contesto della narrazione di Mattia Pascal, si intrecciano in maniera sorprendente.

Ernesto De Martino

Il rischio di perdere la presenza ha luogo nei momenti critici dell’esistenza quando sporge la naturalità di ciò che passa senza e contro di noi.

Nel romanzo di Pirandello, il concetto di crisi dell’identità è sicuramente il tema dominante. L’apparente atto di liberazione da un’identità per abbracciarne un’altra si rivela, tuttavia, una condanna alla solitudine e alla perdita della presenza effettiva nella vita degli altri, mettendo in luce così il problema dell’autenticità e del significato dell’esistenza nell’epoca moderna.

La “crisi della presenza” teorizzata da De Martino, sottolinea il senso di alienazione e di distanza tra noi e il mondo, che caratterizza lo “stato” di modernità. Per De Martino l’individuo moderno si trova spesso in una condizione di “assenza da sé stesso”, incapace com’è di sperimentare la vita in modo totalizzante, pienamente presente.

La propria presenza personale, l’esserci, l’anima, «fugge» dalla sua sede, può essere «rapita», «rubata», «mangiata» e simili; è un uccello, una farfalla, un soffio; ovvero deve essere «riparata», «recuperata»; ovvero ancora deve essere «trattenuta», «fissata», «localizzata».

Questa “crisi della presenza” si riflette sull’idea di disintegrazione dell’identità individuale, tema parallelo a quello affrontato da Pirandello nel suo romanzo. Infatti, Mattia Pascal, dopo la sua metamorfosi identitaria, si trova alienato dalla sua vita passata, alla disperata ricerca del significato di una esistenza frammentata, resa ancora più ardua dalla sua incapacità di sperimentare una presenza autentica nel mondo.

Attraverso la lente con cui questi due autori, indagano e si interrogano sulla ricerca di autenticità, identità e significato, possiamo comprendere meglio le sfide umane universali legate alla società attuale e al mondo dei social, in cui si tende, sempre di più, a perdere l’autenticità della presenza e il valore di sé stessi.

Giallo come la notte

Giallo come la notte

Genere tra i più amati, il giallo è complesso quanto lo sono le sue trame. Dal gotico del Settecento alle atmosfere cupe dei noir, esploriamo le radici, gli stili e gli autori che hanno plasmato questo genere. Attraverso un’analisi approfondita, sveliamo oggi i segreti dei gialli classici, degli hardboiled e dei thriller psicologici, offrendo una panoramica del “mistero letterario”.

La letteratura gialla moderna e contemporanea, nota anche negli altri generi di letteratura poliziesca e noir, è una categoria letteraria che ha il focus sulla narrazione di crimini, indagini e misteri, risolti attraverso analisi investigative e inaspettati colpi di scena. Prende il nome dal colore giallo delle copertine di una famosa Collana di narrativa della Mondadori, uscita a partire dagli anni Trenta del Novecento. L’idea di associare il giallo ai racconti polizieschi e noir anche in Italia fu ispirata dall’editore inglese Hodder & Stoughton.

La storia di questo genere letterario è molto più lunga e ricca di quanto si pensi: risale alla metà del 1700.

Il “gotico” è uno dei precursori del “giallo”: entrambi affondano le radici nell’enigma, presentando caratteristiche tematiche comuni.

Partiamo dai famosi romanzi gotici di metà Settecento come il “Castello di Otranto” di Horace Walpole, “I misteri di Udolpho” di Ann Radcliffe (uscito a Londra nel 1794 in ben 4 volumi), “Il monaco” di Matthew Gregory Lewis, e “Zofloya” di Charlotte Dacre, la ballata “La sposa di Corinto” di Goethe, “The vampire” di George Gordon Byron (romanzo scritto in realtà da John William Polidori, medico e amico di Byron), fino al celeberrimo “Frankenstein” di Mary Shelley – al secolo Mary Wollstonecraft Godwin – (e proprio queste due ultime opere sicuramente ispirarono Bram Stocker nel comporre il suo “Dracula”).

Il genere gotico

Il genere gotico ha avuto origine in Inghilterra e si è subito distinto per le atmosfere cupe e spettrali, e l’abbondanza di elementi soprannaturali che ne costituiscono le principali chiavi di lettura. Spesso le storie sono ambientate in castelli, cripte o abbazie in rovina, metaforicamente legate all’idea del mondo sotterraneo e del peccato, atmosfere che permettono di creare suspence e tensione, circostanze fosche e lugubri. Il genere gotico basa tutto l’intreccio sulle emozioni intense dei vari personaggi, le loro passioni, la presenza di oscuri segreti e di rivelazioni altrettanto scioccanti.

Il giallo

Il genere giallo prende la forma moderna solo nel XIX secolo con Edgar Allan Poe e Wilkie Collins, ma anche altri autori del “periodo d’oro” come Arthur Conan Doyle e Agatha Christie, hanno occasionalmente utilizzato atmosfere gotiche nelle loro storie, anche se i due generi hanno e conservano comunque la loro identità.

Il poliziesco

Il genere poliziesco invece ha radici profonde nella letteratura ed è considerato una delle forme più popolari di narrativa. Dalla letteratura antica a quella medievale abbiamo esempi di storie che appassionano i lettori per indagini e risoluzione dei misteri come “Il racconto del prete di København” di Geoffrey Chaucer, presente all’interno dei “Raccontidi Canterbury”.

Ma è con Edgar Allan Poe che conosciamo il primo vero personaggio investigatore: il detective C. Auguste Dupin. Poe pubblica, nel 1841, “I delitti della Rue Morgue”, una serie di racconti basati sul mistero e sull’investigazione. Nel 1860 esce “La donna in bianco” di Wilkie Collins, uno dei polizieschi più noti ed emulati, poiché introduce molti dei cliché del genere, come l’utilizzo degli indizi per risolvere un caso e i risolutivi “colpi di scena”.

La nascita di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, alla fine del XIX secolo, segna un punto di svolta nel romanzo di genere poliziesco, come l’arguzia e l’unicità dei personaggi di Agatha Christie, Hercules Poirot e Miss Marple, o Philip Marlowe, un investigatore privato duro e imperturbabile, partorito dalla penna di Raymond Chandler.

Il noir

Il genere noir invece enfatizza soprattutto le tenebre e la corruzione, spesso presentando protagonisti moralmente ambigui. La storia in un noir è pervasa da una sensazione di disperazione e fatalismo, con un’ambientazione urbana degradata come sfondo. In Europa Georges Simenon, il romanziere francese di origine belga, ha fatto conoscere questo genere a milioni di lettori, grazie al personaggio del Commissario Jules Maigret.

 

Ma quali sono i principali punti su cui si basa un romanzo del genere giallo, noir o poliziesco?

Innanzitutto, alla base deve esserci un mistero e un crimine; il protagonista è quasi sempre un detective privato o un investigatore della polizia ma l’indagine può anche essere condotta da un dilettante che si impegna a risolvere il mistero (personaggi che possono diventare protagonisti assoluti, con i loro pregi, difetti, unicità e a cui il lettore tende ad affezionarsi, desiderando ritrovarli in ogni storia);  una trama più o mena complessa, caratterizzata da tensione e suspense attraverso l’uso di indizi, falsi indizi e imprevisti.

I vari personaggi possono essere raccontati in maniera più o meno articolata, utilizzando una narrazione ricca di sfumature e dettagli che guidino il lettore verso la ricerca del colpevole o dei colpevoli. Inoltre, la storia si conclude molto spesso con la risoluzione del mistero e la rivelazione del reo attraverso un processo logico, o con un finale non-finale per dare al lettore la possibilità e il desiderio di continuare a seguire la storia in altri successivi romanzi (saghe o serie).

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, c’è stata un’ulteriore diversificazione con l’emergere di altri sottogeneri e con una varietà di stili e approcci del tutto particolari:

Giallo classico: genere del cosiddetto “Golden Age of Detective Fiction”, come Agatha Christie e Arthur Conan Doyle, che presentano omicidi complicati da risolvere, indagini difficili e minuziose, con colpo di scena finale, risolutivo per il caso. Esempi celebri di gialli classici moderni sono sicuramente quelli dello scrittore statunitense Rex Stout, inventore della figura dell’investigatore privato Nero Wolfe, un uomo intelligente quanto eccentrico (preferisce risolvere anche i casi più difficili senza mai uscire dalla sua lussuosa casa di New York, per dedicarsi alle amate orchidee e alla cucina).

Hardboiled: uno stile legato ad autori come Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Caratterizzato da detective privati duri e cinici, spesso coinvolti in casi di omicidio, che si esprimono con un linguaggio crudo e realista. Gli hardboiled spesso includono una narrativa in prima persona e situazioni di vita urbana atroci e brutali.

Poliziesco procedurale: uno stile molto particolare che pone al centro della narrazione il procedimento investigativo vero e proprio da parte della polizia e basato sull’accuratezza delle indagini e sull’intuito dei vari protagonisti e del loro settario punto di vista (avvocati, poliziotti, investigatori). Autori come Michael Connelly (i personaggi di Harry Bosch e Mickey Haller hanno preso vita sul grande schermo o nelle serie sulle principali piattaforme in streaming), Camilla Lackberg e Patricia Cornwell sono noti per questo stile.

Giallo Cozy: caratterizzato da un ambiente pittoresco e personaggi eccentrici. Gli omicidi possono essere presentati in modo meno dettagliato e le indagini sono solitamente condotte da un investigatore amatoriale o da un personaggio senza una specifica esperienza investigativa.

Thriller psicologico: sottogenere che pone in primo piano gli aspetti psicologici dei personaggi, creando suspense attraverso la comprensione delle loro motivazioni e dei loro tormenti emotivi. Una delle caratteristiche interessanti e peculiari del thriller psicologico è affidata alla tecnica del “narratore inaffidabile”. Annoveriamo moltissimi autori di questo genere come Shane Stevens con “Io ti troverò”, Steven King con “Misery”, Patrick Mcgrath con “Follia”, Robert Bloch con “Psycho” (arrivato sul grande schermo grazie alla indimenticabile versione di Alfred Hitchcock), Alex Michaelides con “La paziente silenziosa”, Donato Carrisi con “Il suggeritore” o Piergiorgio Pulixi con “L’Appuntamento”.

Giallo Storico: romanzi ambientati in determinati periodi storici che aggiungono profondità e veridicità al racconto, attraverso un’accurata ricerca storica e una avvincente narrazione. James Ellroy, Ken Follett, Paul Doherty, Maurizio De Giovanni, Carlo Lucarelli, Ilaria Tuti, e solo per citarne alcuni.

Questi stili sono molto spesso combinati tra loro o ibridati per creare trame intricate, complesse e ancora più coinvolgenti.

Il genere giallo in Italia

Ma la letteratura gialla in Italia presenta, oltre gli stili già evidenziati, alcuni del tutto particolari che vale la pena menzionare:

Giallo all’italiana: un sottogenere che affonda le proprie radici nella tradizione letteraria delle varie regioni italiane e che fa uso di un linguaggio misto (italiano e gergo dialettale) in uno stile che unisce mistero e umorismo. Nel 1946 esce per la prima volta in cinque puntate sulla Rivista Letteraria “Letteratura”, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda, in cui il pubblico conoscerà il Capo della Squadra Mobile di Polizia Francesco Ingravallo (detto “don Ciccio”). Romanzo noto soprattutto per il pastiche linguistico, caratterizzato dalla commistione tra i vari registri della lingua italiana e il repertorio dei tanti dialetti.

In anni molto più recenti, Andrea Camilleri crea il personaggio di Salvo Montalbano, un Commissario siciliano intelligente e astuto. Attraverso il racconto delle sue investigazioni – indagini che spesso coinvolgono la sua vita privata – viene narrata la realtà isolana e italiana, fatta spesso di vendette, collusioni e intrighi. Perché come affermò Camilleri in un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica: “Leggere le pagine dei quotidiani siciliani è, purtroppo spesso, assai più appassionante di un romanzo giallo”. Tracciato con attenzione e realismo anche uno dei pochi protagonisti donna dei romanzi polizieschi: il vicequestore Vanina Guarrasi nata dalla penna della scrittrice, anch’essa siciliana, Cristina Cassar Scalia.

Giallo politico: le trame di questi romanzi sono costruite sugli intrecci tra politica e corruzione. Gli autori esplorano quello che viene chiamato “il lato oscuro” del potere e delle relazioni politiche, connettendolo a una dimensione di critica sociale. Uno degli autori più noti di questo particolare sottogenere è Carlo Lucarelli.

Giallo mistico: alcuni autori italiani incorporano elementi del folklore italiano o della mitologia nel loro giallo, aggiungendo una dimensione di magia o mistero alle trame dei loro romanzi.

“Almeno la metà dei racconti gialli pubblicati, vìola la regola che la soluzione, una volta svelata, deve sembrare inevitabile”.

 Raymond Chandler

Mary Henrietta Kingsley – L’incontro con il selvatico

Mary Henrietta Kingsley

L’incontro con il selvatico

La tematica della relazione tra essere umano e specie selvatiche è oggi quantomai attuale. Dove si trovano i confini del nostro spazio, ora che siamo in otto miliardi su questa terra? Dove finisce la città e dove inizia il bosco? E possiamo poi davvero considerare il bosco come spazio sacro della selvaticità, quando molti fatti di cronaca recente dimostrano che neppure in quei luoghi è consentito all’animale di comportarsi come tale, di agire o reagire fuori dagli schemi che la nostra fantasia, compromessa dai modelli disneiani, ha a esso riservato?

Mary Henrietta Kingsley.

Mary Henrietta Kingsley è stata un’esploratrice britannica, figlia dell’antropologo George Henry Kingsley. Vissuta nella tranquillità della campagna inglese fino alla mezza età, alla morte del padre abbandonò il confort della casa (ma anche il soffocante clima vittoriano) per spingersi fino all’Africa più inesplorata. Siamo alla fine del 1800. Dal padre ereditò la passione per gli studi etnologici, campo nel quale diede un contributo rilevante. Ma l’interesse della Kingsley si spinse più in là, verso le scienze naturali e lo studio della biodiversità.

I suoi diari sono popolati di incontri con i “favolosi cinque” d’Africa e non mancano tête-a-tête con coccodrilli, grandi felini, ippopotami.

La Kingsley scrive in un’epoca – quella delle grandi esplorazioni – che presenta caratteristiche ben definite. Oltre all’esaltazione, al puro desiderio di scoperta e alla volontà di documentarla, erano saldi nell’esploratore un certo senso di superiorità dell’uomo (ovviamente bianco), nonché una visione opportunistica della ricerca, spesso finalizzata all’accaparramento di nuove risorse o all’apertura di nuove rotte commerciali. Gli animali erano visti, il più delle volte, come trofei da conquistare dopo una lunga caccia o come mere curiosità scientifiche da gabinetto delle meraviglie. Si era ancora molto lontani da una concezione ecologica che ne legasse l’esistenza ai territori o che ne riconoscesse il valore all’interno di reti complesse. Mary Henrietta Kingsley è inserita nel contesto imperialista dell’epoca, dove la caccia è parte integrante dell’esperienza naturalistica e l’esplorazione è funzionale a ricavarne un vantaggio economico o strategico.

Nonostante questo, ella riesce a trattare l’incontro con la vita animale (così come, del resto, molte altre materie) con un rispetto spesso carente persino al giorno d’oggi. Innanzitutto, riconosce di essere “fuori contesto” e decide di agire di conseguenza.

Questa consapevolezza la porterà a inserire ogni reazione animale in una cornice (etologica ed ecologica, diremmo oggi) ben precisa, in cui la presenza umana è sempre disturbante o al massimo, simile a quella di un ospite che non sempre sa come comportarsi e che viene guardato, dagli abitanti non-umani del luogo, con la benevolenza del padrone di casa il cui ospite maldestro abbia fatto cadere del tè sul tappeto. Sa che occorre limitare al massimo errori e interferenze.

Gli incontri con la vita animale sono spesso fugaci, momenti fuori dal tempo, attimi rubati allo scorrere dell’esplorazione e tracciati, nei diari, con parole ricche di rispetto e ammirazione.

Cadeva una pioggia maestosa con grande fragore, faceva a brandelli foglie e fiori (…) salendo su un mucchio di rocce da un burrone che aveva iniziato ad allagarsi, non feci in tempo ad alzare la testa che mi ritrovai ad altezza occhi, a meno di un metro di distanza, un grosso leopardo, accucciato a terra con la sua magnifica testa voltata, le zampe anteriori divaricate. Batteva a terra con la coda. Non appena lo vidi, mi abbassai di scatto per un tempo che mi sembrò lungo un anno ma che deve essere stato in realtà meno di venti minuti. Rialzandomi cautamente, diedi una sbirciatina e lui non c’era più”.

Rispetto, ammirazione e giuste distanze, dunque. La relazione non deve essere romanticizzata.

Nei suoi diari, annota:

“Una volta un coccodrillo scelse di mettere le zampe anteriori sopra la prua della mia canoa per migliorare la nostra conoscenza. Ho dovuto colpirlo forte con una pagaia per farlo desistere”

In un’altra occasione, i cui protagonisti furono un ippopotamo e un ombrello, l’esito fu simile.

La “dama dei coccodrilli” è consapevole che ogni incontro è una sfida, un rischio, una scommessa. L’animale gioca questa partita utilizzando il suo istinto e così, allo stesso modo, la Kingsley si trova spesso vittima della sua paura. Una paura ancestrale, che non può essere cancellata, in quanto parte essa stessa dell’esperienza umana. Un’emozione da mettere in conto quando ci si accosta a un predatore ma che non deve condizionare l’esito dell’incontro stesso.

Kingsley studierà per anni le scienze naturali e la vita degli animali nell’ambiente africano, al fine di scoprirne usi e abitudini, di apprenderne il “galateo”.

“Non nutro terrore nei confronti di nessun animale selvatico, se non nell’unico momento esatto in cui me lo trovo a un palmo dal naso”.

Le paure resteranno e andranno gestite e affrontate.

La Kingsley si definisce di temperamento nervoso, si riconosce una certa fragilità. In realtà, affronterà decine di avventure del tutto fuori dal comune.

“Il leopardo africano è un animale audace… nel suo insieme è l’animale più bello che io abbia mai visto; l’unico modo per vederlo, l’unico modo in cui si possa avere un’idea completa della sua bellezza, è nella sua foresta natale, anche se non posso dire sia una gioia pura per una persona, come me, di carattere nervoso”.

Un esemplare di leopardo africano.

L’animale selvatico deve essere libero: questo è l’unico modo per vederlo e conoscerlo davvero.

In Congo, la Kingsley farà spesso la conoscenza con i sistemi di trappole del luogo (un giorno cadrà persino in una di queste, procurandosi una brutta ferita). Quando possibile, libererà i felini dalle gabbie. Di uno di questi “salvataggi” narrerà anche nei suoi diari: un leopardo, la cui mancanza di rassegnazione lo spingeva a sbattere contro le sbarre fino a ferirsi. La Kingsley, aperta la cella, lo esorterà a godersi la libertà: “E ora, via!!!” lo inciterà gridando.

Gatti nei libri: Céline e Bébert

Gatti nei libri: Céline e Bébert

Al suo Bébert, grosso e grasso gatto tigrato, lo scrittore Louis-Ferdinand Céline dedicò parole e pensieri profondi, sino a farne l’eroe di uno dei suoi ultimi romanzi, “Rigodon”, cronaca della sua fuga in treno da Parigi (poiché accusato di essere un sostenitore del governo collaborazionista di Vichy).

Durante il viaggio, attraverserà la Germania (ormai sconfitta) arrivando fino alla Danimarca, accompagnato dalla moglie Lili, mentre Bébert, inizialmente affidato a La Vigue, nome sotto cui celava l’attore cinematografico Robert Le Vigan, primo proprietario di Bébert (sempre che i gatti possano avere padroni!), li raggiungerà a metà del viaggio.

Una fuga rocambolesca negli ultimi mesi della Seconda Guerra mondiale, segnata dai bombardamenti e dall’invasione anglo-americana e raccontata da Céline con quella scrittura cruda, tagliente, a tratti provocatoria, che lo ha reso uno degli scrittori più difficili da amare e da comprendere.

Il bisogno di raccontare e l’inganno della narrazione vengono fusi in una logica insolente e ironica, come se tutto l’orrore che egli avverte e che lo circonda fosse solo materia di finzione, la sola capace di mutare le forme della realtà.

Ma Bébert è il suo eroe, il suo sguardo beffardo sul mondo, il suo modo di allontanarsi da una materialità che distrugge i suoi ideali e gli rinfaccia ogni giorno scelte ed errori di valutazione. Un personaggio magico Bébert, magico e misterioso, simbolo e araldo di una realtà che Céline vorrebbe penetrare, a cui vorrebbe accedere.

Bébert diventa così il suo alter ego: ha il suo caratteraccio, la sua indolenza, la sua “capacità” di sfidare il pensiero della morte o di restarne schiacciato.

Nella Trilogia del Nord, comprendente oltre a “Rigodon” anche “Da un castello all’altro” e “Nord”, Céline è sempre affiancato dal suo compagno felino.

“Si è in tre con Bébert, il resto vada al diavolo…”.

Nel suo Cahiers de prison, ormai in una lontananza forzata sia dall’amato gatto che dalla moglie Lili, Céline scrive a lei della sua condizione, dei suoi pensieri e di Bébert, come in un continuo colloquio allo specchio:

“Mia Lili carissima, sono tornato di nuovo in prigione come pensavo, ma ora sono tutto solo in cella e sto benissimo così. […] Parlo con me stesso, con te e con Bébert. Sono le brutalità che mi distruggono […] Sono sempre con te e con Bébert e vi parlo continuamente. Riesco ad astrarmi dalla realtà, come ben sai. E sono felice di saperti libera”.

E ancora nei momenti peggiori, in cui lo scrittore vorrebbe solo morire, è Bébert, in visita con la moglie, a salvarlo: “Quale felicità ho provato nel rivedere il mio Bèbert, con quel suo musetto da farfalla graziosa! Quanto lo amo! Bébert è così intelligente e gentile. Lui sì che capisce benissimo la situazione…”.

Bébert è la sua strada per una realtà oltre la morte, oltre la condizione umana, la prigionia continua, il dolore incessante e implacabile. E la visione frammentata di Céline appare ancora una volta scissa da una realtà che gli appartiene tanto dolorosamente da distaccarsene nel momento della scrittura. Nel suo bisogno di raccontare e nell’inganno stesso della narrazione, si fondono una logica fredda, spudorata e ironica e l’orrore stesso che la finzione porta con sé e che muta le forme della realtà, portando solitudine e disperazione. Ma Bébert è sempre lì, nell’orrore dei fatti, nei luoghi e nei personaggi più o meno immaginari, nella paura, “nell’odore della guerra che si prolunga negli effluvi dei villaggi carbonizzati, mal cotti, delle rivoluzioni abortive, delle imprese fallite… […] e io sprofondo nelle cianfrusaglie, nei ricordi e negli odori di catrame”, come nel suo” Voyage au bout de la nuit”.

Oltre l’ossessione del reale, nella sua poetica del disincanto, c’è Bébert con le sue invenzioni di gatto di strada, le sue sfide, i suoi rituali e i suoi occhi dolci e crudeli insieme. Bébert, la sua anima riflessa, il suo bisogno di serenità, di normalità, svincolato dai lacci della vita, capaci di procurare soltanto ustioni e dolore. La possibilità di amare senza troppe parole, senza doversi guardare troppo dentro. La piena libertà, il sé stesso finalmente compreso.

“Un gatto è l’incantesimo stesso, la delicatezza dell’onda”.

Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Thomas Stern Eliot pubblica nel 1939 la raccolta Old Possum’s book of practical cats (Il libro dei gatti tuttofare), da cui Andrew Loyd Webber trarrà il suo musical in due atti “Cats”. Old Possum è il nomignolo con cui Eliot si firmava nelle lettere che inviava ai suoi figliocci.

La prima edizione di Book of Practical Cats edita da Faber and Faber.

Esse erano ricche di giochi di parole e stramberie, tra cui molte poesie sui gatti. In casa di Eliot si era insediata una vera e propria colonia felina, impicciona e invadente (malgrado lo scrittore fosse ben consapevole del fatto che sono i gatti stessi a considerare gli umani invadenti e spesso impiccioni).

Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Con quella scrittura delicata ed elegante con cui si occupava delle cose del mondo, Eliot ha parlato anche di psicologia felina e del modo che hanno i gatti di interpretare il nostro mondo e le nostre “stranezze” quotidiane.

The Naming of Cats (Il nome dei gatti) è un piccolo capolavoro di ironia, di saggezza e di rispetto per compagni certo amatissimi, ma con i quali mantenere sempre la giusta distanza “di sicurezza”.

Anche dar loro un nome costituisce un problema di non poco conto:

“È un affare difficile mettere il nome ai gatti; niente che abbia a che vedere, infatti, con i soliti passatempi di fine settimana”.

E continua proponendo Tre Diversi Nomi da dare ai domestici felini:

“Prima di tutto quello che in famiglia potrà essere usato quotidianamente, un nome come Pietro, Augusto, o come Alonzo, Clemente; come Vittorio o Gionata […] tutti nomi giudiziosi per ogni occorrenza”.

Il secondo Nome sarà meno familiare e dovrà essere tale per cui i gatti possano sentirsi orgogliosi di sfoggiarlo.  Nome dignitoso, da gentiluomo o da eroe:

“Nomi di questo genere posso offrirvene un numero legale, nomi come Mustràppola, Tisquàss o Ciprincolta, nome Babalurina o Mostradorum, che si adattano soltanto a un gatto per volta”.

Infine, il terzo Nome, quello più semplice da ricercare, quello immediato, che permetta al gatto di sentirsi a suo agio, senza agitare convulsamente la coda e, con fare indifferente, studiare un nuovo graffiante attacco.

“Comunque, mettila come vuoi, un nome è ancora assente: quello che non potete nemmeno indovinare, né un’investigazione è in grado di scovare; ma IL GATTO LO CONOSCE, anche se mai lo confessa”.

Un Nome dai contorni indefinibili, forse impronunciabile, dal suono arcano e primordiale, che scatena nell’essere umano ricordi ormai rimossi. Un Nome su cui riflettere, che solo il gatto conosce, il solo che a lui si confà:

“Quando vedete un gatto in profonda ponderazione, il motivo, credetemi, è sempre lo stesso: ha la mente in piena contemplazione e in contemplazione del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome: del suo ineffabile effabileeffineffabile profondo e inscrutabile unico NOME”.

Un’illustrazione tratta dall’edizione del 1959 di Old Possum’s book of pratical cats di T.S. Eliot.

In The ad-dressing of cats (Come rivolgerci a un gatto) Eliot affronta l’annoso problema di come interpellare un gatto per non destare in lui il minimo sentimento di offesa, perché i gatti non sono differenti dagli umani con cui si degnano di convivere:

“Ora avete imparato abbastanza per capire che un Gatto non è affatto differente né da voi né da me né dall’altra gente” e ribatte che i gatti sono proprio come gli umani, saggi, pazzi, buoni o maligni, tanto che ognuno di loro può essere messo in lirica, descritto in versi che lo rappresentino.

Il libro dei gatti tuttofare racchiude un mondo di meraviglie.

Nell’ Ultima resistenza di Sandogàtt si narra di un gatto, rude pirata, che solca il fiume sul suo veliero, vero “terrore del Tamigi”, accompagnato dal suo fido in seconda dal nome Arruffapelo e dal nostromo, un tal Rognasparso. Il suo unico punto debole: la siamese Lady Spremilosso. Un vero gattaccio Sandogàtt che finirà i suoi giorni inghiottito dalle acque, dopo essere stato costretto dal nemico “a camminare in bilico a fil di parapetto”.

In Gattatràc e Gattasfascio si racconta la vicenda di una coppia di gatti famosi, matti e spericolati, trasformisti ed equilibristi che rovesciano, strappano, scippano e fanno sparire abiti e vestiti dai cassetti. Uno stile certo originale nel lavorare in coppia, facendo cadere a terra e con gran frastuono stoviglie e libri e anche un preziosissimo vaso Ming. Ma ci si chiede dappertutto: chi mai dei due avrà commesso simili fatti? “Di certo Gattatràc e Gattafascio, che sono insieme un gatto indefinito”.

Gatti dai nomi improponibili, come Vecchio Deutoronomio, sempre in meditazione, gatto dall’alto ingegno, impegnato com’è nelle faccende di economia domestica, o Brunero, il gatto del mistero, conosciuto anche con il nome di Brunero Zampaproibita, vero capo malavitoso, o Gàssgatt, il gatto di teatro.

di Mariaclara Menenti Savelli

Rilke: le misteriose esistenze

Rilke: le misteriose esistenze. Rainer Maria Rilke tra le pennellate di Caspar David Friedrich

Porre la propria attenzione su Rainer Maria Rilke (1875-1926) per arricchirsi di suggestioni nuove comporta, nel lettore, la nascita di un coinvolgimento emotivo degno di grande attenzione. Il poeta, infatti, fin da adolescente ha costellato la propria esistenza di pensieri e parole vicini al suo temperamento riflessivo, divenuti col tempo universali.

Rainer Maria Rilke protagonista di uno schizzo a matita preparatorio per la realizzazione del suo ritratto, opera di Leonid Pasternak.

La vita del poeta è stata segnata da incontri e viaggi oltre che dall’interesse per l’arte che ha offerto sempre un contributo prezioso alla sua crescita personale e professionale. Fondamentale è stato lo studio della filosofia, soprattutto quella di Nietzsche che ha fatto da base alla sua poetica profonda e spesso tormentata. Acuto osservatore della natura, delle vite interiori delle persone e delle cose, attraverso la lettura delle sue opere più famose come I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), Elegie Duinesi (1923), Sonetti a Orfeo (1923), si deduce come Rilke sia potuto diventare e sia tutt’oggi considerato tra i più importanti poeti tedeschi del XX secolo. 

Rileggere Rainer Maria Rilke – ogniqualvolta si ha bisogno di parole e sensazioni che illuminino mente e anima – richiede momenti in cui ci si ferma, si respira e si osserva il mondo con occhi diversi e nuovi.

Tornare a soffermarsi su Rilke, poeta boemo di lingua tedesca, è come accettare un invito a lasciarsi andare a un fiume di parole cariche di suggestioni che il lettore più attento custodisce in una parte della propria quotidianità e a cui può far visita quando ne sente il bisogno.

Alcune frasi e i pensieri spesso diventano parte integrante del proprio vissuto e sopravvivono come una voce amica di cui si sente l’eco anche a distanza di tempo.

Sfogliare pagine lette in passato equivale a un incontro tra persone conosciute.

Rileggere ed emozionarsi ancora ha l’effetto dell’ascolto della loro voce. Per quanto non si potrà mai sostituire una presenza con un libro, tuttavia un libro potrà sempre tentare di compensare una mancanza. Le parole, infatti, hanno un potere inimmaginabile, sono come melodie incalzanti e senza tempo capaci di trasportare lontano.

Lettere a un giovane poeta

Così è per “Lettere ad un giovane poeta”, testo epistolare di grande spessore letterario, pubblicato postumo nel 1929, capace di offrire spunti, spaziando dall’arte alla scrittura in modo intimo e suggestivo. Lo scambio epistolare, durato cinque anni, avviene tra un giovane allievo dell’Accademia, Franz Xaver Kappus, e il già noto poeta Rilke il quale si dimostra ben disposto ad affrontare con il giovane Kappus tematiche profonde e sincere.

Il testo diventa un piccolo scrigno di suggerimenti che prendono forma pagina dopo pagina, pensiero dopo pensiero. E ritrovarsi in quelli di Rilke non è cosa ardua, soprattutto per coloro i quali hanno permesso al linguaggio dell’arte di parlare alla loro anima senza fermarsi mai.

“La maggior parte degli avvenimenti sono indicibili” scrive Rilke in una lettera datata 17 febbraio 1903. “Si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura.”

È innegabile che le immagini richiamino parole, così come le parole a loro volta richiamano immagini, figure, colori. Silenzioso è il cammino degli eventi e delle voci come quello delle opere che in un luogo lontano legano il loro destino a pensieri sempre vivi e pulsanti. Breve è il percorso che collega le intuizioni pittoriche a quelle letterarie, lasciando negli uomini lo stupore e il desiderio di conoscere oltre.

Rilke e l’arte di Friedrich

Proprio in uno di questi percorsi è possibile trovare le opere di Caspar David Friedrich, pittore romantico tedesco, nelle cui opere, o “misteriose esistenze” secondo Rilke, la ricercata solitudine dei suoi personaggi e il silenzio che avvolge le poche figure ritratte di spalle, offrono una visione diversa del mondo in cui ciò che si vede è appunto indicibile e allo stesso tempo affascinante.

“Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, opera del 1818.

Tutto in Friedrich è protagonista: l’ombra, il silenzio, l’uomo, le rovine, la natura, l’orizzonte. Tutto ha una propria voce che, rendendo partecipe l’osservatore, narra storie e suggestioni in cui ognuno può ritrovarsi.

Caspar David Friedrich, Paesaggio con lago di montagna al mattino (1823-1835). La natura, nelle opere di Friedrich, è ricca di simbolismi.

L’uomo con la propria solitudine, è parte integrante della natura, di fronte alla quale si sente piccolo e senza voce, sia che venga ritratto nel contesto naturale come nel celebre “Viandante sul mare di nebbia” (1818), sia che si ponga nell’atto di osservare da una piccola apertura come in “Donna alla finestra” (1822). 

“Donna alla finestra” è un’opera di Caspar David Friedrich datata 1822.

L’osservatore segue l’andamento curvilineo e malinconico del corpo della donna e quasi si identifica con i suoi pensieri e il suo silenzio. L’ambiente spoglio e vuoto si contrappone alla natura limpida e serena che è al di fuori, che è possibile in parte vedere e in parte immaginare. Sembra che la vita luminosa sia in quell’”altrove” incorniciato dalla finestra e dal vetro soprastante con la quale la donna cerca una sorta di “corrispondenza d’amorosi sensi”. 

Rainer Maria Rilke è chiamato anche “il poeta filosofo”.

Corrispondenza che trova riscontro ancora una volta in un’altra lettera di Rilke datata 23 dicembre 1903, nella quale l’invito ad instaurare un legame con quello che di silenzioso ci circonda, diventa un messaggio di speranza, un invito ad accogliere quell’altrove che al di là di una finestra invita e appaga:

“Se tra gli uomini e voi non c’è comunione, tentate d’essere vicino alle cose, e non vi abbandoneranno; ancor esistono, prossime, le notti e i venti, che solcano gli alberi e molti paesi; ancora tra le cose e negli animali tutto è pieno di evento cui v’è concesso di partecipare.”

 

(di Miriam Guzzi)

 

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Il silenzio olfattivo

Il silenzio olfattivo: storia della deodorizzazione

 

I sensi non sono persone: ciascun senso è un polipaio di relazioni stabilite.
(Carlo Emilio Gadda)

 

Il silenzio olfattivo mette a tacere un senso tra i più importanti, responsabile delle funzioni di esplorazione, ricerca e selezione all’interno del mondo

 

A partire dalla fine del 1700, gli uomini occidentali smisero gradualmente di tollerare la vicinanza dei cattivi odori e della sporcizia delle città, visti come vizi capitali.

Iniziarono, perciò, ad apprezzare e a riscoprire i profumi che la natura incontaminata poteva offrire. Comparve in tutta Europa una nuova sensibilità, che spinse le classi più abbienti a fuggire dalle “emanazioni sociali” delle città ammalate e a cercare nei boschi e nelle montagne la purezza del respiro che, come dice Corbin, “rivelò l’armonia del loro essere nel mondo”.

L’attenzione al recupero degli odori naturali, però, finì per perdersi a favore di una lotta contro gli odori “cattivi”, fagocitando ogni sforzo olfattivo.

Nel febbraio del 1790 Noël  Hallé ordinò una prima indagine olfattiva sulle due rive della Senna. Da medico, distinse l’odore dei “poveri buoni” da quello dei “poveri irrecuperabili.” Iniziò, quindi,  il processo di deodorizzazione di Parigi, che coinvolse in poco tempo tutte le capitali europee.

Come scrive Lucien Febvre nella sua opera “La Francia moderna. Essenza di filosofia storica dal 1500 al 1640, 1961”: «In quegli anni le ricerche sull’aria da parte della chimica e dalla medicina infezionista, comporteranno un atteggiamento di inquietudine nei confronti degli odori, avvertiti come anticipatori di una potenziale minaccia». Un processo iniziato durante il terribile flagello della peste, che colpì l’Europa a partire dal 1300.

Il sorgere del concetto di individuo, il trionfo della visione borghese di appropriazione del mondo, la lotta di classe in cui il discrimine è tra coloro che “sanno di buono” e coloro che “sanno di sudore”, il rapporto tra anima e corpo, verranno tradotti in termini di metafora medica e olfattiva.

Il Risanamento rappresentò il grande piano di deodorizzazione di Parigi (1852-1869), realizzato dal barone-urbanista Haussmann su commissione di Napoleone III. La frattura fra le due linee di cinta (quella più interna dei Fermiers Généraux e quella più esterna di Thiers) definirà il nuovo confine fra la metropoli ingrandita e le Banlieue, oltre al perimetro del Dipartimento della Senna.

«La presenza alle porte di Parigi, ai confini con i quartieri più popolari, di emanazioni ripugnanti, costituisce una duplice minaccia: quella della salubrità e quella morale, che mettono in pericolo l’intera società.» (L. Roux, Sull’insalubrità e la minaccia alle istituzioni, 1841).

Il silenzio olfattivo e la deodorizzazione hanno risvolti sociali e culturali

E in Italia? Lo sventramento di Napoli rappresentò la risposta italiana al problema del risanamento olfattivo.

“Bisogna sventrare Napoli” fu lo slogan che supportò la richiesta del sindaco Nicola Amore della Legge speciale per Napoli, approvata dal governo nel 1885. Lo slogan ripeteva l’esclamazione del presidente del Consiglio dei ministri, Agostino Depretis, venuto a Napoli assieme a re Umberto I nell’anno del colera. L’espressione fu ripresa dal romanzo di Matilde Serao: “Il ventre di Napoli”.

Senza saperlo, “la profumazione del mondo”, regolata da decreti che contenevano norme severe e dettagliate contro il fetore sociale, porterà, da allora in poi, verso l’eccesso della deodorizzazione a tutti i costi, investendo anche odori che nulla hanno a che vedere con il mefite: il mondo indosserà l’inquietante volto del non-odore o “silenzio olfattivo”. Fino ad oggi.

 

Il silenzio olfattivo, “coprendo” e soffocando a ogni costo gli odori, ha provocato un’incapacità culturale di distinguere il naturale dall’artificiale

 

Perché profumiamo le nostre case con essenze chimiche che ci regalano “un senso di pulizia” ma che nulla hanno a che fare con l’igiene dei nostri ambienti? Lo facciamo, persino, quando consapevoli di inquinare. Abbiamo sviluppato una forte quanto fallace associazione tra odori artificiali (che spesso dichiarano di richiamare i profumi della natura) e una “virtù” di pulizia.

Il recupero degli odori e della nostra capacità di distinguere il naturale dall’artificiale è la sfida odierna e un obiettivo da perseguire. Per ritrovare non solo il nostro olfatto ma anche la cultura del mondo naturale che ci circonda.

L’olfatto è il senso della scoperta profonda.

«L’odorato, come il gusto, stabiliscono rapporti di fusione con il mondo. L’odore permette di avvertire non soltanto le sostanze ma anche le situazioni, i climi, i vissuti esistenziali. Coglie dati estremamente tenui, prerazionali: quelli dell’indicibile che si sprigiona da un essere, da una situazione, da un luogo.», Hubertus Tellenbach, Gusto e atmosfera, 1983

Sulla combinatoria come struttura narrativa

Sulla combinatoria come struttura narrativa. Di Mariaclara Menenti Savelli, Editore

 

Uno degli studi più significativi della matematica dell’Ottocento riguarda l’esistenza di geometrie diverse e tutte ugualmente valide, con alla base leggi comuni, costitutive di visioni “altre” del mondo. Ciò che la rigorosa geometria euclidea aveva codificato, fu messo in discussione dalla “geometria non euclidea” che teorizzò i “piani di realtà”. Esistevano cioè “luoghi” e livelli diversi di un’unica stessa realtà.

E così il “senso”, il significato delle cose, poteva assumere diverse direzioni.

Lewis Carroll nel celebre Trough the looking-glass – And what Alice found there ci aveva ricordato come potesse essere facilmente verificata dalla sua protagonista la presenza di due diversi e opposti piani di realtà, perfettamente presenti nel medesimo momento e spazio:

“Facciamo finta che il vetro sia diventato sottile come un velo e che noi possiamo passarci attraverso …Sta diventando una specie di nebbia, ora, te l’assicuro! Sarà abbastanza facile attraversarlo … […] E realmente il vetro stava sciogliendosi e dileguandosi come una nebbiolina lucente ed argentata. Un momento dopo Alice era al di là dello Specchio e con un piccolo salto, eccola giù, nella misteriosa stanza.  La prima cosa che fece fu di guardare se c’era il fuoco nel camino, e con molto piacere vide che c’era realmente…”

Sulla combinatoria come struttura narrativa. Lewis Carroll

Negli anni Ottanta dell’Ottocento la “teoria degli insiemi” di Georg Cantor fece emergere tutta una serie di paradossi insiemistici di cui il più noto è il paradosso di Russell.

I luoghi o piani della realtà possono essere pensati come insiemi di elementi, ma non sempre elementi di se stessi, così secondo il paradosso di Russell: Un insieme di farfalle non è la farfalla.

Così potremo definire “l’insieme dei piani di realtà come la realtà” o “l’insieme dei piani di realtà eccetto la realtà”.  Questo paradosso ha come elemento di intrusione, l’autoreferenza degli enunciati della realtà.  Entrambi gli enunciati, infatti, sono esatti se presi singolarmente ma, se posti a confronto, creano un paradosso. La “colpa” non è da attribuire all’uno o all’altro degli enunciati ma solo al modo in cui essi si riferiscono l’uno all’altro.

Ai piani di realtà possono corrispondere quindi diversi enunciati, dichiarazioni opposte di una stessa effettività. La dipolarità comporta che il senso di ogni piano sia dato da un insieme di leggi, segni, corrispondenti linguistici di ogni realtà. E dal loro esatto contrario.

È questa la logica interna al nostro sistema linguistico- semantico, per cui il senso di ogni cosa non è già dato, ma scaturisce da uno sforzo analitico, dalla dialettica degli opposti, da una contraffazione della logica stessa.

Nel 1995 Italo Calvino pubblica Una pietra sopra, che contiene una delle sue riflessioni più interessanti: Cibernetica e fantasmi, appunti di narrativa come processo combinatorio.

Nel suo scritto oppone il gioco della combinatoria (come pura strategia di significazione, alternativa ma non opposta a quella tradizionale del tipo contenuto-forma, attraverso la quale si usano i segni per far saltare il piano dei segni stessi) a quello della concezione classica della letteratura. Giunge così a parlare della combinatoria come il passaggio da un piano all’altro della realtà che si ottiene attraverso il gioco delle” funzioni narrative”.

Sulla combinatoria come struttura narrativa. Italo Calvino

Combinatoria che fornisce un’alternativa alla una concezione statica della cultura letteraria, divenendo forza rivoluzionaria e conservatrice, in cui vivono “cibernetica e fantasmi” cioè razionalità e progresso, mito e inconscio.

Così Calvino arriva a definire la letteratura come: “un gioco combinatorio che segue le possibilità implicite del proprio materiale […] ma è un gioco che a un certo punto si trova investito di un altro significato non oggettivo di quel livello linguistico sul quale ci stavamo muovendo, ma slittato da un altro piano, tale da mettere in gioco qualcosa che su un altro piano sta a cuore all’autore o alla società a cui appartiene”.

Nell’azione del racconto, la dipolarità costituisce secondo Calvino la rivincita della discontinuità, divisibilità, combinatorietà su tutto ciò che è corso continuo, gamma di sfumature che stingono una sull’altra.

La spiegazione dei piani di realtà in Calvino, però, rimane confinata al progetto della “padronanza del senso” come attributo divino, flusso o emanazione spirituale che si riversa dal significato al significante, dall’autore al critico. Al centro della speculazione dello scrittore torinese è il linguaggio, strumento capace di spostare il senso da un piano all’altro, “saltando” da un piano di realtà sommerso ad uno nascosto, costituito dal livello del mito e del tabù.

Sulla combinatoria come struttura narrativa. Italo Calvino

Così facendo i piani di realtà, intesi come segmenti o livelli di una stessa realtà o al di fuori della realtà stessa, possono essere analizzati come strutture logiche, come frazioni oppositive di spazio-tempo che innescano l’attività del racconto.

 

di Mariaclara Menenti Savelli, Editore

L’autofiction secondo Philip Roth

Operazione Shylock: l’autofiction secondo Philip Roth. Di Giorgio Galetto          

Operazione Shylock, romanzo di Philip Roth pubblicato in Italia da Einaudi nel 1993, è uno dei più originali esempi di narrazione autofinzionale tra quelli susseguitisi da quando questa modalità narrativa è nata, ed è stata in un certo senso codificata.

Nell’era della cosiddetta post-verità anche la transmedialità diventa un fattore rilevante nell’elaborazione creativa.

È ciò che accade ad esempio al Montalbano di Camilleri sdoppiato tra tv e letteratura, o a Houellebeck personaggio mediatico, autore e personaggio letterario: sia in Riccardino, opera postuma pensata da Camilleri come uscita di scena (è il caso di dirlo) del celebre commissario.

Ne La carta e il territorio di Houellebeck, l’autore compare come personaggio, o per meglio dire: un personaggio che porta il nome dell’autore e ne ha le caratteristiche.

L’ espediente è utilizzato anche in Operazione Shylock di Philip Roth.

L’autofiction secondo Philip Roth

Nel caso di Roth la faccenda è ancora più complessa: più che di metanarrazione e transmedialità la questione è quella sempre viva, tra menzogna e verità. Qui la complessità d’intreccio del romanzo è strettamente connessa alla sua natura autofinzionale.

Operazione Shylock ha come sottotitolo «una confessione», e si apre con una premessa del narratore:

Ho ricavato Operazione Shylock da diari e taccuini. Il libro è la cronaca più precisa che io possa fornire di fatti veri dei quali sono stato protagonista a 54 o 55 anni e culminati all’inizio del 1988, nell’assenso che diedi alla proposta di intraprendere un’operazione di controspionaggio per il servizio segreto israeliano, il Mossad.

Operazione Shylock: l’autofiction secondo Philip Roth. La prima edizione di Operazione Shylock (Simon & Schuster, U.S.A.)

La prefazione continua entrando nel merito del processo Demjaniuk, operaio della Ford di Cleveland accusato di essere l’Ivan il Terribile di Treblinka, l’operatore della camera a gas che aveva mandato a morte migliaia di ebrei.

Si tratta di un fatto vero e documentato, svoltosi esattamente in quel modo e in quei giorni. Il narratore condivide l’identità dell’autore: Philip Roth, scrittore ebreo americano, di stanza a Londra al tempo dei fatti, racconta una vicenda che lo coinvolge in quanto persona Philip Roth, e in cui nulla sembra discostarsi di una virgola dalla cosiddetta realtà.

Sembrerebbe a tutti gli effetti una cronaca autobiografica relativa a una vicenda singolare e inquietante che lo ha coinvolto. Il background e il contesto sono assolutamente coincidenti con la realtà biografica dello scrittore.

La vicenda centrale, il caso Demjanjuk, è accaduta realmente ed è fedelmente descritta nel romanzo. Il sottotitolo, una confessione, risulta di fatto credibile, e il lettore si immerge nella narrazione convinto di leggere quella che a tutti gli effetti è una cronaca.

L’autofiction secondo Philip Roth.

A questo punto l’autore mette in campo gli effetti speciali. Nella narrazione si susseguono una girandola di eventi al limite del surreale, che molto spesso sfociano nel comico. Subito il protagonista narratore viene a sapere dell’esistenza di un suo omonimo, che si spaccia per lui e che scopriremo a breve avere anche il suo aspetto, il quale sta promuovendo in Israele una paradossale campagna a favore del controesodo degli ebrei dallo stato, per tornare in Europa. Questo doppio di Philip Roth si espone addirittura con il leader polacco di Solidarnosc, Lech Walesa, per discutere il rientro in Polonia degli Ebrei; i giornali riportano questo incontro e altre notizie sulle iniziative del sosia.

Parlando di sosia, Roth dichiara apertamente alcuni antecedenti letterari cui il lettore potrebbe pensare, smarcandosene:

I sosia figurano soprattutto nei libri, come copie pienamente materializzate che incarnano l’occulta depravazione del rispettabile originale […] sapevo tutto di queste fantasie dell’io diviso, avendole decodificate come meglio non si sarebbe potuto una quarantina di anni prima all’università. Ma questo non era un libro che stavo studiando o un libro che stavo scrivendo, e questo sosia non era un personaggio che nel senso gergale della parola […] un nome che avevo imparato ad apprezzare molto tempo prima di avere letto del dottor Jekyll e del signor Hide o di Goljadkin primo e Goljadkin secondo.

Roth autore sgombra il campo dagli equivoci: la creazione del doppio non è un’indagine tardo-romantica, surreale o allegorica, del lato oscuro. Qui si parla di realtà e finzione, di verità e menzogna (le citazioni da Stevenson e Dostoevskj sono indicative).

Roth ci fa sperimentare il potere della letteratura svelando apertamente il meccanismo della metanarrazione davanti ai nostri occhi di lettori distratti:

           ma questo non era un libro che stavo studiando o un libro che stavo scrivendo.

Invece sì, è proprio ciò che sta facendo. E ancora:

Potevo capire la tentazione di annullarsi e diventare imperfetti o posticci in modi nuovi e divertenti: vi avevo ceduto anch’io […] ancora più ampiamente di così nei miei romanzi: dove avevo la mia faccia, la mia voce, dove rivendicavo addirittura brani utili della mia biografia, e tuttavia, sotto la maschera di me, ero una persona completamente diversa. Ma questo non era un romanzo, e non andava bene.

Di nuovo: è proprio di un romanzo, invece, che si tratta, e noi che leggiamo lo sappiamo bene.

Quest’ultima citazione sembra dare una definizione di autofiction così come l’autore l’ha praticata finora, negandone il grado di attendibilità attraverso questo ulteriore e più sofisticato esperimento autofinzionale, che afferma di non esserlo in assoluto. Presentandosi infatti come una cronaca, Roth sembra voler affinare le sue armi narratologiche.

Per affermare cosa? Che non si può mai sapere fino in fondo cosa sia vero, o meno, neanche riguardo la Storia. E sono in gioco la credibilità e oggettività della realtà.

La narrazione era partita infatti col racconto dello stato allucinatorio dovuto ad un medicinale che ha determinato nel Roth personaggio (ma siamo certi che questa non sia la verità?) una forma depressiva acuta durata qualche mese.

Questa scarsa lucidità nel giudicare i fatti ritorna: nelle domande che il narratore rivolge a se stesso, e poi nel fatto che giungerà a dubitare di sé, a incarnare i panni dell’altro Roth, a sostenerne le ragioni impersonandolo.

Roth autore abilmente dissemina sottotrame, apre digressioni in cui il tema risulta essere sempre il rapporto verità-menzogna, e in cui l’olocausto e la questione ebraico-palestinese sono certamente rilevanti ma come discorso di secondo grado, forniscono il termine di paragone della Storia, sono il parametro dell’oggettività apparente, a fronte dell’insincerità plausibile della fiction letteraria.

Tutto il romanzo è incentrato sull’impossibilità di scoprire la verità, sia riguardo la vicenda dei due Roth, ma complessivamente riguardo la Storia e la realtà.

La nota per il lettore, alla fine del libro, ci toglie ogni dubbio:

              Questo libro è un’opera di fantasia […] questa confessione è falsa.

 

 

di Giorgio Galetto

Murakami: le connessioni irresistibili

Murakami: le connessioni irresistibili. Presentazione del Cahier “Mishima versus Murakami”

Murakami Haruki (per rispettare la tradizione giapponese che antepone il cognome al nome proprio)  è, senza dubbio, uno dei più grandi scrittori contemporanei. Affrontare un suo testo vuol dire accettare di trovarsi sospesi a testa in giù su un ponte mobile e non sapere più a quale dimensione si voglia davvero appartenere. Ci si sente solo liberi, emozionati, eccitati per quel respiro nuovo che si inala da ogni sua parola, da ogni nota che riempie l’aria e da quello stupore che ci fa intravedere mondi possibili.

Murakami: le connessioni irresistibili.

In una delle sue rare interviste, rilasciata nel 2018 a Deborah Treisman sul The New Yorker e che riporta l’allusivo titolo The underground worlds of Haruki Murakami, scopriamo uno scrittore e un uomo fuori da ogni schema, uno dei geni letterari dei nostri tempi, che pur nell’apparente equilibrio e nella pacatezza dell’uomo orientale, nasconde una frenesia e un desiderio di avventura che lo portano a esplorare mondi possibili e relazioni mancate. Murakami conosce l’importanza di non dare giudizi, di percepire situazioni e cose per quelle che sono, non che dovrebbero essere, per come il mondo si presenta a lui, pieno di suspence, di spiriti in cerca di risposte, di misteri nascosti dietro una cascata o nei passi felpati di un gatto. Murakami è un uomo schivo, amante della solitudine, che concede pochissime interviste e partecipa raramente a eventi pubblici:

Non faccio molta socializzazione. Mi piace stare da solo in un posto tranquillo, con molti dischi e, possibilmente, gatti.

Murakami: le connessioni irresistibili. I gatti, la corsa e la musica jazz sono le più grandi passioni dello scrittore giapponese.

Ma dentro di lui vive un universo immaginifico, un sistema costellato da milioni di piccoli esseri irreali, pecore immaginarie, uomini e donne concentrati su problemi impossibili da risolvere, figure oniriche ed evocative. Leggere il suo pensiero, oltre i romanzi acuti e visionari o i racconti in cui narra di situazioni e persone che descrive nella naturale evanescenza di un sogno, vuol dire avvicinarsi all’animo di un uomo fuori dall’ordinario, capace di non fermarsi mai alle apparenze, incapace com’è di innalzare muri o barriere tra quello che viene definito mondo “reale” e quello che non lo è:

I lettori a volte mi dicono che scrivo di mondi irreali e che il protagonista va in quel mondo e poi torna in quello reale. Ma non riesco quasi mai a vedere il confine tra mondo irreale e mondo realistico (and the realistic world).

Cioè non lo definisce “mondo non reale”, ma “mondo realistico”. Una sottile differenza semantica tra i due aggettivi che ci offre la possibilità di comprendere come la sua visione delle cose del mondo si basi semplicemente sulla stima di quella che si ritiene essere la “realtà reale”, e non su un’accettazione cieca di questa. È il suo calarsi in profondità, all’interno di realtà tutte possibili e tutte praticabili nelle loro regole e principi che permette l’accesso a una dimensione alternativa, a un universo separato e distinto dal nostro ma con esso coesistente. E questo è un espediente che lascia infinite possibilità, poiché se nella nostra realtà le cose si sono evolute in altre cose, in quella parallela potrebbe non essere accaduto o accaduto al contrario.

Murakami: le connessioni irresistibili. “Molto spesso il mio narratore è un ragazzo che avrei potuto essere ma che non sono io”. 

Nei romanzi di Murakami, però, non ci troviamo di fronte a storie alternative, a ucronie insomma, ma alla simultanea presenza, fisicamente misurata, di più dimensioni di realtà, di molti mondi. Esistono cioè “luoghi” e piani diversi di realtà e il significato delle cose può quindi non essere univoco e le azioni, lo spazio-tempo, le regole che sottendono il nostro mondo, possono assumere diverse direzioni e significati:

Quando mi calo nella scrittura, sono lì, all’interno di un pozzo profondo e mentre sono lì incontro cose strane. Ma mentre li vedo, sembrano naturali ai miei occhi. […] Mi guardo intorno, descrivo quello che vedo e poi, semplicemente, torno indietro. Se non tornassi sarebbe spaventoso. Ma sono un professionista, quindi posso tornare.

La naturalezza e la spontaneità con cui descrive il suo calarsi in un mondo diverso da quello in cui vive “normalmente”, ci mostra la capacità di essere scrittore visionario, immerso e vivente in diversi alterni mondi, perché conserva la consapevolezza di poterli dominare, passando da uno spazio all’altro, da un tempo all’altro, lasciando a ogni mondo le stranezze, le cose spaventose, i paradossi che gli appartengono. La curiosità lo spinge a inseguire storie, lungo il filo sottile dei sogni e dei desideri:

Molto spesso il mio narratore, il mio protagonista, è un ragazzo che avrei potuto essere ma che non sono io, ma è sempre una specie di alternativa a me.

Scrivere per Murakami è una routine, un impegno come correre o ascoltare jazz, ma sempre guidato da una profonda, volontaria scelta:

Una volta che mi siedo alla mia scrivania, già so cosa accadrà dopo. Se non lo faccio, se non voglio scrivere qualcosa, non scrivo. Scrivo quando voglio scrivere, cosa voglio scrivere e nel modo in cui voglio farlo. […] La scrittura ha bisogno di concentrazione e di resistenza, perché scrivere un libro non è così difficile, ma continuare a scrivere per molti anni è quasi impossibile.

Murakami Haruki. Scrivere come mestiere.

Un concetto per lui fondamentale, esposto e sviluppato in Shokugyō to shite no shōsetsuka (Il mestiere dello scrittore), pubblicato nel 2015 e arrivato in Italia solo nel 2017 (nell’edizione Einaudi, con la traduzione di Antonietta Pastore):

Chiunque può scrivere un romanzo, dal mio punto di vista, non è un insulto nei confronti di questo genere letterario, ma piuttosto una forma di elogio. Insomma, la narrativa è come un ring di lotta libera sul quale può salire chiunque lo desideri. […] Tuttavia, se salire sul ring non presenta particolari problemi, restarci a lungo è una faticaccia. Questo i romanzieri lo sanno bene. Scrivere un romanzo o due non è poi così difficile. Ma pubblicarne molti, mantenersi con la propria scrittura e sopravvivere in quanto romanziere, è tutt’altra cosa. Un’impresa dura, non alla portata di tutti. […] richiede qualcosa di speciale. Un certo talento e una certa fermezza sono necessari, è ovvio. Ma in più occorre una capacità specifica. C’è chi ce l’ha e chi no. Chi ne è dotato per natura, e chi l’ha acquisita per essersi sforzato anima e corpo.

Ma cosa pensa Murakami dei suoi personaggi, quelli che cercano, che a volte trovano e a volte no, che si perdono, che centrano gli obiettivi che si sono prefissi ma che alla fine non sono mai a loro agio nella realtà in cui vivono?

Per me è un tema importante mancare qualcosa, cercare, trovare. I miei personaggi cercano spesso qualcosa che è andato perduto. A volte è una ragazza, a volte una causa, a volte un obiettivo. Ma stanno sempre cercando qualcosa di importante per loro, qualcosa che comunque è andato perso. E quando il personaggio lo trova non è, però, felice. Ci sarà sempre una sorta di delusione. […] Perché se il personaggio è felice, non c’è alcuna storia. Quello che voglio fare è scrivere cose serie, complicate e difficili e per farlo devo calarmi, devo essere disposto a scendere sempre più in profondità.

Murakami: le connessioni irresistibili. Dalla delusione nascono grandi storie.

Ecco perché un Cahier che parla di lui e del suo bisogno di epifanie e di sogni. Perché Murakami è lo scrittore che fa dell’invenzione letteraria una musica di improvvisazione, libera, senza spartito, ma piena di inventiva e di slanci verso l’ignoto. Tutto si mescola, si unisce, si frammenta, per poi disfarsi ancora, mentre ci trasporta, con una scrittura ricca di citazioni, variazioni sul tema, passaggi segreti che si snodano in frasi apparentemente semplici, all’interno di un’armonia difficilmente raggiungibile. Murakami scrive come se suonasse ed è una musica familiare, riconoscibile, che si insinua in un quotidiano stravolto da fatti e circostanze strane e a volte orrifiche ma in cui ognuno di noi riesce a trovare il proprio appagante rifugio, le proprie connessioni irresistibili.

Sigrid Undset: contro il nazismo, la forza delle parole

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole 

Una perla rara dimenticata. Sigrid Undset è stata tra le poche donne (in tutto sedici) ad aver vinto il premio Nobel per la Letteratura. Una scrittrice norvegese che si oppose strenuamente al nazismo. Una voce da conoscere e amare. 

Nata il 20 Maggio del 1882, Sigrid proveniva da una antica famiglia di proprietari terrieri, gli Halvorsen, che nella prima metà del ‘700 si era insediata nella valle del fiume Atna, dove oggi sorge il meraviglioso Parco Nazionale di Rondane. 

Era stato il nonno di Sigrid, un sottufficiale, a muoversi per primo verso nord accettando una mansione in una workhouse. Le “case lavoro” erano istituzioni basate su una legge norvegese che autorizzava la polizia a trattenere poveri e vagabondi fino a un massimo di sei mesi, impiegandoli in diversi tipi di lavori “socialmente utili”, diremmo oggi. Chissà cosa l’avrà spinto tanto lontano, a vivere in un contesto tanto ingrato. Sappiamo che fu un cambiamento radicale: il nonno di Sigrid cambiò il cognome nome in Undset, ispirandosi a un luogo di cui la nonna gli aveva narrato. Un uomo duro ma anche volubile, testardo e inquieto, una figura che risalterà per contrasto con quella intellettuale e rassicurante del padre di Sigrid.

Ingvald Undset, il padre di Sigrid.

Ingvald è colto, curioso, aperto a nuovi stimoli e amante dei viaggi in Europa. Si laurea e poi conclude un dottorato in archeologia, divenendo un nome nel campo. Nonostante la morte prematura, ad appena 40 anni, la sua passione e le sue competenze nell’ambito della storia vichinga avranno una grande influenza su Sigrid e costituiranno terreno fertile per lo sviluppo del suo pensiero e dei suoi scritti. 

Sigrid somigliava al padre: cresciuta in un ambiente di liberi pensatori, era abituata a mettere sempre tutto in discussione. Mostra sin da bambina una personalità originale e anticonformista: non le piaceva la scuola, proprio come più tardi, da adulta, non imparò mai ad amare il suo lavoro da impiegata. A 27 anni, si dimetterà, per iniziare una nuova vita.

Introversa, solitaria e riflessiva, la sua vita è sempre stata nei libri. 

Capita che a molti venga dato ciò che era in origine destinato ad altri, ma nessun uomo può ricevere in dono un destino che non sia il proprio.

La sua vicenda personale è costellata di colpi di scena e di testa: come il matrimonio con il pittore Anders Castus Svarstad, con il quale aveva intrapreso una relazione “illecita” (Svarstad era sposato e aveva tre figli) tre anni prima. Svarstad era un uomo brillante e amante dei viaggi (il viaggio, un tema ricorrente nella vita e nell’opera di Sigrid), famoso soprattutto per la pennellate vivida e suggestive con cui ritraeva ora Chicago ora Londra, ora Bruges, Parigi, Roma e Napoli.

Un dipinto di Svarstad che ritrae Via Bocca di Leone, a Roma.

Lascia la prima moglie per Sigrid nel 1912 ma 7 anni dopo il matrimonio è già incrinato. I due avevano avuto tre figli, uno dei quali gravemente malato.

Sono anni difficili, in cui Sigrid trova rifugio nella scrittura.

Il matrimonio non funziona: il marito le tarpa le ali, anteponendo la propria carriera artistica a quella di Sigrid. Lei inizia a interessarsi alla questione femminile, indaga modelli e proposte, scrive di emancipazione, si trova a polemizzare con alcune posizioni del movimento femminista. Parallelamente, coltiva un suo percorso spirituale, studia e svolge ricerche sulle religioni scandinave. Scrive romanzi storici, raccolte di leggende, diviene un’autorità nel campo degli studi medioevali. 

Sigrid legge moltissimo anche opere a lei vicine. Traduce dall’inglese al norvegese, arrivando inoltre a elaborare critiche complesse e profonde su autori come le sorelle Brontë e David Herbert Lawrence. 

Il suo primo romanzo, nel frattempo, ha già dato scandalo, affrontando un tema delicato come quello dell’adulterio, da un punto di vista tutto femminile.

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole. Sigrid è giovanissima quando decide di inviare il suo primo manoscritto a una casa editrice. Il testo viene rigettato: è tutto da rifare. Lei non si abbatte, utilizza le critiche per correggere il tiro, rivedere lo stile, crescere nella scrittura. Il manoscritto successivo è un successo (e sarà la stessa casa editrice che aveva rifiutato la prima proposta a pubblicarlo).

A seguire ci saranno una serie di scritti in cui il tema dell’amore infelice ricorrerà come leitmotiv, sullo sfondo di ambientazioni ora moderne ora medievali. Gli orrori della prima guerra mondiale e i tormenti personali però la segneranno profondamente. La ricerca spirituale la porterà in quegli anni a scoprire il cattolicesimo, al quale si converte nel 1924.

A quel punto il matrimonio con Svarstad, secondo la legge cattolica, è nullo. E lei è una donna libera.

Nel 1928 la sua carriera è all’apice: vince il premio Nobel per la letteratura. Il cristianesimo entra nei suoi scritti in modo sempre più evidente, nonostante la conversione, in Norvegia – nazione quasi esclusivamente luterana -, sia vista con enorme sospetto. La sua morale è forte e peculiare ma continua a essere apprezzata anche da chi non ne condivide la spiritualità.

I suoi sono libri che spronano a occuparsi e preoccuparsi del prossimo, a vivere con responsabilità, a rispettare la vita e la natura intorno a noi. 

I suoi interessi investono pian piano anche la politica: Sigrid ricerca e scrive sulla filosofia del nascente partito nazista. Si dichiara acerrima avversaria del regime sin dai primordi, scorgendo dal 1933 in poi, nella figura di Adolf Hitler, l’incarnazione di un male feroce e aberrante che, come una profezia, esploderà di lì a qualche anno.

Nella Germania nazista le sue parole vengono bollate come pericolose, i suoi libri messi all’indice. Il suo nome entra presto nella lista nera della Gestapo. 

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole. Nel 1933, in Germania, gli studenti nazisti di più di 30 università saccheggiano le biblioteche in cerca di libri considerati una minaccia per la nazione tedesca. Tra gli scritti letterari e politici che vengono dati alle fiamme ci sono anche le opere di Sigrid Undset. (Credit: United States Holocaust Memorial Museum, Washington).

Quando Bjerkebæk viene occupata dalle truppe tedesche è costretta a fuggire. Due dei tre figli sono già morti, una di malattia, l’altro in battaglia. Nel 1940, insieme al figlio minore, si unisce al movimento di resistenza per poter attraversare la Norvegia e mettersi in salvo in Svezia, oltrepassando la città bombardata di Åndalsnes e la contea di Nordland. Dalla Svezia decide poi di salpare per gli Stati Uniti, dove per tutta la durata della guerra continua a scrivere e a tenere conferenze per la pace e contro l’ideologia nazista.

Riuscirà a rientrare in patria solo a guerra finita, ricevendo dal governo norvegese onorificenze e premi per l’impegno a favore della liberazione. Dalla guerra però non si riprenderà mai. Vivrà pochi anni nel totale silenzio, per infine spegnersi e essere sepolta accanto al figlio e alla figlia: un tumulo con tre semplici croci di legno scuro, nel piccolo villaggio di Mesnali. 

Sigrid Undset

 

 

 

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Nel delirio della Bellezza

Nel delirio della Bellezza

Perché leggere Mishima oggi? Perché scrivere un Cahier che parla di uno scrittore così estremo nelle sue scelte, apparentemente anacronistico (o forse no, in un’epoca in cui, specie sui social, si dà sfogo a ogni tipo di narcisismo) nella volontà di esaltare nei suoi personaggi la bellezza fisica assoluta (oscurata però da quella morale) e confrontarlo con un visionario, fantastico e modernissimo come Murakami?

Per amore delle sfide, perché se si vuole davvero conoscere la visione degli altri, occorre studiare, analizzare, cercare di capire quello che più è lontano da noi, per ideologia, valori, attenzione. Aprire le porte alla comprensione di ciò che meno ci appartiene.

Perché Mishima è stato tutto e il contrario di tutto. Ha ricercato la perfezione nell’errore e l’ossessione dell’imperfezione.

Ha scelto di vivere rispettando e curando il proprio corpo come un tempio, per poi martorizzarlo sul palcoscenico di una morte in diretta.

Sono gli anni del delirante sperimentalismo della lingua come sperimentalismo del pensiero che secondo Mishima conduce a una manipolatoria semplicità di opinione, come se tutto potesse essere affidato alla comicità di un linguaggio basso, come strada più semplice per arrivare a spiegare il reale (e qui davvero la sua critica non ci appare lontana dalla considerazione di certe opere che oggi il mainstream ci propone).

E questo Mishima non lo accetta: per lui purezza di pensiero è purezza di linguaggio e di scrittura. Il disordine programmato, il ribaltamento dei valori, la coscienza dell’imperfezione sono un gioco degli estremi e lui sa, meglio di chiunque altro, che valore dare a questo “gioco”, al momento ultimo.

La sua poetica della “contraddizione” è il suo personale cammino spirituale, di cui traccerà le linee in una splendida intervista rilasciata a uno degli esponenti più in vista della critica letteraria giapponese, Kobayashi Hideo, e che permetterà agli studiosi e al pubblico di tracciare insieme la sua “via del guerriero”.

Sul concetto di Assoluto:

Esiste un contrasto profondo nella bellezza delle cose, una sorta di deformazione della forma stessa della bellezza. E non si tratta solo della distorsione della semplice atmosfera che egli fa respirare nelle sue opere, ma di una vera e propria imperfezione nella perfezione. Dal suo bisogno di disumanizzazione, alla ricerca dell’Assoluto, ha reso sempre viva quell’ossessione latente che lo ha spinto fino alla lacerazione.

Perché non si può scrivere senza vedere e non si può scrivere senza sentire.

“Io sono uno scrittore che ha una grandissima passione e un fortissimo interesse per la forma ma non so quanto la prosa convenzionale, incentrata com’è solo sulla forma, sia un modello di letteratura attuale”.

E la necessità di vivere controcorrente, sempre. Questo viene richiesto allo scrittore.

“Secondo me un grande scrittore non può scegliere come tema della sua arte un grande problema. Deve c’è arte non c’è un grande problema, in senso giornalistico. Tutte quelle cose di cui parla la massa”.

Ed essere controcorrente implica anche il senso della morte, perché si deve essere capaci di vivere fino in fondo anche la propria morte.

“È la natura umana. Non credo che a questo mondo esista qualcuno che non tenga alla propria vita. Ma un uomo deve essere in grado di liberarsi da questo attaccamento e avere il coraggio di morire”.

E ricercando l’unicità dell’Assoluto Mishima rivela la duplicità della sua visione: forse la vita così come la concepiamo o la conosciamo è la continua ricerca di quell’Assoluto che solo la morte può dare?

Assoluto è l’idea che ogni cosa possa essere vista come azione da compiere, perché solo questo ci rende davvero liberi?

La liberazione totale è però impossibile perché essa può essere realizzata solo in ambito relativo. Niente può dirsi davvero Assoluto finché “qualcuno dirigerà la vita sociale di altri” e quindi non sarà mai lecito “l’omicidio di piacere. Se non ci sono comandamenti o proibizioni da rispettare, non si potrà mai raggiungere l’Assoluto”.

Proprio sulla Bellezza:

Per un nichilista anarchico come Mishima la bellezza non è e non può essere bella in assoluto. Così la sua prosa mescola contenuti, impressioni, delusioni che si ingigantiscono e assalgono i protagonisti dei suoi romanzi come in un sogno che ha però contorni definiti, schematizzati e per questo rincorribili.

Nell’intervista rilasciata a Kobayashi Hideo, sulla “Forma della bellezza”, Mishima espone la sua visione estetica che si spinge alla descrizione dei luoghi: “il fiume Yurakawa (descritto in vari punti del Padiglione d’oro con una bellezza lirica che emoziona) è un luogo triste e d’estate si trasforma in un posto volgare, pieno di bagnanti, ma negli altri periodi è silenzioso e solitario…” fino al significato soggettivo della confessione che sembra essere uno dei motivi ricorrenti nella sua opera.

Una confessione mai oggettiva, mai strillata ma ripetuta costantemente dentro se stessi, nel turbinio delle emozioni, nell’incalzante incedere delle azioni, nelle continue relazioni con gli altri.

È qui che il dramma della dualità della sua visione si manifesta in tutta la sua violenza: il fluire senza sosta delle immagini in cui la bellezza è continuamente lordata da sentimenti che di realismo non hanno nulla “perché i naturalisti scrivevano romanzi dove i protagonisti erano ossessionati dalla bruttezza”, lui, al contrario, parte da posizioni opposte, dalla bellezza in quanto emblema dell’artista, una bellezza che è però ossessione, turbamento, oscurità.

Sul linguaggio:

Riflettendo sul ruolo del linguaggio dei romanzi, Mishima attacca l’uso che si fa delle parole che sembrano avere la tendenza a non maturare nel tempo, allontanando dal senso stesso della forma che si vuole tentare di descrivere.

Tutti tendono a linguaggi semplici, alla esemplificazione risultando così estranei, incapaci a descrivere la complessità delle sensazioni.

Le parole sono morte. Le parole, più si cerca di avvicinarle al linguaggio quotidiano, più perdono vita. E il linguaggio del cinema è ancora peggiore. […] Così non è più lingua giapponese: si cambiano le parole, si inseriscono frasi relative in modo del tutto innaturale …

 

Yukio Mishima con il premio Nobel Yasunari Kawabata

Mishima e il suo mondo, alla ricerca dell’unicità nella rivelazione della dualità. Lungo il cammino del suo tormentato Bushidō.

Per approfondire: Mishima versus Murakami, Bushidō di due moderni samurai

 

di Mariaclara Menenti Savelli