Arte e teoria della mente

Arte e teoria della mente: percezione e godibilità di un’opera.

Uno dei problemi che per molti anni ha interessato gli studiosi di psicologia dell’arte è stato quello di determinare cosa debba intendersi per godibilità di un’opera artistica e quanto questa sia influenzata dall’aspetto psicologico.

Innanzitutto, cosa conduce lo spettatore ad apprezzare un’opera d’arte riconoscendone il suo valore? La bellezza di un’opera d’arte è legata soltanto a quello che Wilhelm Worringer nel suo studio Abstraktion und Einfühlung (Astrazione ed Empatia) chiamava «la facoltà di suscitare felicità»?

Arte e teoria della mente – Pablo Picasso, Ritratto di Dora Maar.

Cosa fa di un dipinto o di una scultura un’opera d’arte e non solo qualcosa di esteticamente apprezzabile?

Una delle formule utilizzate per spiegare come funziona il sistema estetico è quella secondo cui il godimento estetico è godimento in sé oggettivizzato. Ovvero, la godibilità di un’opera d’arte avviene sulla base non solo della nostra percezione, come capacità di immedesimarci in essa, ma anche in relazione al contesto storico in cui l’opera è inserita e alle nostre pregresse esperienze culturali. Questo determina l’innesco di un’attività interiore: la capacità del soggetto di avviare un sentimento di empatia e di piacere nei confronti di ciò che sta guardando.

Arte e teoria della mente – Ernest Ludwig Kirchner, ritratto di Gerda.

Il concetto di «empatia positiva» fu elaborato da Theodor Lipps in Ästhetik, per spiegare il moto dell’animo che si attiva nel soggetto che contempla un’opera d’arte.

Una forma di libertà, di libero arbitrio dunque, nel vivere quello che si ritiene bello e godibile, proprio perché permette di attivare in noi sentimenti di empatia e, in qualche modo, di identificazione con quello che riteniamo vicino al nostro modo di sentire e di vivere le emozioni.

Quando si è iniziato ad applicare il pensiero scientifico alla critica dell’arte come progetto sistemico, si sono confrontate opere di diversi periodi storici e sono state teorizzate regole comuni. Un’opera d’arte – afferma lo studioso austriaco Alois Riegle, riconosciuto come uno dei pionieri della Storia dell’arte – non può essere definita solo in relazione a un canone meramente estetico ma anche e soprattutto in funzione del coinvolgimento dello spettatore. Un’arte per essere tale ha bisogno, quindi, della partecipazione profonda di chi osserva, di quell’attività interiore che comporta un processo visivo e cognitivo.

Arte e teoria della mente – Amedeo Modigliani, ritratto di Jeanne Hébuterne.

Un cambiamento radicale del modo di intendere l’opera d’arte, che ha portato Rudolf Amhein (uno dei maggiori rappresentanti della Gestaltpsychologie e teorizzatore dell’applicabilità degli strumenti scientifici propri della psicologia alle arti visive) a sviluppare il concetto di visual thinking, secondo il quale i sensi operano in maniera dinamica e intelligente per la costruzione dell’immagine e per la formulazione dei concetti ad essa legati.

Nell’opera Art and visual perception (che esce in Italia nel 1962 con il titolo Arte e percezione visiva. Una nuova grammatica del vedere) egli asserisce che la psicologia dell’arte ha permesso di valutare con maggiore chiarezza «la differenza tra il mondo fisico e il suo aspetto e, successivamente, tra ciò che si vede e ciò che viene registrato in un medium artistico […] ciò che si vede dipende da chi sta guardando e da chi gli ha insegnato a guardare».

Un concetto fondamentale che cambierà l’idea stessa di Storia dell’arte, definendola disciplina autonoma.

Il principio verrà rielaborato anni più tardi da Ernst Kris e da Ernst Gombrich, appartenenti, come Amhein, alla Scuola di Storia dell’arte di Vienna. Ernst Gombrich ha segnato, attraverso i suoi saggi sulla Storia dell’arte, un momento fondamentale nello studio della scoperta visiva e del ritratto, partendo dall’indagine sull’arte nobile dei Manieristi, soprattutto in relazione all’uso della distorsione e alla diversa rispondenza alla realtà dei tratti fisiognomici individuali.

Arte e teoria della mente – Rosso Fiorentino, Madonna in gloria.

Un’attenta analisi sul comportamento dello spettatore- osservatore porterà Gombrich ad affermare che «non esiste un occhio innocente» ma che la percezione visiva si basa sulla classificazione delle informazioni, sull’esperienza delle stesse e sul loro confronto. L’atto del guardare non è soltanto un mero atto percettivo, ma è di fatto un atto interpretativo.

Da sempre l’arte ha comunicato idee, opinioni, concetti attraverso segni e simboli, cui si aggiunge la relazione che si instaura tra artista e spettatore. Una relazione determinante ai fini della conoscenza di come un semplice stimolo sensoriale possa diventare interpretazione di una realtà legata a un preciso periodo storico-culturale.

Arte e teoria della mente – Gustav Klimt, dama con ventaglio.

Vedere con gli occhi e vedere con la mente, quindi. Ed Eric Kandel (lo psichiatra e neuroscienziato statunitense che nel 2000 è stato insignito del premio Nobel per la medicina) afferma che non si può percepire ciò che non si può classificare.  Un’immagine d’arte vista con lo sguardo di chi osserva «ci porta inevitabilmente a considerare i processi percettivi ed emotivi di ricreazione nel cervello dello spettatore».

In generale analizzare un’opera d’arte comporta la capacità di elaborare informazioni e confrontare esperienze, formando modelli di riferimento culturali e sociali. Elaborando, quindi, ciò che Kandel stesso ha battezzato come teoria della mente.

 

articolo di Mariaclara Menenti Savelli

Cahier “Fellini versus Allen”: percezioni d’autore

Cahier Fellini versus Allen: percezioni d’autore. Che cosa si prova sfogliando il nostro Cahier? La parola allo scrittore. 

Apro il Cahier Fellini versus Allen, lo sfoglio, realtà, verità, sogno, finzione, parole, immagini che si mescolano ai ricordi, pensieri sconnessi, episodi di esistenza, passato, presente e futuro inesistenti, un unico tempo, molteplici visioni, vissuto soggettivo che si espande, ovunque, da nessuna parte, universo, esistenza, disgregazione, linearità che svanisce, coerenza che si frantuma, finzione, sogno, verità, realtà, dove sono?

In quale tempo? In quale spazio? mente che mi trascina altrove, al di là del mio corpo, smaterializzazioni, materia che cambia conformazione, e poi, sofferenza, inadeguatezza, grandi domande, chi sono?

Da dove vengo? Dove vado? Esisto? Non esisto? Infinite realtà, infinite verità, domande, domande, domande, risposte incerte, spesso insoddisfacenti, frustrazioni di un’esistenza senza senso, frustrazioni di un’infinita ricerca dello stesso, fotogrammi, fotogrammi, fotogrammi, ricordi, ricordi, ricordi, momenti, chi sono?

Cahier “Fellini versus Allen”: percezioni d’autore. Federico Fellini

Da dove vengo? Dove vado? Esisto? Non esisto? Ti chiedo, mi chiedo, ci chiedo, realtà, verità, sogno, finzione, punti di vista come universi, mondi paralleli che si scontrano attimo dopo attimo, big bang del pensiero, immagini come meteore, si allontanano nello spazio, nessuna luce, luce ovunque, fluttuano, si allontanano, coscienza che si espande, finzione, sogno, verità, realtà, concetti impossibili da delineare, le nostre esistenze a ruotarci intorno, vortici di senso senza senso, vertigini, mi perdo, ti perdi, scontro tra realtà, scontro tra verità, punti di vista differenti, visioni differenti, le mie, le tue, visioni differenti, punti di vista differenti, le tue, le mie, respiri, respiro, molteplici visioni, memorie, passato, presente e futuro che implodono, un unico tempo, un unico spazio, big bang del pensiero, molteplici visioni, le mie, le tue, punti di vista, realtà, verità, sogno, finzione, parole, immagini, fotogrammi, fotogrammi, fotogrammi, chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Esistiamo? Non esistiamo?

Cahier “Fellini versus Allen”: percezioni d’autore. Woody Allen

Chiudo il Cahier Fellini vs Allen, e me lo chiedo, sì, me lo chiedo, potrai mai comprendere completamente la mia realtà? Oppure dovrò rassegnarmi ad esistere nel mio eterno sogno, senza tempo, senza spazio?

Universo che implode, big bang del pensiero, passi, passi, passi, non sto camminando, ma mi sto già dirigendo altrove, o da nessuna parte, attimi di senso senza senso, chiudo gli occhi, mi addormento, mi rassegno, esisto solo nella mia realtà, nella mia finzione, nella mia verità, nei miei sogni, non svegliatemi, vi prego, non svegliatemi.

di Claudio Simoncini 

 

Per approfondire: Cahier n.2 “Fellini versus Allen”

Manifesto Decostruttivista: Intervista a Claudio Simoncini 

Manifesto Decostruttivista: Intervista a Claudio Simoncini. Neuroscienziato, romanziere e artista, autore del Manifesto Decostruttivista edito nella nostra Collana Prospettive Alt(r)e. Abbiamo raggiunto telefonicamente il nostro autore, che da molti anni vive a Marsiglia, per svelarvi il suo mondo in nove domande. A partire dal rapporto con la scrittura.

Claudio, raccontaci cos’è per te la Scrittura. 

Innanzitutto, per me la scrittura è essenzialmente tempo e spazio. Questo perché le dedico, ed essa stessa mi richiede, gran parte della mia esistenza. Sicuramente non scrivo per comunicare il mio pensiero, né scrivo per spiegare quello che ho dentro, perché, se volessi farlo, utilizzerei metodi, frasi, parole, costruzioni verbali e lessicali molto più semplici. Scrivo piuttosto perché sono l’unica persona che può dire e di conseguenza mettere nero su bianco quello che vorrei ma non posso leggere, perché non è pubblicato.

Paradossalmente, nel momento in cui penso questo, mi siedo alla scrivania e le frasi vengono da sé, automaticamente, una dopo l’altra, come si capisce, in maniera chiara, leggendo le cose che scrivo.

Non credo sia un processo molto diverso da quello che guida qualsiasi altro artista, a prescindere dal metodo scelto per comunicare, per questo mi piace essere identificato più come tale, che come scrittore. Ci tengo a dire che scrivere, per me, non è affatto una cosa piacevole.

Non ci trovo nulla di piacevole a star seduto davanti a una scrivania, solo, in una stanza, al chiuso, nel silenzio, per ore. Perdonatemi se non vedo in tutto ciò quel fascino che molti scorgono nella figura dello scrittore. Perdonatemi se detesto l’odore della carta e dell’inchiostro, il cattivo odore che si diffonde nel mio studio, dopo ore di lavoro, porte e finestre chiuse per lasciar fuori il rumore che disturba i pensieri.

Tuttavia, quel foglio bianco davanti ai miei occhi, rappresenta, come ho detto prima, il mio tempo, il mio spazio. Rappresenta la più grande libertà che io conosca, le infinite possibilità non ancora esplorate e l’infinito universo, all’interno del quale dormono tutti gli scrittori, i filosofi, i pensatori che ho letto, tutti gli artisti che ho incontrato sul mio cammino, persone che mi fanno tanta compagnia. Mi piace esistere con loro, nella loro libertà, per questo scrivo. 

Cosa rende la tua scrittura innovativa?

Non credo che la mia scrittura, in quanto tale, sia davvero innovativa. Mi ispiro a persone che sono esistite e che hanno fatto questo prima di me. La mia, semmai, è un’innovazione necessaria a scardinare una tendenza che ultimamente si è sviluppata nella scrittura e nella letteratura: una certa banalità, un certo modo di narrare e vedere le cose che spesso sfiora la sterilità. La mia è un’innovazione al contrario. Un ritorno al passato. Prendo quello che è stato fatto e lo rielaboro in funzione della nostra epoca.

Se davvero vogliamo parlare di innovazione, allora possiamo farlo in relazione ai contenuti, che sono originali, perché nessuno ha vissuto la mia vita o pensa come me. Noi tutti siamo esseri unici, e come tali, possiamo comunicare sempre, se lo vogliamo, qualcosa di innovativo e nuovo.

Tu sei un neuroscienziato, con esperienza accademica nel campo della percezione visiva, maturata tra Marsiglia e Chicago. Quanto di questo bagaglio scientifico hai portato con te nella scrittura?

Ho svolto ricerca accademica come neuroscienziato per una decina di anni, ma sono anche stato un cameriere, un pizzaiolo, un lavapiatti, un meccanico, un militare, un pasticcere, uno studente, dentro la scrittura ci finisce tutto.

Tutto quello che ho vissuto, e non ho vissuto, il mio essere figlio, padre, marito, amante, fidanzato, amico, la musica che ho ascoltato, i libri che ho letto, le opere d’arte che ho visto, la mia memoria, insomma, rinasce nella mia scrittura, a volte volontariamente, altre volte inconsciamente.

L’esperienza come scienziato e nello specifico come neuroscienziato mi ha comunque permesso di approfondire le mie conoscenze sul metodo scientifico, di sviluppare ampie capacità analitiche e critiche. Tutte cose che ritengo importantissime, soprattutto per vivere nella nostra società odierna, ma anche per essere un bravo artista. D’altronde sono nato a qualche chilometro da Vinci, non posso pensarla diversamente. 

Nei tuoi scritti però parli spesso di tempo, spazio, sogno, realtà. Le Neuroscienze hanno un ruolo in tutto questo?

Indubbiamente le conoscenze acquisite nel corso degli anni su come il cervello costruisce la realtà che abbiamo intorno, mi hanno portato a riflettere su molte tematiche interessanti. Come per esempio il concetto di “realtà”, cosa sia vero o falso, e su cosa siano realmente il tempo e lo spazio, e più in là, la coscienza stessa. Tutti elementi che entrano in maniera dirompente in quello che faccio, e di riflesso, in quello che scrivo. 

Cos’è per te il Decostruttivismo e come nasce l’idea del “Manifesto Decostruttivista”?

Il Decostruttivismo sposa perfettamente con l’idea che amo di più, il fatto che non esista una sola realtà, la realtà esterna a noi. Esistono centinaia di realtà differenti, tante quante sono le persone presenti sulla Terra, più le diverse sfaccettature delle differenti società. Chi può dire quante realtà esistano davvero? 

Spiegati meglio…

Il Decostruttivismo, che non vuol dire: “fare a pezzi”, bensì accettare che alcuni concetti, come per esempio la “realtà”, siano impossibili da definire, è qualcosa che mi è utile per riuscire, prima di tutto, a identificare l’incertezza del mondo al di fuori di me. Perché per me la realtà ha una precisa “faccia” ed è quella che io le do, e che è differente da quella di chiunque altro.

Non solo. Il Decostruttivismo mi permette di esistere all’interno del mio mondo in quanto artista e scrittore, l’unico mondo all’interno del quale io possa “essere davvero”. La società è talmente alienante oggigiorno, riconoscermi in essa non soddisfa la mia esistenza, casomai ribadisce la mia appartenenza a un gruppo, ma non posso considerarla esistenza. Nell’ultimo istante della mia vita, la società non verrà a rendermi merito, forse quando sarò morto, dopo che i miei parenti avranno pagato circa diecimila euro per seppellirmi.

Sento di esistere soltanto all’interno del mio mondo e il Decostruttivismo mi permette di superare lo stress psicologico relativo allo scontrarsi della mia realtà con quella degli altri e con la realtà che la società, in cui vivo, mi impone. 

E il Manifesto?

Pura e innocente provocazione: perché se esistono tante realtà, perché dobbiamo sorbirci tanta banalità? 

Manifesto Decostruttivista

Il tuo è il primo romanzo in assoluto pubblicato da Kressida Editore. Come sono i rapporti con una casa editrice indipendente?

Non so come sia lavorare con una Casa Editrice indipendente, perché conosco solo la realtà in cui mi trovo, quindi la mia collaborazione con Kressida editore.

Posso dire che per me, un editore che ti comprende, capisce quello che fai, non prende il tuo manoscritto e lo smembra affidandolo a editor o ad altre figure dell’editoria, che ti lascia la tua Voce insomma, e che allo stesso tempo ti stimola, ti aiuta, ti inserisce al centro del suo mondo, perché sa di esistere anche grazie a te, è un ottimo editore.Un ottimo punto di partenza per future realtà editoriali, molto più centrate verso l’artista che non verso il mercato o chi usufruisce dell’opera.

Quindi, in questa realtà io mi trovo molto bene, perché mi dà ampio spazio di libertà e io ho bisogno della libertà per poter lavorare e scrivere in maniera ottimale. Kressida ha pubblicato il mio lavoro senza chiedermi soldi, senza domandarmi di acquistare copie del libro, e ha fatto un lavoro eccellente. Non conosco altre case editrici indipendenti, ma se sono così, ben vengano sempre di più!

Progetti futuri?

Progetti futuri: sono talmente tanti! Perché privare i lettori del gusto della sorpresa? Posso solo dire che ce ne sono e stanno evolvendo molto rapidamente. A breve, quindi, grandi novità. 

 

 

 

Il Blog di Claudio Simoncini: Deconstructing Claudio

La storia delle donne

Natalie Zemon Davis è stata la prima studiosa a occuparsi della storia delle donne, rivoluzionando l’approccio alla storiografia e promuovendo una visione inclusiva.

La storiografia tradizionale ha per secoli ignorato il ruolo femminile negli eventi storici. La “storia delle donne” è esistita, eppure non è stata sufficientemente raccontata. Ma il fiorire degli “Women’s Study” come disciplina accademica, negli ultimi decenni, ha contribuito a rinnovare il metodo dell’indagine storica e a rivelare nuovi sentieri dell’esperienza femminile.

Nel 1976 la storica e antropologa Natalie Zemon Davis pubblica sulla rivista Feminist Studies un articolo dal titolo “Women’s History in Transition”.

L’obiettivo è rispondere a una domanda semplice quanto rivoluzionaria – ancor più nello scenario accademico americano degli anni ’70 (la Zemon Davis era docente a Princeton) – : Esiste una storia delle donne?

La storia delle donne – La storica e antropologa Natalie Zemon Davis è la prima a interrogarsi sulla sua esistenza

Per rispondere a questa domanda la studiosa si avvale di un gran numero di fonti, concentrandosi in particolare sulla storia moderna e su come la storiografia a essa collegata rappresenti il femminile. Dalla sua ricerca conclude che la storiografia esistente non rende giustizia alle storie delle tante donne che nei secoli hanno vissuto e plasmato il tessuto economico e sociale. Occorre allora ricostruirne il ruolo, approcciando le fonti con sguardo nuovo.

Riscoprire la storia delle donne significa allontanare le loro soggettività da stereotipi e fissità.

La storiografia tradizionale ha ignorato il ruolo delle donne all’interno del grande fiume della storia. Iscrivendole in una dimensione strettamente biologica e immutabile. Chiudendole in immaginari, fissità e stereotipi che, come gabbie, hanno reso impossibile a priori che si raccontasse il loro ruolo attivo nel forgiare epoche e modelli.

Vergine, concubina, moglie, madre o strega: nella storiografia tradizionale le donne non agiscono mai fuori dagli schemi.

La storia delle donne è stata rappresentata per secoli attraverso l’utilizzo di poche categorie fisse. Incisione di J. van de Velde, “La Strega” (1626)

La Zemon Davis è la prima a invocare una visione “pluridimensionale” dell’indagine storica.

La storia delle donne non si oppone alla “storia generale”, né deve essere considerata una “storia particolare” o alternativa.

Essa è piuttosto una storia di relazioni. E si rivela intrinsecamente legata al significato che ogni cultura – e ogni epoca – attribuisce all’individuo sulla base del suo “genere” (termine che Zemon Davis non utilizza ma che diverrà popolare con l’avvento degli studi dedicati a questa tematica).

Conoscere la storia delle donne significa valorizzare tutti soggetti e gli attori della storia. Riconoscendo che ognuno di essi deve essere indagato in virtù dei suoi legami con la cultura nella quale è immerso.

Gli studi sulla storia delle donne “fanno bene” anche agli uomini: da queste ricerche, infatti, nasce una nuova attenzione verso il mondo maschile, non più spersonalizzato e ridotto a uno standard. L’uomo non è più inteso come categoria “generale”, ma diviene categoria di genere, che deve essere indagata e compresa nei suoi meccanismi fondanti, nelle sue sfumature e relazioni.

Indagare la storia in maniera inclusiva è un processo profondo, che genera scompiglio. Si arriva a “sparigliare le cronologie”.

La definizione è di un’altra importante studiosa del settore, Joan Kelly Gadol, storica del tardo medioevo e del rinascimento.

Sparigliare le cronologie” significa riconoscere che alcune categorie assurte a generali non sono applicabili in egual misura alla storia di uomini e donne.

L’esempio classico? il Rinascimento: per le donne non fu epoca in cui fiorire, vivere di arte e di scienza, realizzare gli ideali dell’umanesimo. Eppure anche le donne ebbero il loro Rinascimento: è il periodo della poesia trobadorica e dell’amor cortese, in cui espressero ed esercitarono forme di potere.

 

Amor cortese.

L’analisi dell’esperienza femminile attraverso i secoli ha portato alla luce saperi, storie, percorsi e tesori inaspettati. Ricerche che vanno di pari passo con la rivendicazione di pari opportunità e diritti, di un “potere” femminile a lungo nascosto e negato.

Per una storia più inclusiva e più giusta.

A causa della meraviglia

Se volessimo intraprendere un’analisi delle imprese umane da dove potremmo iniziare? Dall’evoluzione? Dalla storia? Forse dal pensiero scientifico? E perché non dalle esplorazioni oppure dalle guerre?

Potremmo trovare innumerevoli origini, molteplici prospettive, tutte egualmente valide, tutte assolutamente significative. Ma se volessimo trovare un singolo principio, un punto di partenza dal quale l’esperienza umana è sorta e si è poi sviluppata, dovremmo rivolgerci ad una idea, ad un concetto, che potrebbe essere determinato con la necessità di sapere, di comprendere, in una parola con la conoscenza.

C’è un modo per definire la conoscenza? Tentare di comprendere cosa sia la conoscenza non è certo cosa da poco. Provare a delimitarne i confini o, anche solo approssimativamente la fisionomia, è un’impresa che sembra destinata invariabilmente alla frantumazione, alla dispersione in innumerevoli nozioni, ognuna delle quali pone un nuovo interrogativo. 

A causa della meraviglia – da dove iniziare un’analisi delle imprese umane?

Come dobbiamo considerare il ragionamento, l’informazione e l’esperienza? Che relazioni hanno tra loro l’analisi e la sintesi, l’innato e l’appreso? Esistono la coscienza e la mente? L’intuizione e il pensiero, la verità e la fede possono convivere insieme? E come si situano nei confronti delle scienze?

Se dovessimo immaginare la conoscenza, potremmo rappresentarla come una costruzione simile ad una sfera con il centro ovunque (ogni elemento pur essendo legato agli altri rimane comunque indipendente) e con i limiti in nessun luogo (nessun elemento è definibile in sé, né in connessione con altri). 

Noi allora quotidianamente “capiamo”, ma capiamo cosa vuol dire capire? Pensiamo, ma sappiamo pensare cosa vuol dire pensare? 

La nostra conoscenza diviene estranea non appena tentiamo di “conoscerla”: dobbiamo quindi abbandonare l’illusione di poterne disporre facilmente e pensarla piuttosto in una visione di molteplicità.

La conoscenza non può essere ridotta a una sola nozione, bisogna invece concepire più livelli ciascuno dei quali appartiene poi ad una area ancora più vasta, punto di vista particolare della conoscenza generale.

A causa della meraviglia – La conoscenza non può essere ridotta a una sola nozione, bisogna invece concepire più livelli

La conoscenza risulta essere un effetto di una causa che ancora dobbiamo comprendere.

Prima della conoscenza, prima della sistematizzazione di ciò che sappiamo cosa possiamo trovare? Qual è il principio?

Ancora una volta sono gli antichi maestri ad indicarci la via: Platone nel Teeteto fa dire a Socrate

Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia; ne altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumante non sbagliò, mi sembra, nella genealogia (Teet., 55d).

Il principio del sapere è identificato nella meraviglia, Iride (messaggera tra gli Dei e gli uomini) è la Filosofia ed è figlia di Taumante, il cui nome in greco richiama il verbo “meravigliarsi” (Thaumazein).

Prima di ogni categorizzazione e sistematizzazione, antecedente ad ogni razionalizzazione c’è un sentimento, uno stato d’animo, una pacata esaltazione che ci riempie gli occhi di sorpresa e l’animo di un tremendo sgomento. Possiamo immaginare dei primi uomini pervasi dalla meraviglia. Possiamo tentare di narrare un episodio in cui questa emozione è sorta solo in alcuni individui, ed ha anticipato e poi guidato il pensiero momentaneo ed utilitaristico.

Pensiamo al fuoco. Immaginiamo il momento in cui si crea il fuoco da una fiamma spontanea causata forse da un fulmine oppure da una combustione naturale. Uno sparuto gruppo di esseri protoumani, ancora non dotati di un linguaggio strutturato, si avvicina con timore e curiosità a quella manifestazione colorata e violenta. 

La meraviglia è il principio che andavamo cercando. Ed è a causa della meraviglia se il sapere, la scienza e la tecnica hanno potuto avere inizio e svilupparsi.

 

Sin dagli albori della civiltà, l’uomo è pervaso dalla meraviglia.

Quindi, l’analisi delle imprese umane è strettamente legata ad una trepidazione, ad una perdita della razionalità che permette di poter intuire, in un singolo momento, di essere contenuti all’interno di una gabbia, di una scatola di regole e convenzioni. Nel medesimo tempo la stessa trepidazione dà l’impulso di trasformare ciò che è contenuto in qualcosa di più grande del contenitore stesso, abbattendo le mura e guardando verso l’infinito.

I limiti allora si sposteranno, la gabbia diventerà più grande e sui nuovi confini si costruiranno altre credenze e quindi nuove demarcazioni, nuove consuetudini, che solo la meraviglia potrà poi spostare ancora più in là.

A causa della meraviglia: la meraviglia è una mistica confusione, una perdita temporanea del senno, un’ascesi che ci permette di poter avere prospettive inusuali, luci inconsuete, intuizioni formidabili.

Un sentimento raro, prezioso e senza fine, così come è infinita la tensione verso la sapienza.

 

 

Articolo di Stefano Brega (filosofo, specializzato in Filosofia del Linguaggio e teorie della Conoscenza)

“Abbassare le stelle al mio livello”.

“Abbassare le stelle al mio livello”: il magico perduto di Dylan Thomas.

Dylan Thomas è stato un artista nel senso più completo e assoluto. Poeta maledetto, gallese di nascita, alcolista per vocazione, inesauribile scrittore, letterato, pensatore libero, animo straziato da un dolore costante, solo a tratti punteggiato da un “umano” esasperato, ha fatto di sé una lirica vivente.

Gli artisti, si sono accinti, sebbene inconsciamente, a dimostrare una di due cose: o che sono pazzi in un mondo sano di mente, o che sono sani di mente in un mondo pazzo. A pochi è stato concesso di pervenire a una fusione perfetta tra follia e sanità mentale, e tutto è sano di mente tranne ciò che noi facciamo pazzo, e tutto è pazzo tranne ciò che noi facciamo sano di mente.

Dylan Thomas nasce a Swansea nel 1914 e inizia da giovanissimo, malgrado l’adesione al “nuovo romanticismo”, a praticare una poesia che reca evidenti influssi di Hopkins e Joyce. Twenty-five poems e The map of love, e A portrait of the artist as a young dog, poesie legate ai ricordi dell’infanzia, gli garantiscono buoni riconoscimenti.

“Abbassare le stelle al mio livello”: il magico perduto di Dylan Thomas.

Il suo stile è complesso e ricco di ambigue oscurità, come l’estetica geometrica con cui disegna e delinea, a volte, i limiti delle parole.

L’apparente rigore si fonde con una ricerca spasmodica di musicalità in uno sviluppo progressivo che tende verso inconsuete traiettorie, tutte oppositive:

E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce
.

E i pensieri del poeta suonano come una eco nelle lettere che continua a scrivere, a rivedere, a tracciare come un cammino che conduce sempre verso segmenti di contrasto, inevitabili scontri emotivi.

Il magico perduto di Dylan Thomas. Musicalità e traiettorie oppositive.

La poesia dovrebbe essere, in primo luogo, un documento o una narrazione, di tutti gli eventi emotivi tra il venire e l’andare, il formarsi e il dileguarsi, della gelosia, gelosia scaturita dall’orgoglio e uccisa dall’orgoglio, tra l’assenza e il ritorno del personaggio cruciale della narrazione, tra la guerra della sua assenza e l’armistizio della sua presenza.

Una lirica tormentata e a tratti ironica, volutamente offuscata da ricordi e allucinazioni:

A volte scrivo da sobrio e correggo da ubriaco, a volte scrivo da ubriaco e correggo da sobrio”, paradossi e ossimori “Dopo la prima morte non ve ne sono altre.

La categoria dell’enigma è sempre in agguato. Lo svelare sentimenti e situazioni non appartiene al suo sentire, perché nella forza della sua lingua scritta si innestano ricorsività mentali e, come un giocatore esperto, Thomas sa che ogni codice scritto rappresenta la spina dorsale dell’interpretazione e dovrà essere il lettore a svelarlo, a interpretarlo secondo le proprie conoscenze e abilità. Meccanismo potente, che lega parole comuni a situazioni non convenzionali, combinazioni di parole nuove con concetti solo potenzialmente etichettabili.

Il magico perduto di Dylan Thomas. Parole come enigmi.

Non si abbassa al gioco del semplice, non si rifugia nelle spiegazioni (sarebbe impossibile per lui) ma usa mezzi espressivi che riproducono antagonismo di sensazioni ed emozioni, lucidità e apparente tenebra:

 E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.

Dylan Thomas è l’umanità condensata in un’abilità linguistica che è conoscenza condivisa, che produce forme e contenuti che ci rendono sensibili, anche al di là della loro comprensione:

Si tratta, lo ammetto, di cose poco attraenti, con le loro immagini quasi totalmente anatomiche. Ma difendo lo stile, il susseguirsi forse tedioso di sangue e ossa, gli inesauribili paragoni tra le correnti nelle vene e le luci negli occhi, […] e mi rendo conto come mi sia impossibile sollevarmi all’altezza delle stelle, e come sia costretto, per conseguenza, ad abbassare le stelle al mio livello e ad includerle nel mio universo materiale.

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

Io e Athena ci siamo incontrati in una libreria

Io e Athena ci siamo incontrati in una libreria è il racconto del mio primo incontro con la Filosofia (permettetemi, almeno in questo inizio, di scriverla con la lettera maiuscola). Un incontro che fu talmente improvviso e inaspettato da costituire una memoria indelebile.

Da quel giorno molti fatti sono trascorsi. Altrettanti ricordi sono sbiaditi o si sono cancellati. Ma non la vicenda che determinò l’inizio del viaggio, non il suo principio.

Avevo circa 20 anni e come spesso succede non avevo reali convinzioni di cosa volessi essere nella vita.

 

Avevo confusamente scelto all’università Scienze Naturali e bighellonavo materialmente e mentalmente in attesa di svolgere il servizio militare (allora ancora obbligatorio). Nessun desiderio particolare, nessuna prospettiva illuminava la mia idea di futuro. Fu proprio durante uno di questi vagabondaggi che mi imbattei nella disciplina di Athena.

Ero con un mio amico e come eravamo soliti fare camminavamo senza meta per le vie del centro cittadino, dividendo le nostre discussioni tra un generalizzato e assolutamente non motivato rifiuto della società e cialtronerie boccaccesche.

Nonostante questo, avevamo entrambi anche una parte nobile: l’amore per la lettura e di conseguenza per i libri. Eravamo interessati soprattutto ai libri storici e di divulgazione scientifica. Proprio in virtù di questo interesse, quel giorno entrammo in una libreria (non una di quelle che frequentavamo abitualmente) e incominciammo anche qui a bighellonare tra gli scaffali, leggendo i titoli, sfogliando i libri che ci sembravano interessanti ed esecrando platealmente altri che non ci sembravano assolutamente degni di nota.

Quando ecco che il mio amico si dirige verso una sezione che non eravamo usi frequentare, ovviamente la sezione di filosofia.

Ricordo perfettamente la sensazione di quasi disagio che provai nel leggere i vari titoli sulle costine. Alcuni autori mi erano ovviamente noti, di altri non avevo mai sentito parlare. Io avevo fatto un istituto tecnico e la filosofia non era contemplata in alcun modo nel piano degli studi.

Alla sensazione di disagio subentrò una bizzarra sensazione di straniamento, come se non riuscissi in quel preciso momento a mantenere l’equilibrio di me stesso e come se mi fossi reso conto che il centro su cui poggiava la mia esistenza fosse solo un ciondolare.

Una sensazione rapidissima ma incisiva che stava per farmi allontanare dagli scaffali, quando il mio amico scuotendo leggermente la testa come per annuire, allungò una mano e prese un libro di Nietzsche e più precisamente “Al di là del bene e del male”, lo soppesò per un momento e poi mi annunciò che lo avrebbe acquistato.

Disagio e straniamento furono spazzati via dalla sorpresa e dal senso della sfida.

Allungai una mano anche io verso lo scaffale e simulando sicurezza scelsi un’altra opera di Nietzsche, “L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo”. Perché proprio quest’opera? Perché mi sembrava breve e perché tra le cialtronerie di rifiuto dell’epoca c’era anche una confusa avversione verso il cattolicesimo.

Se di questo episodio riesco a ricordare vividamente i suoni, i colori e persino gli odori, di quello che avvenne immediatamente dopo non ho alcuna memoria. Naturalmente avrò pagato il libro che sarà finito dentro una busta e mi avrà accompagnato per il resto della passeggiata.

La memoria torna vivida se ripenso al momento, al primissimo momento, in cui a casa aprii il libro con l’intenzione di provare a leggerlo.

Le prime frasi della prefazione furono simili ad un colpo fortissimo.

Questo libro si conviene ai pochissimi. Forse di questi non ne vive ancora neppure uno.

Era come se sentissi Nietzsche parlarmi direttamente, con un tono di voce roboante, come se avesse iniziato a indicare una via invitandomi a prenderla ma nello stesso tempo avvertendomi che si trattava di una via pericolosa, irta di problemi e angosce, ma il suo avvertimento aveva totalmente il suono della sfida, una sfida da cui fui irrimediabilmente attratto e che ancora oggi condiziona ogni mia singola giornata.

Divorai il libro, leggendo e rileggendo i vari enunciati, scrivendo le frasi per me maggiormente significative e prendendo la decisione irrevocabile di abbandonare la facoltà che stavo facendo e di iscrivermi al Corso di Laurea in filosofia, sorprendendo tutti coloro che mi conoscevano (in primis i familiari) che si diedero subito da fare per persuadermi a rinunciare e a “smettere di vivere tra le nuvole, perché con la filosofia non troverai mai lavoro”.

Naturalmente nella mia prima lettura di Nietzsche non avevo in realtà compreso quasi nulla. Era una lettura guidata solo dalla sensazione, senza alcuna base che mi permettesse di definire il contesto, la storia, e il senso di quelle affermazioni. Avrei acquisito queste conoscenze solo dopo, approfondendo gli studi, e vedendo sotto un’altra luce quelle frasi che mi erano sembrate pura esaltazione e potere.

Ma non si incomincia ad ardere per una passione in nessun altro modo. Solo con una folgore imprevedibile è possibile accendere un fuoco che non si conosce, dopo si potrà imparare a controllarlo, a riprodurlo, a definirne la potenza.

Ma la folgore iniziale resterà per sempre. E nei momenti più bui sarà possibile accedervi di nuovo per avvertire ancora la meraviglia.

 

di Stefano Brega, filosofo.

Nutriamoci di parole

Avete mai pensato di cibarvi di parole e accenti?

Di considerare la letteratura come un cibo da odorare, masticare, inghiottire e digerire? Di fare delle parole un nutrimento mentale che offra sapori pungenti, decisi, tattilmente consistenti o odori aspri, dolci, avvolgenti? Di condire le parole con asprezze per farne una pietanza dolceamara, di spargere termini salmastri in periodi dolcigni, o mascherare un linguaggio arcigno con un velo di dolcezza e servire il tutto come in un menu di cucina fusion?

La letteratura è cibo quando accentua quella sensazione di gusto armonioso e delicato o di disgusto traboccante, indigeribile, soverchio. È cibo quando si spinge dall’appagante profumo di un desiderio ai nauseabondi bocconi amari. Spesso è arte del gusto, in opere da consumare lentamente, in lunghi passaggi dai contorni brucianti, da rigurgitare e ricominciare.

È cibo da meditazione, nella letteratura attenta, ricca di indecifrabili essenze, succosa, carnale, umorale; è assaggio frettoloso nella letteratura pigra, sonnolenta, lattiginosa. La letteratura si tramuta in cibo da consumare velocemente, quando si mostra metafora sociale, racchiudendo, nel suo involucro croccante, incontri e scontri, per rimane poi sulle labbra a sottolineare differenze o somiglianze. Cibo come letteratura tra piatti gourmet irreali e ossessivi, tra pietanze elaborate che nascondono correnti emozionali, tra avanzi e briciole, tra vita e morte, tra mondi che non esistono e sogni possibili.

Spesso la letteratura usa il cibo per condire un linguaggio percettivo e immaginario, per parlare di illusione, piacere e rinuncia, per esplorare porte d’accesso al dualismo, al magico, al rimosso.

Scrittura di un mondo rovesciato, dove il rifiuto del cibo costituisce un simbolo, la manifestazione delle proprie ossessioni, un lucido rifiuto dei fremiti del cuore, del passaggio pulsante della vita nelle vene, di una nuova alterna coscienza.

Molti scrittori e poeti hanno raccontato (attraverso la funzione meccanica e dissociante del cibo che da ghiotta tentazione diviene nutrimento superfluo dei cuori distratti, da bisogno emergente si trasforma in alimento deviante per menti disattente) di terre di speranze e disperazione, di nuove scoperte e di vecchi principi.

Il cibo nei racconti ha spesso il sapore disgustoso del macabro, che sfuma in contorni dolorosi e deliranti, diventando metafora di ciò che è socialmente buono o cattivo, giusto ed ingiusto. Il cibo da semplice alimento estende la sua potenza e mostra il suo obiettivo aggregante.  Diventa quantitativamente rilevante e socialmente riconoscibile, comunica, distingue le persone ed i gruppi, unisce identità di dolore.

Cibo non enumerato, non determinato, non tratteggiato nei suoi caratteri più comuni ma compiutamente espressivo, potente, distruttivo, catalizzatore dei mali del mondo, voce di cuori e coscienze, come nei racconti di Nathaniel Hawthorne.

Letteratura che si serve del cibo per allestire banchetti esaltanti e perversi, in cui il cibo rappresenta l’ingresso ad un mondo rituale e primitivo, fungendo da richiamo, da morbosa attrattiva sessuale e vampirica: è fonte di riti magici per desideri e appetiti antropofagi. Il cibo descritto per essere divorato con oscena voracità, poiché è il simbolo di un rituale di morte, uno strumento comunicativo efficace ed espressivo. Tavole imbandite e ricche di cibo morto, elegantemente presentato e rabbiosamente afferrato. Un cibo letterario che ha il gusto ed il profumo del proibito, spartiacque tra la brutalità e bisogno di immortalità, come nei feuilleton di Gaston Leroux.

Cibo che diventa personificazione del contrasto, forma e visione di una società immatura e frivola, segno di rottura e di declino delle coscienze, metafora di un mondo sul ciglio del baratro, che si consegna nelle mani del vizio, del lusso e della gola, per sfuggire orrori e responsabilità.  Cibo svelato da contenitori sottili e trasparenti, segno tangibile di bellezza e decadenza morale, presenza viva e corporea, che ostenta se e stesso, esibendosi su un palcoscenico illuminato dallo sfarzo e oscurato dal vizio e dall’apatia, come in Rainer Maria Rilke.

Ma il cibo letterario è anche passaggio, chiave di accesso per una delle tematiche centrali della letteratura scapigliata: il dualismo, la doppia immagine della coscienza. Cibo capace di assolvere la sua funzione perturbante oltre i limiti biologici, mostrando il suo valore simbolico, come ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti, capace di gettarci nell’ombra profonda di una realtà lontana da noi o di mostrarci l’approdo a una più sicura coscienza ordinaria.