La marine citizenship e gli oceani come bene comune
Una distesa cobalto che profuma di alghe e sale. Centinaia di bioregioni, migliaia di forme di vita, milioni di comunità umane che dipendono direttamente dalle risorse marine. Si può dire che i mari e gli oceani appartengano a qualcuno? O essi sono bene comune, eredità da custodire e trasferire, ricchezza da proteggere? La marine citizenship, o cittadinanza del mare, indica un modello in cui gli individui sono coinvolti nelle scelte che riguardano la salute degli ambienti marini, rivendicando diritti quali la preservazione degli ecosistemi a beneficio anche delle generazioni future. I “cittadini del mare” si attivano per la sua difesa e compiono scelte consapevoli.
Gli oceani sono un complesso “unico e continuo”. Essi occupano circa il 70% della superficie terrestre.
Obiettivi comuni
Tra le sfide indicate dai documenti ufficiali del decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile 2020-2030 (UN), emergono chiari diversi indirizzi. Innanzitutto, vi è l’aspirazione a cambiare radicalmente la nostra relazione con il mondo marino. Comprendere e affrontare le minacce climatiche, proteggere e ripristinare la biodiversità, rovesciare i modelli economici di sfruttamento. Si tratta di obiettivi nobili e alla nostra portata, purché si lavori sull’allargamento della partecipazione attiva. E mai come prima d’ora questo desiderio è stato tanto diffuso e radicato.
Acqua e vita. Due elementi strettamente connessi
Minacciati dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento ambientale, questi fragili ecosistemi sono tra i più soggetti a speculazioni, sfruttamenti e abusi. In essi sono ancora più evidenti i meccanismi di interconnessione che regolano la vita sul pianeta. I mari sono patrimonio del pianeta e delle comunità, umane e non umane, che da essi traggono nutrimento per la vita. La relazione con il mare è stata inoltre fondamentale per lo sviluppo di innumerevoli culture nel mondo.
Oltre 250 milioni di persone nel mondo dipendono direttamente dagli ecosistemi marini per il soddisfacimento delle proprie necessità di base
Tuttavia, quando si parla di strategie di gestione dei mari, difficilmente riusciamo a configurare una partecipazione diretta alle decisioni che le riguardano. Ci preoccupiamo delle coste, delle spiagge, a volte dei primi tratti del fondale. Ma l’esperienza dei cittadini è ancora lontana dalle discussioni macro sulla salute e sulla tutela del patrimonio blu. In questo, occorre chiedere a gran voce un cambiamento politico.
Diritti e doveri
Secondo una recente ricerca svolta dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, la “cittadinanza del mare”, ovvero la possibilità di partecipare consapevolmente alle decisioni e agli eventi trasformativi che riguardano mari e oceani, è un diritto da reclamare, a tutela del nostro benessere e di quello delle generazioni future. Le ricerche su questo tema si sono finora focalizzate sulla partecipazione sporadica e la responsabilità individuale, come singoli attivisti o associazioni che si occupano di promuovere stili di vita sostenibili, allontanando, ad esempio, le persone dal consumo di plastica monouso o ripulendo le spiagge. Ma la marine citizenship può diventare molto di più.
Gli effetti dell’inquinamento da plastica e il sovrasfruttamento legato alla pesca stanno mutando profondamente gli equilibri marini. Cambiare rotta dipende dalle nostre scelte di vita, come singoli e come comunità
“la cittadinanza marina è più importante del cambiamento individuale. […] l’accesso alle decisioni ambientali, che oggi è mediato dagli enti, non consente agli individui di fornire un contributo diretto. L’influenza dei cittadini sulle discussioni che riguardano il futuro degli oceani è ancora minima.” – afferma Pamela Buchan dell’Università di Exeter, vincitrice del Celebrating Impact Prize 2022 dell’Economic and Social Research Council (ESRC).
I problemi marini sono legati anche alle nostre scelte individuali: alimentazione, stili di vita e consumi producono un forte impatto. Questi comportamenti divengono poi modelli. Propagandosi all’interno delle società, “disegnano” il nostro rapporto con il mare.
In questo senso, le mobilitazioni a favore dell’ambiente di questi ultimi anni e il desiderio di attivarsi concretamente per la difesa dei nostri territori, sono un primo segno di concezioni nuove del nostro vivere con responsabilità la natura di cui siamo parte. Di fronte alla natura, possediamo diritti e doveri. Tuttavia, occorre spingere perché il cambiamento investa anche i livelli più alti: riconoscendo l’emergenza climatica, le cause di inquinamento, i meccanismi che intaccano la rigenerazione delle risorse e le possibili minacce future agli equilibri del mare.
Diffondere la consapevolezza che ogni decisione sulle tematiche ambientali ci riguarda da vicino e che partecipare è un nostro diritto, può ridisegnare il futuro degli oceani
Già una ricerca del 2012 aveva messo in luce come il coinvolgimento dei cittadini nella gestione delle risorse marine promuovesse una maggiore sostenibilità ambientale e una migliore salute dell’intero ecosistema. A giocare un ruolo chiave sarà la nostra capacità di educare alle sfide che abbiamo di fronte, di aumentare il nostro senso di responsabilità e di promuovere scelte politiche diverse, attraverso la partecipazione attiva a favore del bene comune.
In tutte le epoche la funzione primaria del cibo è stata quella di nutrire il corpo. Ma con l’alimentazione finiscono inevitabilmente per intrecciarsi società e cultura.
La più che millenaria storia romana – tredici secoli, per l’esattezza – ha conosciuto, quanto alle abitudini alimentari, tre diversi momenti.
In età arcaica, era la pastorizia a fornire interamente i cibi con cui nutrirsi. Essi provenivano quasi esclusivamente dal territorio italico: frugalità era il principio che guidava l’alimentazione in quel periodo.
Poi, grazie all’espansione nel Mediterraneo e al contatto con nuove popolazioni, in età repubblicana (a partire dalla metà del III secolo a.C.), e poi sempre di più nel Principato, grazie al raggiungimento di una stabilità politica e sociale, l’alimentazione iniziò a variare arricchendosi di pietanze sempre nuove e anche di ingredienti pregiati.
Un ritorno all’antico sembra invece caratterizzare la terza e ultima fase, quella dell’età tardoantica. Tra i più fulgidi esempi di questa inversione di rotta quanto ad abitudini alimentari, troviamo l’imperatore Giuliano, che, secondo quanto ci riporta la tradizione, si nutriva (e beveva) il minimo indispensabile e, sulla scia dell’usanza dei soldati, addirittura consumava in piedi il suo pasto, di norma consistente in una sorta di polenta di farro.
Un approccio morigerato era imposto principalmente da due fattori, da un lato, la crisi economica, dall’altro il diffondersi del Cristianesimo. Il messaggio cristiano, che vedeva la cena quotidiana come quella eucaristica, memoria della celebrazione di Cristo, fu determinante nel diffondere regole di sobrietà, biasimando ogni eccesso anche a tavola.
Ma quali cibi arrivavano sulle tavole degli antichi Romani?
Cibo come cultura a Roma.
Alla base dell’alimentazione vi erano i cereali, come frumento, orzo, miglio, farro e avena, da cui si otteneva la farina impiegata per produrre il “pane”. Come anche nell’odierna tradizione mediterranea, il pane, sebbene diverso da quello che conosciamo oggi, era una presenza essenziale sulle tavole di tutti i ceti sociali. Da solo poteva anche costituire un pasto, soprattutto per i più poveri, che lo condivano con qualche avanzo per conferirgli più sapore. Si narra che anche l’imperatore Augusto fosse solito pranzare con un’oncia di pane e dell’uva.
Un altro prodotto di grande importanza e straordinaria diffusione era il vino, celebrato da poeti come Orazio o Tibullo come ‘rimedio per scacciare gli affanni’ – anche d’amore! – servito spesso allungato con acqua (da un terzo a quattro quinti!) o ‘tagliato’ con miele o albume.
Come scriveva Plinio nella sua Storia naturale, “Ci sono due liquidi che sono particolarmente gradevoli per il corpo umano: il vino all’interno e l’olio all’esterno. Entrambi sono eccellenti prodotti naturali, ma l’olio è assolutamente necessario, e l’uomo non ha sbagliato a dedicare i suoi sforzi ad ottenerlo”.
L’olio d’oliva fu un prodotto imprescindibile nella vita quotidiana degli antichi romani, che non solo lo usavano come condimento in cucina, ma anche, per la sua versatilità, come combustibile per l’illuminazione e come unguento alle terme.
Un giusto apporto proteico, specialmente agli albori della civiltà romana quando carne e pesce non erano molto diffusi, era assicurato dal consumo di legumi e semi, i quali, oltre che facili da coltivare, conservare e cucinare, erano anche alla portata delle persone meno abbienti. Dalle testimonianze archeologiche apprendiamo che i legumi più diffusi erano fave, lupini, ceci, lenticchie e, in misura minore, fagioli. L’impiego prevalente era quello in forma di zuppa. Alcuni di questi avevano inoltre proprietà medicamentose utilizzate anche nella preparazione dei cosmetici.
Frutta e verdura erano consumati in abbondanza.
cibo come cultura nel mondo romano
Produzioni locali di uva, mele, pere, fichi, prugne, melagrane vengono affiancate da prodotti coltivati in terre lontane, come le ciliegie del Ponto, le albicocche armene e le pesche persiane. Gli ortaggi più diffusi ed apprezzati – anche perché considerati salutari per l’organismo – erano bietole, insalate varie, spinaci, cavoli, carciofi, fagiolini, finocchi, broccoli, zucche e zucchini, rape, carote, cipolle.
Il latte, prevalentemente di pecora o di capra, era bevuto appena munto o trasformato in formaggio, di cui si conoscono diversi tipi a seconda della stagionatura. Autori come Varrone e Columella riportano consigli sulle tecniche di preparazione.
I Romani, come già i Greci, erano dediti all’allevamento del pollame non tanto per mangiarne la carne, quanto per consumarne le uova. Sia Varrone sia Cicerone si auguravano di iniziare il pasto proprio con un uovo. Il poeta Marziale, per indicare un pasto completo, usava l’espressione ‘ab ovo usque ad mala’, ossia un pasto che iniziava con l’uovo e si concludeva con le mele.
Cibo come cultura a Roma.
La carne non ebbe mai un ruolo primario nell’alimentazione: soprattutto in età arcaica, essa era mangiata quasi esclusivamente in occasione di sacrifici religiosi.
Con l’andare del tempo, oltre alla cacciagione, ai volatili e ad altri animali che popolavano i boschi, i Romani finirono per apprezzare carni considerate più pregiate quali ghiri, cicogne, fenicotteri, pavoni, usignoli.
Anche il pesce, stando ai ritrovamenti archeologici, era consumato nelle sue varie specie. Diverse sono le ricette tramandateci da Marco Gavio Apicio, celebre gastronomo vissuto all’epoca di Augusto e del successore Tiberio, autore del De re coquinaria (Sull’arte culinaria), come la murena arrosto con pepe, ligustico, zafferano, cipolla, prugne di Damasco, vino, vino melato, aceto, mosto cotto, olio e salsa di pesce oppure i ricci di mare con salsa di pesce, olio, vino dolce, pepe in polvere.
Tutte le preparazioni, sia di carne sia di pesce, prevedevano l’accostamento a salse, come il famoso garum, o a spezie, quali pepe, cumino, coriandolo, finocchio selvatico, ginepro, ottimi insaporitori che però erano ad appannaggio dei più ricchi.
Il cibo non era solo una necessità, ma anche un piacere.
Cibo come cultura a Roma. I banchetti.
A partire dal III secolo a.C. con l’ampliarsi dei confini a seguito delle guerre puniche, giunsero nuovi prodotti sulle tavole romane e i piatti videro elaborazioni sempre più complesse. Inoltre, si diffuse la ‘moda’ di allestire banchetti per accrescere il prestigio dell’organizzatore, cosicché il cibo divenne lo strumento per ottenere consenso sociale.
Lo sfarzo e il lusso sono legati a personaggi come Lucullo e Trimalchione. Del primo, vissuto probabilmente a cavallo tra il II e il I secolo a.C., sono stati tramandati diversi aneddoti legati a tavole imbandite con sfarzo sulle quali facevano bella mostra di sé, tra le altre portate, uccellini di nido con asparagi, pasticcio d’ostrica, pavoni di Samo, pernici di Frigia, morene di Gabes, storione di Rodi. Del secondo, protagonista del Satyricon di Petronio, opera composta nel I secolo d.C., è celebre una cena esageratamente lussuosa ove fa la comparsa una portata che attirò l’attenzione generale: “… un’alzata rotonda su cui si vedevano a cerchio i dodici segni dello zodiaco, sopra ognuno dei quali il cuoco aveva posto la pietanza corrispondente …”. Anche l’arte del servire a tavola assunse rilievo, nel tentativo di fare magie con gli ingredienti e ‘ingannare’ il commensale tramite un gioco di estetica.
Biasimo pubblico e interventi legislativi cercarono di riportare alla frugalità e alla moderazione del consumo del cibo, ponendo limiti al numero dei convitati, alle spese per la preparazione del convivio e al lusso nell’apparecchiatura della tavola.
Ma, oltre al cibo come necessità o come piacere, vi era una terza singolare funzione che assolvevano alcuni alimenti. Infatti, la loro presenza in certi negozi giuridici, in aggiunta al prodursi di effetti sul piano sociale ed economico, ne determinava addirittura la valida conclusione.
Lasciando da parte il diritto sacro e il ruolo delle offerte di cibo nei sacrifici, il primo esempio si rintraccia nella confarreatio, un’antica cerimonia matrimoniale religiosa, compiuta alla presenza del sacerdote di Giove e di dieci testimoni, che prendeva il nome da una focaccia di farro (c.d. panis farreus) che gli sposi spezzavano, per simboleggiare l’inizio della vita in comune. È probabile che tale panis, in principio un miscuglio di grani macinati sottoposti a cottura, somigliasse, più che a una focaccia lievitata, a un’ostia, visto che l’impiego di lievito era proibito dalla religione più antica.
Un altro caso di presenza di cibo nella struttura di un atto giuridico si rintraccia nella manomissione, tramite la quale il padrone rinunciava alla sua potestà sullo schiavo, rendendolo libero. La manomissione nella sua forma ‘per invito al convivio’ (per mensam) consisteva proprio nell’invito che il padrone faceva allo schiavo di unirsi al banchetto.
Il fatto di ammettere lo schiavo alla tavola era una chiara ed inequivocabile manifestazione della volontà da parte del proprietario di liberarlo: la condivisione del cibo attribuiva effetti giuridici alla decisione.
Più di duemila anni sono trascorsi dall’antica Roma a oggi, e sono di tutta evidenza le differenze tra le due società, ma è interessante notare come il modello nutrizionale romano si poggiasse su alimenti che costituiscono il nucleo della cosiddetta dieta mediterranea, riconosciuta dall’Unesco come bene protetto e inserito nel 2010 nella lista dei patrimoni immateriali dell’umanità.
di Stefania Roncati, docente di Istituzioni di Diritto Romano presso l’Università di Genova
Sono una donna con disabilità e vivere senza perdere l’entusiasmo, non è facile. La nostra società è improntata più sull’apparire che sull’essere. Quindi, converrete con me, che essere una donna su ruote è estenuante.
Ogni giorno devo trovare la forza di far ascoltare la mia voce. E di renderla valida, perché ogni volta che interagisco con gli altri devo dimostrare di poter essere degna di stare al mondo e di possedere una mia facoltà di pensiero. Questo processo molte volte mi è reso possibile grazie ai social: scrivo tanto, scrivo molto, e quello schermo protegge sia me dall’invadenza della gente (che si sente legittimata, pur non conoscendomi, ad accarezzarmi come se fossi un cagnolino) sia loro da quella frustrazione, da tutta la rabbia, il dolore, la mancanza e i compromessi che ogni giorno caratterizzano la mia vita.
Spesso mi dicono che sono una persona determinata e forte. E io rispondo che lo sono perché non ho altra scelta.
Non perché io sia una wonder woman, anzi faccio mediamente schifo, come tutti. Però, vivere per me significa essere responsabile del mio miglioramento, giorno dopo giorno. Lotto sempre con persone che mi dicono come essere donna e come vivere la mia vita. Adulta sì, ma mai abbastanza. Donna sì, ma mai abbastanza.
Il “sembri quasi una normodotata” mi accompagna da una vita. Chi lo dice pensa di farmi un complimento. Ma è tutto fuorché un complimento. È un modo indiretto per dirmi: “Non so come definirti, non so comprendere la tua diversità,non so accettare che l’essere umano è polisemico, che può racchiudere diverse qualità, senza categorizzarsi e definirsi indefinitamente. Io, ad esempio, definisco solo ciò che oggettivamente non posso cambiare ma solo accettare.
Non solo sono una donna, non solo una persona con disabilità. Sono entrambe le cose, più tante altre qualità.
Per una vita intera ho dato l’opportunità agli altri di definirmi. Con le loro osservazioni, aggettivi, consigli non richiesti. Ora, non più. O almeno, ci sto provando. Sto imparando a fare i conti con la solitudine e con l’inquietudine, tipica di chi sceglie di vivere la vita seguendo i propri valori, anche se questo significa non conformarsi alla società.
Io, nella vita voglio darmi la possibilità di evolvere, cambiare. Con uno sguardo accogliente, diventare me stessa ed essere qualcuno per le persone che stimo.
L’espressione del mio essere è condizionata dal contesto in cui sono. Vi sembrerà a tratti scontato, ma vivere in una città piuttosto che un’altra, fa la differenza. I luoghi, i servizi, l’educazione civica, le persone con cui interagisco durante la giornata, influenzano in maniera esponenziale ciò che sono. Vivere in un luogo dove puoi esprimere te stessa, a tutto tondo, è indispensabile per accettarsi e per crescere. Dal poter uscire di casa, andare in università, viaggiare, lavarsi, vestirsi, sono tutte azioni che per me non sono automatiche, ma sono frutto di esercizio e di collaborazione con gli altri.
Molte azioni che faccio per manifestare me stessa nel mondo sono possibili perché chiedo aiuto, perché pago, perché ci sono servizi sul territorio che aiutano a preservare la mia libertà.
Da piccola mi sono fatta una promessa. Mi sono promessa di diventare una donna libera e indipendente.
Una promessa molto difficile da mantenere visto che il mondo è fatto per persone normotipiche e tutto ciò che sono riuscita ad ottenere l’ho ottenuto solo perché ho compreso che nella vita nulla è scontato: dal mangiare autonomamente, al poter camminare sulla sabbia, godersi il sole, uscire di casa, tutte azioni frutto di interazioni con gli altri e fisioterapia perenne. Sul mio corpo, mi sono tatuata questa frase: “Senza più limiti” e invece di limiti ne ho tanti e sono loro a rendermi autentica, a insegnarmi che non sono speciale, che questa sono semplicemente io.
Essere se stessi è una virtù di pochi, essere se stessi significa essere consapevoli che il futuro deriva solo da questo e che per vivere la vita che vuoi, devi fare tanti sacrifici. E non hai minimamente tempo di dire agli altri come vivere la propria vita. Perché sei troppo impegnata a pensare alla tua.
Avere una disabilità ti insegna a chiedere aiuto, ti insegna a mostrarti fragile, non perché lo vuoi ma perché non hai altra scelta. Ti insegna cosa vuol dire la mancanza, la perdita, con la successiva rielaborazione forzata di quella voglia di vivere irrefrenabile (che mi contraddistingue).
Ho imparato cosa voglia dire la parola “umana”. Sono umana quando sbaglio, sono umana quando non sono performante, sono umana quando ho dei momenti di sconforto, sono umana quando sono stanca e voglio stare per conto mio.
Sono una donna di 24 anni e ho una disabilità. La spensieratezza dei miei vent’anni, non l’ho ancora sperimentata e forse non la sperimenterò mai, sono troppo impegnata a costruirmi la vita che vorrei. Vorrei poter socializzare con tutti a prescindere dai contesti, e vorrei essere considerata valida per poter intrattenere conversazioni con estranei, senza dimostrare di esserne degna.
Devo tener conto di tantissime cose: degli ambienti, perché se non sono accessibili, non possono esserci per me. Devo tener conto del fatto che non posso provare a fare esperienze come tutti gli altri, il mio sforzo è sempre maggiore, perché lo scoglio culturale è talmente grande che anche se sei bella, intelligente ed autonoma, se ne escono con la scusa: “non siamo pronti ad accettare la tua disabilità” come se io fossi solo questo e nient’altro. Non posso svegliarmi e decidere di partire all’istante, visto che devo prenotare tutto con molto anticipo. Posso decidere il giorno e l’ora ma devo sperare che in quel determinato momento ci sia solo io su quel treno, perché i posti disponibili per le persone con disabilità sono ridotti. Cercare una casa in affitto per me è una missione quasi impossibile, devo tener conto dell’accessibilità del luogo, dei servizi offerti, devo costruirmi una rete sociale ben solida, devo tener conto che devo avere dei soldi da parte per modificare la casa, per soddisfare le mie esigenze “speciali”.
Proprio per queste circostanze, per me è veramente difficile cambiare, nonostante nell’animo io sia una donna errante, vagabonda, emigrata, viaggiatrice e attrice girovaga. E di questo ne soffro molto ma al tempo stesso ho compreso e accettato, che ci sono cose nella vita che sono come devono essere. Ci sono cose per cui non possiamo fare nulla, se non focalizzare l’attenzione su quello che si può realmente fare, con quello che si ha a disposizione in quel preciso istante.
Insomma, la mia vita è una sorta di circo errante e proprio per questo ho imparato a essere un po’ comica, pagliaccia; ho imparato che l’ironia può salvarti la vita e che per uscirne non bisogna prenderla né poco né troppo sul serio. Tanto non ne usciamo vivi, comunque.
Sono una donna istintiva, eccentrica, spontanea, creativa, emotiva, possessiva, malinconica. Voglio vivere la mia vita al meglio, non ho paura di esprimere ciò che provo anche se ci metto molto a comprenderlo e a definirlo. Parlo tanto, parlo molto ma tutte le cose che dico sono frutto di una riflessione ed elaborazione mentale.
Credo tantissimo nella valenza delle parole, perché so che hanno il potere di restarti dentro, belle o brutte che siano, e a prescindere da chi le pronuncia.
Al giorno d’oggi, si vive il mondo alla massima velocità e veloci sono anche le parole, le relazioni, i sentimenti che viviamo. Il mio modo di essere influisce anche su questo. Non sono mai stata una persona veloce, infatti nella mia vita ho solo legami profondi. Si possono contare sulle dita di una mano. Ma queste persone sono affascinanti, piene di conoscenza e riflessioni interessanti, aperte. Hanno sperimentato a loro volta il dolore e quindi non giudicano.
Sono persone consapevoli dei loro limiti. Non credono di essere migliori di altri, non sono mai vincenti ma sempre diversi da tutti. Alcuni per scelta, altri, perché non ne hanno avuta.
I miei amici per me sono il sale della vita, sono coloro che mi hanno insegnato cos’è la tenerezza, la dolcezza, l’esserci, l’amore, la protezione, l’accettazione. Sono accoglienza, ironia e bellezza. Ho imparato ad amarmi proprio grazie al loro amorevole sguardo, che mi ha permesso di mostrarmi alcuni aspetti di me che non sapevo neanche di avere. Sono persone importanti e li porto dentro ovunque vada, perché mi hanno amato sempre, anche e soprattutto quando ero” invisibile”, credendo in me prima che lo facessi io.
Parte integrante di me sono anche tutti i bambini che incrocio ogni giorno, anche per un solo secondo. Io sono un’educatrice, sto studiando per diventarlo. Sento il dovere di amarli incondizionatamente, dedicare tutta me stessa a loro, giocarci, passare del tempo con loro in maniera autentica, lasciandoli liberi di esplorare e sperimentare la vita, con l’eventualità di farsi anche male.
Non sono io che educo loro ma sono loro che educano me. Mi insegnano cosa voglia dire vivere la vita con spontaneità, leggerezza e semplicità, tutte caratteristiche che per sopravvivere ho accantonato ma con loro ho vissuto di nuovo.
Diceva, K. Jaspers : “Rimane bambino chi è veramente uomo“. Ecco, per questo io amo insegnare ai bambini: per preservare la mia umanità.
Ci dicono che dobbiamo crescere, avere dei soldi ed essere realizzati professionalmente, ma nessuno ci insegna come diventare umani.
Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole
Una perla rara dimenticata. Sigrid Undset è stata tra le poche donne (in tutto sedici) ad aver vinto il premio Nobel per la Letteratura. Una scrittrice norvegese che si oppose strenuamente al nazismo. Una voce da conoscere e amare.
Nata il 20 Maggio del 1882, Sigrid proveniva da una antica famiglia di proprietari terrieri, gli Halvorsen, che nella prima metà del ‘700 si era insediata nella valle del fiume Atna, dove oggi sorge il meraviglioso Parco Nazionale di Rondane.
Era stato il nonno di Sigrid, un sottufficiale, a muoversi per primo verso nord accettando una mansione in una workhouse. Le “case lavoro” erano istituzioni basate su una legge norvegese che autorizzava la polizia a trattenere poveri e vagabondi fino a un massimo di sei mesi, impiegandoli in diversi tipi di lavori “socialmente utili”, diremmo oggi. Chissà cosa l’avrà spinto tanto lontano, a vivere in un contesto tanto ingrato. Sappiamo che fu un cambiamento radicale: il nonno di Sigrid cambiò il cognome nome in Undset, ispirandosi a un luogo di cui la nonna gli aveva narrato. Un uomo duro ma anche volubile, testardo e inquieto, una figura che risalterà per contrasto con quella intellettuale e rassicurante del padre di Sigrid.
Ingvald Undset, il padre di Sigrid.
Ingvald è colto, curioso, aperto a nuovi stimoli e amante dei viaggi in Europa. Si laurea e poi conclude un dottorato in archeologia, divenendo un nome nel campo. Nonostante la morte prematura, ad appena 40 anni, la sua passione e le sue competenze nell’ambito della storia vichinga avranno una grande influenza su Sigrid e costituiranno terreno fertile per lo sviluppo del suo pensiero e dei suoi scritti.
Sigrid somigliava al padre: cresciuta in un ambiente di liberi pensatori, era abituata a mettere sempre tutto in discussione. Mostra sin da bambina una personalità originale e anticonformista: non le piaceva la scuola, proprio come più tardi, da adulta, non imparò mai ad amare il suo lavoro da impiegata. A 27 anni, si dimetterà, per iniziare una nuova vita.
Introversa, solitaria e riflessiva, la sua vita è sempre stata nei libri.
Capita che a molti venga dato ciò che era in origine destinato ad altri, ma nessun uomo può ricevere in dono un destino che non sia il proprio.
La sua vicenda personale è costellata di colpi di scena e di testa: come il matrimonio con il pittore Anders Castus Svarstad, con il quale aveva intrapreso una relazione “illecita” (Svarstad era sposato e aveva tre figli) tre anni prima. Svarstad era un uomo brillante e amante dei viaggi (il viaggio, un tema ricorrente nella vita e nell’opera di Sigrid), famoso soprattutto per la pennellate vivida e suggestive con cui ritraeva ora Chicago ora Londra, ora Bruges, Parigi, Roma e Napoli.
Un dipinto di Svarstad che ritrae Via Bocca di Leone, a Roma.
Lascia la prima moglie per Sigrid nel 1912 ma 7 anni dopo il matrimonio è già incrinato. I due avevano avuto tre figli, uno dei quali gravemente malato.
Sono anni difficili, in cui Sigrid trova rifugio nella scrittura.
Il matrimonio non funziona: il marito le tarpa le ali, anteponendo la propria carriera artistica a quella di Sigrid. Lei inizia a interessarsi alla questione femminile, indaga modelli e proposte, scrive di emancipazione, si trova a polemizzare con alcune posizioni del movimento femminista. Parallelamente, coltiva un suo percorso spirituale, studia e svolge ricerche sulle religioni scandinave. Scrive romanzi storici, raccolte di leggende, diviene un’autorità nel campo degli studi medioevali.
Sigrid legge moltissimo anche opere a lei vicine. Traduce dall’inglese al norvegese, arrivando inoltre a elaborare critiche complesse e profonde su autori come le sorelle Brontë e David Herbert Lawrence.
Il suo primo romanzo, nel frattempo, ha già dato scandalo, affrontando un tema delicato come quello dell’adulterio, da un punto di vista tutto femminile.
Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole. Sigrid è giovanissima quando decide di inviare il suo primo manoscritto a una casa editrice. Il testo viene rigettato: è tutto da rifare. Lei non si abbatte, utilizza le critiche per correggere il tiro, rivedere lo stile, crescere nella scrittura. Il manoscritto successivo è un successo (e sarà la stessa casa editrice che aveva rifiutato la prima proposta a pubblicarlo).
A seguire ci saranno una serie di scritti in cui il tema dell’amore infelice ricorrerà come leitmotiv, sullo sfondo di ambientazioni ora moderne ora medievali. Gli orrori della prima guerra mondiale e i tormenti personali però la segneranno profondamente. La ricerca spirituale la porterà in quegli anni a scoprire il cattolicesimo, al quale si converte nel 1924.
A quel punto il matrimonio con Svarstad, secondo la legge cattolica, è nullo. E lei è una donna libera.
Nel 1928 la sua carriera è all’apice: vince il premio Nobel per la letteratura. Il cristianesimo entra nei suoi scritti in modo sempre più evidente, nonostante la conversione, in Norvegia – nazione quasi esclusivamente luterana -, sia vista con enorme sospetto. La sua morale è forte e peculiare ma continua a essere apprezzata anche da chi non ne condivide la spiritualità.
I suoi sono libri che spronano a occuparsi e preoccuparsi del prossimo, a vivere con responsabilità, a rispettare la vita e la natura intorno a noi.
I suoi interessi investono pian piano anche la politica: Sigrid ricerca e scrive sulla filosofia del nascente partito nazista. Si dichiara acerrima avversaria del regime sin dai primordi, scorgendo dal 1933 in poi, nella figura di Adolf Hitler, l’incarnazione di un male feroce e aberrante che, come una profezia, esploderà di lì a qualche anno.
Nella Germania nazista le sue parole vengono bollate come pericolose, i suoi libri messi all’indice. Il suo nome entra presto nella lista nera della Gestapo.
Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole. Nel 1933, in Germania, gli studenti nazisti di più di 30 università saccheggiano le biblioteche in cerca di libri considerati una minaccia per la nazione tedesca. Tra gli scritti letterari e politici che vengono dati alle fiamme ci sono anche le opere di Sigrid Undset. (Credit: United States Holocaust Memorial Museum, Washington).
Quando Bjerkebæk viene occupata dalle truppe tedesche è costretta a fuggire. Due dei tre figli sono già morti, una di malattia, l’altro in battaglia. Nel 1940, insieme al figlio minore, si unisce al movimento di resistenza per poter attraversare la Norvegia e mettersi in salvo in Svezia, oltrepassando la città bombardata di Åndalsnes e la contea di Nordland. Dalla Svezia decide poi di salpare per gli Stati Uniti, dove per tutta la durata della guerra continua a scrivere e a tenere conferenze per la pace e contro l’ideologia nazista.
Riuscirà a rientrare in patria solo a guerra finita, ricevendo dal governo norvegese onorificenze e premi per l’impegno a favore della liberazione. Dalla guerra però non si riprenderà mai. Vivrà pochi anni nel totale silenzio, per infine spegnersi e essere sepolta accanto al figlio e alla figlia: un tumulo con tre semplici croci di legno scuro, nel piccolo villaggio di Mesnali.
Che cos’è la giustizia ambientale? Trattiamo oggi uno degli argomenti più importanti del nuovo paradigma etico.
La giustizia ambientale è innanzitutto un movimento sociale che si preoccupa di comprendere il ruolo che lo sfruttamento delle risorse naturali può giocare nell’aumento o nella riduzione delle disparità sociali e di proporre ove necessario azioni e contromisure. Ma anche di indagare come l’ambiente possa, invece, divenire strumento di equità e giustizia. Il concetto così come lo conosciamo nasce negli Stati Uniti, negli anni ’80 del secolo scorso. Nell’epoca del boom economico emerge una concezione complessa della relazione tra ambiente e essere umano, che ingloba aspetti economici, sociali e di ecologia.
L’ambientalismo occidentale aveva, infatti, mosso i suoi primi passi all’interno di un contesto privilegiato: quello delle colte e relativamente benestanti comunità statunitensi ed europee.
Le prime associazioni per la tutela della natura, nate alle fine del 1800, si ponevano come obiettivo principale la salvaguardia di ambienti selvaggi e il più possibile incontaminati.
Questi costituivano fonte di ispirazioni per le arti, rifugio da una vita industrializzata già allora troppo invadente, diletto per lo spirito e il corpo. Il movimento ambientalista si occupava, dunque, di preservare la natura limitandone l’accesso all’uomo, “chiudendola” nella gabbia d’oro di riserve e parchi nazionali.
A partire dagli anni ’60 del ‘900 lo scenario si è fatto più complesso. E il pensiero molto più consapevole dei legami tra ambiente e società, tra sfruttamento e ingiustizia, tra modelli economici e inquinamento. Inoltre, le comunità indigene hanno gradualmente conquistato un peso e una rilevanza maggiore anche all’interno delle grandi organizzazioni internazionali.
La giustizia ambientale non può realizzarsi senza consapevolezza dei legami tra noi, la natura e gli altri. Essa si manifesta lontano dalle logiche di sfruttamento e profitto.
Perché parlare di giustizia ambientale?
L’ecologia non può più limitarsi a guardare alla tutela di spazi dedicati alla natura. Pensare di costruire oasi felici di biodiversità per arginare il disastro ambientale è un piano incompleto. Servono modelli diversi, che prevedano maggiore integrazione tra comunità umane e natura e visioni a lungo termine. Ogni volta che un’area selvaggia viene “invasa dallo sviluppo”, infatti, gli habitat prima a disposizione di molte specie vengono compromessi o distrutti. Ogni volta che un’innovazione produce un aumento della domanda di materie prime la cui estrazione, lavorazione o smaltimento produce un impatto (come nel caso delle miniere di cobalto, rame e coltan in Congo, indispensabili per la produzione di dispositivi elettronici) meccanismi complessi si mettono in moto. Con effetti a catena per l’ambiente, ma anche per il tessuto sociale (guerre) – che non riusciamo neppure a prevedere. E ripercussioni etiche che dovremmo affrontare.
La distruzione degli ecosistemi può in particolare impattare il diritto alla salute e allo sviluppo delle generazioni presenti e future.
L’inquinamento da plastica colpisce in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili e le donne, che risentono maggiormente degli squilibri ormonali causati dalle microplastiche.
In questa ottica le comunità indigene sono diventate modelli di riferimento per la loro capacità di sopravvivere e di far fronte ai loro bisogni essenziali e persino di prosperare, senza tuttavia intaccare la qualità degli ambienti.
L’attenzione nei confronti di questi saperi e la ricerca di una valorizzazione di questo bagaglio culturale prezioso per l’umanità, al fine di diffondere sistemi virtuosi, si scontra però con gli interessi rapaci di big player mondiali e spesso degli stessi governi, che “svendono” i territori e le foreste per trarne profitti. Accade così che l’Amazzonia divenga un pascolo per le grandi catene di fast food, i boschi della popolazione Sami si trasformino in autostrade, le foreste pluviali degli aborigeni australiani si mutino in stalle, allevamenti e miniere.
In virtù della loro esperienza e delle tradizioni tramandate di generazione in generazione, i popoli indigeni sono spesso i migliori conservazionisti. Poiché la loro vicinanza alla natura è maggiore e non filtrata, la consapevolezza dell’impatto che ogni azione ha sull’ambiente è maggiore.
La giustizia ambientale è un concetto sfaccettato, che abbraccia le modalità con cui le popolazioni si rapportano all’ambiente, i benefici che da esso traggono e come questa ricchezza viene gestita e ridistribuita.
Ma anche il modo in cui i modelli economici impattano sugli equilibri naturali, distruggendo la possibilità, per le generazioni future, di fruire di servizi ecosistemici puliti e sicuri. O anche solo di godere della bellezza della natura.
Poter godere di un ambiente sano e di una natura pulita, le cui forze rigenerative siano intatte e che produca servizi ecosistemici essenziali accessibili (cibo, acqua, risorse) – nel rispetto dei suoi tempi, è parte del diritto alla salute, un diritto inalienabile di ogni essere umano.
I costi dello sfruttamento e del degrado ambientale – nonché dei cambiamenti climatici – ricadono soprattutto sulle popolazioni più povere. Innescando fenomeni migratori, impattando sulla possibilità di costruire una vita sui propri territori e di agire per invertire la tendenza. Provocando spesso alienazione e frustrazione che si trascinano per intere generazioni.
Eppure la sofferenza di questi popoli che per primi si trovano a dover affrontare le conseguenze di inquinamento e cambiamenti climatici ci riguarda da vicino. Non solo perché se non cambiamo paradigma risentiremo presto anche noi gli effetti di questo uragano. Ma anche perché per la natura non esistono confini.
I problemi ambientali non possono essere arginati da muri e frontiere.
la cura delle natura deve occupare un ruolo centrale nella cultura e nello stile di vita.
La salute del pianeta riguarda tutti.
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Ecologia: due prospettive da conoscere. L’ecologia è una scienza i cui obiettivi e indirizzi si sono grandemente evoluti e modificati nel tempo, passando da un approccio antropocentrico alla valorizzazione dei sistemi complessi che mettono in relazione tutti gli esseri viventi. Due prospettive in particolare hanno giocato un ruolo chiave in questo cambio di paradigma: la teoria di Gaia e la filosofia della Deep Ecology (in italiano Ecologia Profonda). Vediamole insieme.
Teoria di Gaia
Non è un caso che questa teoria riprenda il nome dalla Dea della primordialità dell’antica mitologia greca. La teoria di Gaia, infatti, sostiene l’esistenza di equilibri basati su un “metabolismo della vita”, capace di regolare e autoregolarsi.
Ecologia: due prospettive da conoscere. Secondo la teoria di Gaia la biosfera sarebbe regolata da un unico super organismo capace di autoregolarsi, modificando le condizioni ambientali in base alle necessità. Con il fine ultimo di sostenere la vita sul pianeta.
Questa rete di interazioni equilibratrici si sarebbe sviluppata in un aumento costante di complessità e di valore nell’arco di diverse ere. La vita e il pianeta terra si sarebbero dunque evoluti insieme.
In effetti, è l’interazione tra miliardi di microbi e esseri viventi ciò che consente il mantenimento dell’atmosfera così come la conosciamo. Le sue stesse regole sono frutto di milioni di anni di evoluzione, stravolgimenti geologici, aggiustamenti necessari nella chimica dell’atmosfera. Questi cambiamenti sono strettamente legati alle popolazioni di viventi che abitano la terra, al loro numero e alle loro dinamiche di sopravvivenza.
I batteri, in particolare, costituirebbero una garanzia di equilibrio a lungo termine: organismi dalla popolazione quasi illimitata, in grado di modificarsi rapidamente e di “aggiustare” situazioni apparentemente compromesse (persino in condizioni di inquinamento chimico o nucleare).
Ecologia: due prospettive da conoscere. Il suolo è una risorsa preziosa e non rinnovabile proprio in virtù dei complessi meccanismi che concorrono alla sua formazione. In questo processo, i batteri svolgono un ruolo fondamentale. La nostra catena alimentare, senza di loro, sarebbe irrimediabilmente compromessa.
I batteri sono organismi che, non dimentichiamolo, vivono e prosperano ovunque. Sono responsabili di meccanismi indispensabili per la nostra salute e per la salute del cibo che ingeriamo. Trasferiscono informazioni genetiche svolgendo un ruolo fondamentale nell’evoluzione. Riciclano i rifiuti di altri esseri viventi. Insomma, regolano i cicli globali da cui dipendono tutte le altre forme di vita, animale e vegetale.
La teoria di Gaia fu elaborata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979 ed è stata, da allora, ampiamente dibattuta e criticata.
Ora sembra trovare conferma nei più recenti studi sull’ecologia dei sistemi e, ancor di più, nelle ricerche sul ruolo del microbioma.
I batteri: alleati indispensabili anche per la salute umana.
Gli studi sul microbioma dimostrano che i batteri, in particolare quelli presenti nel nostro intestino, sulla superficie della nostra pelle e sulle mucose, influenzano non solo la nostra salute, aiutandoci a prevenire tumori e infezioni, ma persino la nostra psiche. In che modo? Modulando il sistema ormonale (alcuni batteri emettono “molecole segnale”, al pari di neurotrasmettitori e ormoni) e influenzando umore e pensieri. Essi svolgono, dunque, un ruolo regolatore ben più ampio di quanto in precedenza immaginato.
In quest’ottica, la Teoria di Gaia ha trovato nuova linfa vitale.
Ecologia profonda
L’ecologia profonda (in inglese deep ecology) è una filosofia che mette al centro la visione ecocentrica, facendo dell’etica ambientale il suo focus fondamentale. In netto contrasto, quindi, con una visione antropocentrica ed egocentrica, che ha sempre messo al centro i bisogni umani rispetto a quelli di altre specie e ha promosso un’idea di progresso basata sul dominio, anche a costo di compromettere la salute degli ecosistemi.
Il termine fu coniato dal filosofo norvegese Arne Næss nel 1973.
Ecologia: due prospettive da conoscere. La Deep Ecology si basa su una visione ecocentrica, rimette al centro delle discussioni sull’ambiente la natura stessa, unendo spiritualità, attivismo, promozione di obiettivi basati sulla qualità della vita e non sul PIL, con una forte critica al modello economico capitalista.
La deep ecology sostiene che la vita (umana e non-umana) abbia di per sé un valore intrinseco.
La biodiversità merita di essere difesa al di là delle logiche di convenienza e sfruttamento. Di fatto, l’attuale interferenza delle attività umane con il resto del mondo naturale si è spinta troppo in là.
Una transizione ecologica reale delle nostre economie dovrebbe perciò puntare su meccanismi virtuosi di decrescita, in netto contrasto con la concezione capitalista basata su bisogni indotti, progresso a tutti i costi e consumismo.
Poiché in natura tutto è collegato, non esiste possibilità di uno sviluppo infinito, squilibrato e incontrollato delle economie umane, se non a costo di una compromissione seria del sistema e delle nostre possibilità di sopravvivenza. Gli uomini, insomma, non hanno alcun diritto di impoverire la ricchezza del pianeta, al solo scopo di soddisfare i propri egoismi.
L’ecologia profonda domanda un ritorno ai bisogni reali dell’umanità: amore e affetti, senso di comunità, creazione artistica e ricerca spirituale. Spostando l’attenzione dai beni materiali alle relazioni.
Ecologia: due prospettive da conoscere. Per l’Ecologia Profonda la felicità è da ricercarsi al di fuori dagli schemi di competizione, sfruttamento, consumo e profitto.
La Deep Ecology promuove il minimalismo e una riduzione reale (lontana, perciò, dalla propaganda greenwashing dalla quale siamo invasi) del nostro impatto sul pianeta. Ci invita, insomma, a tornare a focalizzarci su un’autentica sostenibilità e sul benessere psicologico e sociale degli individui e delle comunità.
Anna Stella Dolcetti si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School, specializzandosi in Green Marketing all’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali. Laureata in Lingue e Culture Orientali, è insegnante di Yoga certificata Yoga Alliance RYT-500.
In molti lo confondono con il Greenwashing. Ignorando, invece, che il Green Marketing nasce grazie alle pressioni dei movimenti ambientalisti degli anni 70. Esso presenta caratteristiche e strumenti ben diversi da quelli utilizzati dal suo “gemello cattivo” greenwashing. Facciamo chiarezza.
Dopo aver visto l’ultima campagna di una nota associazione ambientalista fare riferimento al Marketing Green come sinonimo di Greenwashing ho creduto necessario tornare sull’argomento. L’utilizzo improprio del termine è paradossale se si pensa che nella storia del Green Marketing figurano grandi nomi dell’ambientalismo mondiale, come Gro Harlem Brundtland (che oltretutto fu a lungo impegnata anche sul fronte femminista). Esso nasce, infatti, con la volontà di portare il dibattito etico all’interno delle strutture economiche capitaliste, fino ad allora votate soltanto alla crescita ad ogni costo. Ne avevo già parlato in un mio articolo del 2019, che trovate qui.
Negli ultimi decenni il termine “Green Marketing” è stato spesso utilizzato in modo improprio. Un uso che ha contribuito a sminuire gli sforzi di chi ha fatto dell’impegno verso la sostenibilità una missione. Riappropriamoci, allora, del corretto utilizzo del termine e dei valori connessi alla fondazione di questa disciplina. Recuperando tutto quanto di buono e utile per il pianeta possiamo trarne.
Che cos’è il Green Marketing?
Green Marketing è un termine ombrello che abbraccia strategie e strumenti volti al design e alla promozione di prodotti sostenibili, sia a livello sociale che ambientale. La nascita di questa disciplina va a braccetto con l’avvento del concetto di “sviluppo sostenibile”.
Green Marketing: John Grant è tra i maggiori esponenti della disciplina.
Che cos’è il Greenwashing?
Con Greenwashing si intende un insieme di tecniche volte a ingannare il consumatore, facendo percepire un determinato prodotto o servizio come sostenibile (o più sostenibile di quanto esso sia realmente). Propagandando, cioè, falsi vantaggi per la salute del pianeta, delle persone o delle società. In Italia per Green Washing un’azienda può finire in tribunale e essere condannata per pubblicità ingannevole (come accaduto a Gorizia, lo scorso Febbraio).
In che cosa Green Marketing e Greenwashing sono diversi?
Il Green Marketing è una scienza sociale che ha come obiettivo quello di generare sostenibilità, conciliando gli obiettivi di crescita con il benessere delle persone e del pianeta. Se il Greenwashing si pone come obiettivo il mettere in piedi un inganno (e l’attenzione del green washer è dunque tutta puntata sul manipolare la mente del consumatore), il green marketer concentra invece i suoi sforzi virtuosi sulla creazione di prodotti e servizi il cui impatto sia ridotto o nullo, studiando a fondo materiali, strategie, opzioni e processi “verdi”, che facciano bene a chi consuma e a chi produce (curandosi, ad esempio, dei diritti dei lavoratori e delle comunità di produttori, riducendo gli sprechi, eliminando le materie plastiche dai packaging, mettendo in piedi strategie circolari).
Nel Green Marketing il design etico del prodotto, che deve essere sostenibile e a basso impatto lungo tutto il suo ciclo di vita, è punto di partenza e condizione imprescindibile. La comunicazione arriva dopo.
Nel Green Marketing il prodotto/servizio è “green by design”, ovvero verde per definizione – o verde o nullo. Intorno al prodotto o al servizio, che deve essere sostenibile, pulito, trasparente e dall’impatto positivo, ruotano tutte le attenzioni del marketer etico.
A cosa serve il Green Marketing?
L’attenzione nei confronti delle tematiche legate alla sostenibilità è cresciuta negli ultimi decenni. La consapevolezza sull’impatto dei propri acquisti (unita alle eco-ansie) spinge sempre più persone a privilegiare prodotti “eco”, “green” o “naturali”.
Purtroppo, a servirsi di strategie di marketing pervasive sono soprattutto i grandi gruppi multinazionali. Il Greenwashing (ovvero strategie di Green Marketing “snaturate” in quanto prive dei fondamentali presupposti etici), è utilizzato come strumento per aumentare i profitti. E ottiene spesso grande successo nel confondere il consumatore.
Non a caso un recente sondaggio condotto nel Regno Unito, che ha coinvolto oltre mille persone, ha prodotto un curioso risultato: secondo il campione le aziende di retail più sostenibili sarebbero Amazon, H&M e Primark. Lasciamo al lettore le dovute conclusioni (qui come esempio un approfondimento del Guardian sull’impatto sociale e ambientale di Amazon nel 2022). Il dato, comunque, almeno sulla cecità dei consumatori, sembra parlare chiaro.
Tutto questo è avvenuto anche a causa di una “demonizzazione” del marketing in sé e per sé. Dobbiamo riappropriarcene come strumento di design e di comunicazione efficace.
È molto importante che i piccoli produttori, imprenditori e associazioni del mondo green sappiano come comunicare al meglio il proprio valore.Il Green Marketing si rivolge proprio a loro.
Il marketing etico valorizza le persone e la natura dietro i prodotti.
Conoscere il Green Marketing, infine, come consumatori, ci aiuta a riconoscere i prodotti davvero etici e sostenibili, e ad arginare così il fenomeno del Green Washing, evitando di cadere in trappola.
Quali sono alcuni esempi di Green Marketing?
I prodotti e le campagne delle imprese del biologico e del biodinamico, il design del merchandising delle associazioni ambientaliste e le loro campagne di raccolta fondi. I prodotti e le campagne dei consorzi equosolidali. La strategia social del turismo responsabile e solidale. Sono tutti esempi di messa a terra di strategie di Green Marketing.
Le campagne del Green Marketing non si limitano a presentare il prodotto come sostenibile, bensì forniscono garanzie di conformità a standard di sostenibilità riconosciuti e affidabili.
Agiscono inoltre come vere e proprie campagne di sensibilizzazione per il consumatore, che viene invitato a informarsi e a comprendere maggiormente cosa si celi dietro ogni acquisto, aiutandolo a evitare di cadere nei tranelli del Green Washing.
Un esempio di Green Marketing: Campagna pubblicitaria dei negozi NaturaSì.
Nel Green Marketing l’etica è il fondamento dell’azione e consumatore e produttore sono vicini, condividono gli stessi valori, che portano avanti producendo o acquistando prodotti e servizi sicuri e trasparenti.
Non solo tutela dell’ambiente: anche i diritti dei lavoratori sono una tematica centrale nella campagne Green. Un prodotto è sano quando rispetta tutti.
Il Green Marketing è comune anche nelle medie e piccole imprese, dove l’artigianalità del prodotto e l’attenzione alla tutela dei territori e delle risorse è più forte.
Come riconoscere il Green Washing?
La maggior parte delle campagne di prodotti “verdi” portate avanti da grandi gruppi multinazionali ricade nel greenwashing. Questo perché l’impatto di alcuni grandi gruppi sull’ambiente e sulle società è talmente grande da non poter essere compensato da piccole azioni, che oltre a essere gocce nel mare, vengono utilizzate come “scuse” per “vestirsi” di sostenibilità. I casi più eclatanti riguardano le aziende coinvolte nell’inquinamento da plastica (ad esempio i produttori di acqua o bibite in bottiglia).
Campagna di Greenpeace contro Coca Cola.
Anche i grandi gruppi di fast fashion ricorrono al greenwashing. Pur rappresentando la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella del petrolio e la seconda industria per impiego di schiavitù infantile e femminile nella produzione, si servono spesso di “capsule collection”, ovvero collezioni in edizione limitata, prodotte in cotone biologico o in plastica riciclata. Le campagne pubblicitarie dedicate sono spesso un trionfo di multiculturalità, empowerment femminile e bambini che giocano spensierati tra i prati. Il ritorno di immagine è alto, almeno nel consumatore poco attento. La spesa, per la grande azienda fashion, è minima. E può continuare a inquinare in pace.
Il Greenwashing (e i suoi fratelli Pinkwashing e Socialwashing) spesso adottano strategie sottili e subdole, che rendono difficile anche al consumatore esperto e scaltro accorgersi dell’inganno.
Accade, ad esempio, quando i grandi gruppi progettano e mettono in vendita nuovi brand. Un processo che vede la fondazione di aziende ad hoc, senza che l’affiliazione alla multinazionale madre sia chiaramente esplicitata. E così, il principale produttore di plastica mondiale può mettersi a vendere succhi di frutta “naturali”, con un nuovo nome e una nuova veste grafica accattivante. L’ignaro consumatore li mette nel carrello, senza sapere che sta finanziando un’azienda che magari, su altri prodotti, boicotta.
Come puntualizza Matt Palmer di Plastics Rebellion – Gruppo appartenente a XR UK (in questo articolo), “Il greenwashing […] è pericoloso: significa che le persone decidono volontariamente – e inconsapevolmente – di supportare il tuo progetto, nella convinzione errata di fare del bene al pianeta”.
Il Greenwashing è una “verniciata di verde”, che sotto la superficie si dimostra ben poco sostenibile.
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Anna Stella Dolcetti si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School, specializzandosi in Green Marketing presso l’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali. Laureata in Lingue e Culture Orientali, è insegnante di Yoga certificata Yoga Alliance RYT-500.
Natalie Zemon Davis è stata la prima studiosa a occuparsi della storia delle donne, rivoluzionando l’approccio alla storiografia e promuovendo una visione inclusiva.
La storiografia tradizionale ha per secoli ignorato il ruolo femminile negli eventi storici. La “storia delle donne” è esistita, eppure non è stata sufficientemente raccontata. Ma il fiorire degli “Women’s Study” come disciplina accademica, negli ultimi decenni, ha contribuito a rinnovare il metodo dell’indagine storica e a rivelare nuovi sentieri dell’esperienza femminile.
Nel 1976 la storica e antropologa Natalie Zemon Davis pubblica sulla rivista Feminist Studies un articolo dal titolo “Women’s History in Transition”.
L’obiettivo è rispondere a una domanda semplice quanto rivoluzionaria – ancor più nello scenario accademico americano degli anni ’70 (la Zemon Davis era docente a Princeton) – : Esiste una storia delle donne?
La storia delle donne – La storica e antropologa Natalie Zemon Davis è la prima a interrogarsi sulla sua esistenza
Per rispondere a questa domanda la studiosa si avvale di un gran numero di fonti, concentrandosi in particolare sulla storia moderna e su come la storiografia a essa collegata rappresenti il femminile. Dalla sua ricerca conclude che la storiografia esistente non rende giustizia alle storie delle tante donne che nei secoli hanno vissuto e plasmato il tessuto economico e sociale. Occorre allora ricostruirne il ruolo, approcciando le fonti con sguardo nuovo.
Riscoprire la storia delle donne significa allontanare le loro soggettività da stereotipi e fissità.
La storiografia tradizionale ha ignorato il ruolo delle donne all’interno del grande fiume della storia. Iscrivendole in una dimensione strettamente biologica e immutabile. Chiudendole in immaginari, fissità e stereotipi che, come gabbie, hanno reso impossibile a priori che si raccontasse il loro ruolo attivo nel forgiare epoche e modelli.
Vergine, concubina, moglie, madre o strega: nella storiografia tradizionale le donne non agiscono mai fuori dagli schemi.
La storia delle donne è stata rappresentata per secoli attraverso l’utilizzo di poche categorie fisse. Incisione di J. van de Velde, “La Strega” (1626)
La Zemon Davis è la prima a invocare una visione “pluridimensionale” dell’indagine storica.
La storia delle donne non si oppone alla “storia generale”, né deve essere considerata una “storia particolare” o alternativa.
Essa è piuttosto una storia di relazioni. E si rivela intrinsecamente legata al significato che ogni cultura – e ogni epoca – attribuisce all’individuo sulla base del suo “genere” (termine che Zemon Davis non utilizza ma che diverrà popolare con l’avvento degli studi dedicati a questa tematica).
Conoscere la storia delle donne significa valorizzare tutti soggetti e gli attori della storia. Riconoscendo che ognuno di essi deve essere indagato in virtù dei suoi legami con la cultura nella quale è immerso.
Gli studi sulla storia delle donne “fanno bene” anche agli uomini: da queste ricerche, infatti, nasce una nuova attenzione verso il mondo maschile, non più spersonalizzato e ridotto a uno standard. L’uomo non è più inteso come categoria “generale”, ma diviene categoria di genere, che deve essere indagata e compresa nei suoi meccanismi fondanti, nelle sue sfumature e relazioni.
Indagare la storia in maniera inclusiva è un processo profondo, che genera scompiglio. Si arriva a “sparigliare le cronologie”.
La definizione è di un’altra importante studiosa del settore, Joan Kelly Gadol, storica del tardo medioevo e del rinascimento.
“Sparigliare le cronologie” significa riconoscere che alcune categorie assurte a generali non sono applicabili in egual misura alla storia di uomini e donne.
L’esempio classico? il Rinascimento: per le donne non fu epoca in cui fiorire, vivere di arte e di scienza, realizzare gli ideali dell’umanesimo. Eppure anche le donne ebbero il loro Rinascimento: è il periodo della poesia trobadorica e dell’amor cortese, in cui espressero ed esercitarono forme di potere.
Amor cortese.
L’analisi dell’esperienza femminile attraverso i secoli ha portato alla luce saperi, storie, percorsi e tesori inaspettati. Ricerche che vanno di pari passo con la rivendicazione di pari opportunità e diritti, di un “potere” femminile a lungo nascosto e negato.
Il tema della sostenibilità investe ogni aspetto della nostra vita. Anche quello lavorativo. Il fenomeno delle Grandi Dimissioni ha portato alla luce quanto la ricerca di una vita rispettosa delle nostre emozioni possa spingerci ad affrontare l’incertezza e condurci lontano.
“Sostenibile” significa “Che può essere affrontato”.
Ragionando sul concetto di sostenibilità mi sono imbattuta in articoli, podcast, blog, libri, conferenze che negli ultimi mesi hanno popolato social e rubriche. Ad oggi possiamo attingere a una grande quantità di informazioni e nozioni sul tema della sostenibilità.
Ma cosa si intende per sostenibilità?
“Sostenibile” significa “che può essere affrontato”. – Illustrazione di Tiziana Pesenti
Stando al vocabolario, sostenibilità significa “La possibilità di essere sopportato, spec. dal punto di vista ecologico e sociale.”
La definizione di sviluppo sostenibile secondo la Commissione delle Nazioni Unite è “lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri”. La sostenibilità è legata al processo di cambiamento, dove lo sfruttamento delle risorse, gli investimenti e l’integrazione tecnologica lavorano assieme per valorizzare non solo il potenziale attuale, ma anche quello futuro.I pilastri sui cui si fonda sono, convenzionalmente, tre: economico, ambientale e sociale. Se interconnessi e adeguatamente comunicanti, possono dar vita a sistemi e società virtuose e rispettose degli ambienti socio-culturali nelle quali sono inserite.
Oltre le convenzioni, però, ci siamo noi, che abitiamo e viviamo questi contesti socio-culturali con le nostre quotidianità, i nostri desideri, i nostri sogni, facendo del nostro meglio per vivere in “maniera sostenibile”.
Ognuno di noi agisce con la sua matrice e la sua motivazione personale che lo spinge a differenziare i rifiuti, a scegliere la bicicletta al posto dell’automobile, a chiudere il rubinetto mentre ci si spazzola i denti, a coltivare l’orto condominiale condiviso, a scegliere lo scambio di abiti usati piuttosto che acquistarne di nuovi. Potrei citare tanti esempi virtuosi, facilmente scovabili nel mondo del web. Ma io vorrei uscirne, oggi, e vedere cosa succederebbe se alla parola sostenibilità affiancassimo un quarto pilastro: l’emotività.
Vivo da due anni in una regione montana del nord Italia perché nel settembre 2020, in piena pandemia, quando iniziavano ad aprirsi primi spiragli di libertà rivelatesi poi essere solo momentanei, ho lasciato tutto quello che avevo costruito in ventotto anni tra le risaie della pianura padana e i navigli milanesi. Col senno di poi, ho scoperto di non essere stata l’unica, ma anzi, che come me stava facendo circa l’85% in più di lavoratori rispetto all’anno precedente la pandemia (fonte: Ministero del Lavoro, Banca d’Italia e ANPAL).
Tutto questo sarebbe diventato un vero e proprio fenomeno, chiamato “le Grandi Dimissioni”.
L’ho fatto perché una spinta dentro di me mi diceva che quella vita non era quella che volevo. Che dovevo cercare altro, o altrove, una vita che mi rendesse serena e in equilibrio. Si è trattato, in verità, di una scelta di pancia, che devo ammettere di aver fatto nel pieno delle mie possibilità di quel momento, nonché nel pieno di tutte le mie paure. Ho pensato “Se non ora, quando?” con tutta la spontaneità, la semplicità (e l’ingenuità) che chi mi conosce sa bene che spesso mi contraddistinguono.
Ho lasciato un lavoro da Art Director in un’agenzia pubblicitaria di Milano, dove avevo un contratto a tempo indeterminato e un’infelicità a tempo illimitato che mi garantivano uno stipendio fisso alla fine del mese.
Le Dimissioni come strumento di libertà: alla ricerca di una vita emotivamente sostenibile. “Avevo un contratto a tempo indeterminato e un’infelicità a tempo illimitato” – Illustrazione di Tiziana Pesenti
Non sopportavo il peso della contraddizione che in quegli ambienti regna sovrana: si organizzano teambuilding per creare affiatamento tra colleghi ma poi, di contro, non viene persa occasione per fare nascere competizione e gelosie interne. La vita privata sembra non essere importante ma, anzi, completamente ignorabile. Ciò che conta è dimostrare di lavorare sempre di più e sempre meglio.
Ho abbracciato l’incertezza e me ne rendo conto solo adesso, abbandonando quell’illusione di felicità ovattata che ti porta, di contro, la certezza.
Se lo chiedeste ai miei genitori probabilmente non sarebbero d’accordo con me. Tutt’oggi si chiedono come abbia fatto, con uno sguardo nei miei confronti sempre a cavallo tra l’affascinato, l’ammirato e il preoccupato. Ho abbandonato la certezza, per quanto mi riguarda, non solamente dal punto di vista lavorativo e professionale ma anche personale, avendo lanciato alle ortiche solo poche settimane prima il mio matrimonio, già organizzato e fissato. Insomma, nel giro di un paio di mesi la mia vita si è totalmente ribaltata.Se qualche anno fa mi avessero raccontato cosa sarei riuscita a ricostruire e come sarei riuscita a ricostruirmi non ci avrei mai creduto. Qui dove vivo ho trovato una nuova dimensione. Certamente non è quella di un lavoro fisso, ma mi dà l’opportunità di vivere a pieno le mie giornate, libera delle mie decisioni e padrona del mio lavoro da Art Director e illustratrice Freelance.
Vivo finalmente a contatto con la Natura, perché la vicinanza con la terra è molto più sentita. E anche se si sta per due settimane senza uscire per fare trekking, si vive a contatto con l’ambiente, con la montagna, con il lago, con le vigne e gli uliveti.
Qui la pioggia è semplicemente pioggia, non un peso che intensifica il traffico del lunedì mattina. La neve è semplicemente neve, non un imprevisto che sporca le strade. Le persone sono semplicemente persone, e spesso non una fonte di guadagno o un numero seriale del badge di lavoro.
“Vivo finalmente a contatto con la Natura. Cambia il paradigma, cambia la scala di valori, cambiano gli occhi con cui si guarda il mondo”. – Illustrazione di Tiziana Pesenti
Con questo non voglio rinnegare quello che è stata la mia “vita precedente” – e la chiamo così volontariamente, perché adesso mi sembra di viverne un’altra totalmente nuova. Vorrei solo scrivere di come ho dovuto, nella mia piccola esperienza, valutare quanto fosse emotivamente sostenibile una scelta piuttosto che un’altra, quando, di contro, l’altra scelta era anche solo restare ferma dove mi trovavo, nella vita che conoscevo e che avevo imparato ad apprezzare con gli anni.
Se il concetto di sostenibilità è strettamente legato al concetto di cambiamento e di sguardo al futuro è facile capire come adattarlo alle nostre vite e come fare dei ragionamenti soggettivi che possano aiutarci a “sfruttare” a pieno le nostre risorse personali per inseguire la felicità, o qualcosa che le si avvicini il più possibile.
Rispettando noi stessi, i nostri desideri, le nostre paure, i nostri passati traumatici, i nostri ricordi felici, i nostri passi falsi e i nostri difetti più profondi, senza giudicarci, possiamo arrivare a capire quanto una scelta sia da noi sostenibile nel lungo periodo. Rientra nella nostra necessità di essere umani e di tutelare noi stessi in un momento storico che sembra non vedere mai luce. È adesso, quando tutto intorno a noi sembra crollare e tornare ad essere precario, che dobbiamo prendere il coraggio di ascoltare. Seguendo quella voce interna che troppo spesso mettiamo a tacere.
A Milano si parla di lavoro prima ancora di sapere il nome dell’interlocutore. Adesso, qui in Trentino, mi rendo conto di avere intere conversazioni senza che l’argomento lavoro venga nemmeno sfiorato.
Cambia il paradigma, cambia la scala di valori, cambiano gli occhi con cui si guarda il mondo. Tutto sta nell’essere pronti ad accogliere il cambiamento. E, a lungo termine, a sostenerlo con tutti i nostri mezzi e il nostro bagaglio emotivo. Presto potremo accorgerci che avremmo dovuto rischiare prima, perché eravamo pronti da molto più tempo di quanto pensavamo.
Earth Day 2022: da oltre mezzo secolo un’occasione per attivarsi a favore del pianeta. Ma tra eco-ansie e insicurezze, non è sempre facile far risuonare la sostenibilità nelle nostre vite. Occorrono percorsi trasformativi per interiorizzare il concetto di cura e ritrovare una connessione emotiva con noi stessi, con la Natura e con gli altri.Oggi ve ne proponiamo uno, in tre passi.
Il movimento ecologista nasce molto prima che il deteriorarsi dell’ambiente e delle qualità di vita ponessero una questione di sopravvivenza. La necessità di tutelare gli equilibri naturali sembra essere un istinto che nasce ai primi sintomi di alienazione.
Alexander Von Humboldt, scienziato ottocentesco considerato tra i primi ambientalisti della storia europea
La ricerca di un nuovo patto di pace con l’ambiente si sviluppa dal vivere immersi in una società “sconnessa” e frammentata, e ciò avviene sin dalle prime avvisaglie di questa tendenza, le quali, secondo la scienza, causano un malessere simile a quello sperimentato da un animale in cattività.
La necessità nasce dunque dalla sensazione che, innovazione dopo innovazione, si stiano perdendo pezzi importanti del nostro essere umani.Eppure, dopo decenni, fatichiamo ancora ad attuare azioni concrete per invertire la rotta del disastro ambientale. E non c’è solo la logica del profitto dietro: nel nostro piccolo ci sono l’attaccamento alle abitudini, il senso di disconnessione e di fatalità, le eco-ansie. E, più di tutti, l’individualismo esasperato, che ha creato una frattura tra il nostro sentire e gli altri, il pianeta, la società. Anche quando ci mostriamo sensibili, restiamo spesso chiusi in una bolla.
Il filosofo francese Antoine Garapon, sostiene che il senso diffuso di insicurezza, precarietà e vulnerabilità emanato dal mondo – che, visto con le lenti del nostro individualismo, ci appare sempre più oscuro e terribile – ci porti a considerare di maggiore importanza problemi che minacciano la nostra vita a livello personale, in modo esplicito e diretto e sempre meno quelli che minacciano la società, le future generazioni e qualunque aspetto della “vita degli altri”, percepito come lontano ed estraneo al nostro vissuto.
Sfortunatamente per noi, i problemi ambientali rientrano in questa seconda categoria: immersi nel nostro benessere (seppur precario) fatichiamo a immaginare l’impatto che avranno nei prossimi anni, così come non riusciamo a calarci nei panni delle comunità indigene che vivono il degrado degli ecosistemi come minaccia diretta alla propria sopravvivenza. Fortunatamente, le soluzioni a questo bias esistono e partono da noi.
Cambiare noi stessi e il nostro approccio al mondo può fare davvero la differenza, ora più che mai.In tre passi:
1) Insieme per l’ambiente
L’Earth Day 2022 è l’occasione per ricordare a noi stessi che siamo parte di un tutto. Nella nostra società, come afferma Bauman in “la solitudine del cittadino globale”, gli alieni diventano vicini e i vicini diventano alieni. In un raffreddamento e in una superficialità che si riflette nelle relazioni in ogni ambito della vita. “Sono fredde le persone che hanno dimenticato da molto tempo quanto calore possa trasmettere la solidarietà; quanta consolazione, quanta serenità, quanto incoraggiamento e quanto piacere possano derivare dal condividere lo stesso destino e le proprie speranze con gli altri”.
Guardare gli altri, supportarli, condividere un “sogno di felicità” può guidarci nella costruzione di una nuova armonia tra noi e l‘ambiente, moltiplicando i nostri risultati alla ricerca di una società più equa.
Sviluppiamo l’empatia verso le persone e verso gli esseri animali e vegetali che con noi condividono la vita sul pianeta. Creiamo coinvolgimento e calore intorno alle nostre azioni.
Per combattere l’eco-ansia occorre unirsi a difesa dell’ambiente.
2) Re-innamorarsi della Terra
L’Earth Day 2022 ci invita a fare esperienza della natura.
“Nessuno protegge ciò di cui non gli importa e a nessuno importa di ciò di cui non ha esperienza”. Sir David Attenborough
Quando è stata l’ultima volta che hai camminato a piedi nudi sull’erba o hai osservato delle formiche operose intente a costruire un formicaio?
Vivere la natura solo attraverso i documentari o le immagini online ci allontana dalla sua vera essenza.
Le esperienze dei sensi – odori, sensazioni tattili, colori, suoni e schemi – vissute attraverso bagni di foresta, escursioni e gite in natura, plasmano le nostre emozioni, aiutandoci a costruire un rapporto autentico e profondo con piante e animali, imparando a percepire le similitudini e le connessioni presenti sulla terra.
L’empatia nasce dall’esperienza diretta: non possiamo amare ciò che non conosciamo e da cui sentiamo, erroneamente, di essere separati.
Richard Lindroth, docente di ecologia all’università del Wisconsin, sostiene che anche “piccole pratiche” possano letteralmente riconfigurare la nostra struttura cerebrale.
Il contatto con la natura “allena” il nostro cervello, permettendoci di sviluppare consapevolezza, intuito ed empatia
Una semplice attività di connessione con la natura, come osservare una foglia o il cielo stellato, per appena 30 secondi genera un sentimento di amore e gratitudine per la Terra capace di provocare nel cervello reazioni simili a quelle che si riscontrano guardando la persona della quale siamo innamorati.
3) Mettersi in gioco
L’Earth Day 2022 ci ricorda la nostra fragilità.
Tutti abbiamo paura di soffrire. Il nostro cervello ne ha talmente tanto terrore che spesso, invece di suggerirci di lavorare alle soluzioni, preferisce bloccare ogni nostra reazione al problema. Se, in più, il problema ci sembra complesso e le soluzioni al di fuori della nostra portata, nel cervello scattano altri meccanismi di difesa e semplificazione.
Ma le neuroscienze confermano: la neuroplasticità è nostra alleata, ad ogni età, nel modificare preconcetti e abitudini.
Per “riprogrammare” questo sistema, possiamo decidere di metterci in gioco con piccoli cambiamenti che ci rendano felici e facciano bene all’ambiente, un passo alla volta. Un’alimentazione più sana a base vegetale, ripulire una spiaggia, rinunciare al packaging in plastica, sono piccole azioni dal grande impatto.
Coltivare la speranza ed essere quindi più felici e sicuri del proprio ruolo nel mondo richiede indagine, studio e comprensione delle dinamiche di cui siamo attori (e lo siamo in ogni caso, consapevoli o inconsapevoli). Non possiamo, insomma, pensare di cambiare le regole del gioco senza conoscerle. Questo comporta processi complessi di revisione interna ed esterna, che potrebbero rimettere in discussione le nostre credenze, i nostri stili di vita, le nostre posizioni. Ma che sono anche la chiave della fiducia nel potere di cambiare le cose. Rassegnarsi invece equivale, in termini di risultati, a negare che esista un problema del quale occuparsi.
Mettiamoci in gioco: faremo la differenza nella qualità delle nostre relazioni, nella conoscenza di noi stessi e nel nostro rapporto con l’ambiente.
La ricerca di modelli etici e sostenibili per l’economia del futuro è un processo che ci riguarda da vicino.
“Non esiste attualmente un codice etico per gli economisti…ma dovrebbe esistere”. David Colander, Economista
Tutto è collegato a tutto. Mai come in questo periodo storico è evidente, anche ai non addetti ai lavori, che le attività economiche si inseriscono nei contesti più ampi dei modelli di governo e della società, della cultura e dell’ecologia, plasmandone indirizzi e visioni, almeno quanto ne sono a loro volta plasmate. A loro spetta oggi il compito di riscoprire il ruolo tradizionale a servizio del soddisfacimento dei bisogni fondamentali e della realizzazione dei valori, per la costruzione di nuovi modelli etici per l’economia del futuro.
Di fronte a problemi globali scottanti è quanto mai necessaria una visione interdisciplinare e olistica di tutte le parti dell’insieme
afferma Christian Felber, storico e fondatore di “Economy for the Common Good” (il termine “economia del bene comune”, che indica un modello economico etico fondato sulla collaborazione, è di sua invenzione).
Christian Felber, teorico dell’economia del benessere
Occorre innanzitutto ritornare alla radice del termine economia, ovvero oikonomia, “governo della casa”. Le risorse economiche come mezzo per il benessere: un modello in cui il profitto è solo una parte di un quadro complessivo più ampio.
Nuovi modelli etici per l’economia del futuro – Manifestazioni del movimento Friday for Future. I movimenti per il clima chiedono a gran voce la transizione verso modelli economici etici, che pongano il benessere del pianeta in primo piano rispetto al profitto.
Il denaro non più fine a se stesso, bensì ponte, materiale da costruzione. Economia trasformativa, molto più che semplicemente “sostenibile”.
Che la qualità della vita non derivi soltanto dal soddisfacimento dei bisogni materiali o mediati dal mercato è abbastanza evidente. Anzi, il soddisfacimento di questi bisogni può entrare facilmente in conflitto con bisogni immateriali ben più importanti: un ambiente sano e una società giusta.
Ed ecco che il mercato si ripiega su se stesso, in una sorta di masochismo di cui ormai abbiamo persino piena consapevolezza (e per il quale sembriamo, dunque, avere sempre meno scuse). Un “diniego feticista”, secondo la definizione di Mannoni, una sorta di “je sais bien mais quand-même” (sì, lo so bene, ma in ogni caso…). Sappiamo ciò che stiamo facendo – a noi stessi e all’ambiente – ma lo facciamo comunque.
C’è chi sostiene che non si possa fare nulla per cambiare le cose e c’è chi ritiene che sia troppo tardi. Ma il potere trasformativo della cultura è immenso e parte da noi. I nuovi modelli etici necessari all’economia del futuro non possono attuarsi senza un cambio di paradigma.
Calcolo costante, mistificazione del profitto personale, materialismo e competitività sfrenata fanno parte delle nostre vite e sono diventati elementi fondanti delle nostre culture. Ridefiniscono il nostro successo. Ciascuno di noi, in diversi contesti, si trova schiacciato dal peso di queste dinamiche.
Secondo Felber, questi falsi valori si comportano come veri e propri veleni sociali, intaccando lentamente la dignità umana, la solidarietà, la giustizia e la libertà derivante dalla responsabilità.
Fare della massimizzazione del profitto la bilancia del nostro successo è un vero e proprio veleno sociale.
La divulgazione di questa concezione dell’uomo ha conseguenze a lungo termine: si diffondono comportamenti privi di scrupoli e antisociali, le comunità e le relazioni diventano non vincolanti e fragili; persone egoiste e prive di empatia raggiungono più facilmente ruoli di potere e ne abusano.Ma non deve andare per forza cosi.
Il nostro esempio, anche nei più piccoli contesti e gli insegnamenti che prestiamo agli altri hanno un ruolo chiave.
Il filosofo Richard David Precht, tra gli altri, sostiene che “La spietatezza e l’avidità” non siano affatto “le principali forze motrici dell’essere umano”, bensì un risultato culturalmente appreso. E persino John Maynard Keynes sosteneva che il problema economico sarebbe stato prima o poi “relegato nelle retrovie, nel luogo che gli è consono”. Cuore e testa degli uomini avrebbero ripreso allora a dedicarsi “ai veri problemi: le domande sulla vita e le relazioni umane”.
John Maynard Keynes è stato il più influente economista del XX secolo
L’economia mainstream è solo un frammento di ciò che il nostro sistema è e può essere. Possiamo aggiungere altri pezzi per formare un insieme significativo. La società democratica permette e garantisce allo stesso modo libertà di impresa e libertà economica, ma in cambio deve tornare ad esigere responsabilità etica e visioni umane.
La creazione di nuovi modelli etici per l’economia del futuro parte da qui.
di Anna Stella Dolcetti (CEO di Kressida, si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School e l’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali ed è esperta in Culture e Filosofie Orientali).
La guerra in Ucraina ha risvegliato terrori dimenticati. Tra i tanti che affollano la nostra mente anche lo spettro di un conflitto nucleare. Una paura che ci riporta all’essenziale e all’umano, rimettendo in discussione ogni idea preconcetta. Una spinta a riflettere su un terribile “avvenire possibile”: uno scenario in cui la natura, senza di noi, continui a vivere.
Una prospettiva che è già realtà in luoghi più o meno dimenticati del nostro pianeta.
In ogni parte del mondo esistono paesaggi in cui le architetture in rovina mostrano ancora l’eco di una presenza umana, ma come fosse la citazione di un passato destinato a non ripetersi.
Testimonianze di civiltà perdute, a cui fa da contrasto una natura lussureggiante, un ambiente ricco di movimento e colore, che si riappropria dei suoi spazi.
Sito archeologico di Palenque, in Messico. Un tempo cuore splendente della civiltà Maya.
È un’immagine che ci genera nostalgia, ci rende fragili e ci provoca, al tempo stesso, un annichilente senso di disorientamento. Ma che è anche opportunità di porsi dinanzi a dilemmi importanti: quale ruolo vogliamo giocare, come esseri umani, nel rapporto con l’ambiente? Quali relazioni di pace e di supporto tra i popoli dobbiamo intessere perché si eviti la catastrofe?
Lo sappiamo: la nostra sopravvivenza dipende strettamente dalla disponibilità di servizi ecosistemici essenziali. A contare è anche loro qualità: acqua, aria, suolo (e quindi cibo) “puliti” ma anche materie prime fondamentali per le nostre economie, per la produzione di beni e di energia.
L’acqua è tra i servizi ecosistemici più preziosi
I servizi ecosistemici sono risorse che dobbiamo governare con saggezza e umanità, tenendo conto dell’impatto che le manovre economiche attorno ad essi esercitano sulle persone e sulle comunità.
Si tratta di ricchezze indispensabili che, come stiamo vedendo in questi giorni, si “muovono” con il mutare degli equilibri mondiali. Mentre nei Paesi a più alta dipendenza dal gas russo si parla di riaprire le centrali a carbone in caso di crisi energetica, alcuni governi europei, tra cui quello tedesco, hanno dichiarato una virata senza precedenti verso le rinnovabili. Nel caso della Germania, queste costituiranno il 100% delle fonti di approvvigionamento energetico entro il 2035. Con risvolti anche ideologici. Christian Lindner, Ministro delle Finanze della Germania, ha dichiarato che le energie rinnovabili sono, di fatto, “energie di libertà”.
Non possiamo fare a meno di richiedere a gran voce scelte sensate e politiche oculate su questi beni essenziali. Basti pensare che i servizi ecosistemici valgono il doppio del PIL globale, ovvero due volte la somma dell’intera ricchezza prodotta sul pianeta. Una frattura netta tra noi e l’ambiente e spirali di (auto)distruzione possono condannarci rapidamente a un’illusione, anch’essa di breve durata: credere di poter vivere due destini paralleli (quello dell’umanità e quello della natura), ove invece essi sono indissolubilmente legati. Legati ma, attenzione, disgiunti nei possibili esiti: se è vero che noi non possiamo sopravvivere senza la natura, la natura sembra poter sopravvivere benissimo senza di noi.
Le rovine di civiltà passate avvolte dalla vegetazione non sono una rarità, alcune sono persino divenute spettacolari mete di turismo (pensiamo al celebre sito archeologico di Angkor, in Cambogia, dove la giungla “abbraccia” le antiche costruzioni Khmer) ma hanno il sapore delle cose passate. Come dire, ci fanno pensare: “a noi non succederà”.
Lo spettacolare sito archeologico di Angkor, in Cambogia.
Ma esistono già eccellenti eccezioni contemporanee. Guardiamo ad esempio alla prefettura di Fukushima: le immagini pubblicate da National Geographic la scorsa primavera ci narrano della potenza della natura nel trasformare scenari che avevamo imparato a conoscere come luoghi di morte, destinati a un destino di infinita desolazione. Nella prefettura giapponese investita dal terribile tsunami del 2011 e dal disastro nucleare che ne è seguito, la fauna selvatica è invece sempre più numerosa. Nonostante crisi e mutazioni dovute all’alto livello di radiazioni (celebri furono le alterazioni morfologiche nella popolazione di Zizeeria maha, la “farfalla senza ali”, a cui fu dedicato uno studio pubblicato su Nature nel 2012), la natura ha mostrato la sua resilienza ed è tornata a fiorire. La biodiversità è in costante aumento e distese infinite di verde coprono i villaggi una volta brulicanti di uomini, donne e bambini (nell’area di Fukushima, grande quanto la città di New York, prima del disastro vivevano circa 160.000 persone).
Tra piccoli asili nido, i cui giochi dai colori sbiaditi punteggiano il verde e il giallo di erba e spighe, i claustrofobici uffici dalle pareti piegate e dalle finestre rotte e gli inquietanti impianti dismessi della centrale, sfilano e zampettano indisturbati un gran numero di piccoli e grandi animali.
Volpi rosse, lepri, procioni, macachi, cinghiali, cervi, scoiattoli giapponesi, gatti selvatici e civette, solo per citarne alcuni.
James Beasley, ricercatore della University of Georgia, ha utilizzato una rete di oltre 100 telecamere per monitorare la fauna selvatica della zona nell’arco di 4 mesi, compiendo inoltre ricerche sulle abitudini degli animali. Senza riscontrare, peraltro, gravi variazioni nei parametri comportamentali (i risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Frontiers in Ecology and the Environment).
Uno scenario simile a quello di un’altra area duramente colpita dalle radiazioni: quella di Chernobyl. Nelle foreste ucraine la fauna si è adattata e prolifica dove persino l’uomo, a 35 anni dal disastro, non è riuscito a ricostruire. Le Nazioni Unite l’hanno definita “un inaspettato paradiso per la biodiversità” e Tim Christophersen, coordinatore UNEP, solo pochi mesi fa aggiungeva che si tratta di “un esempio affascinante di come la natura sia in grado di risorgere dal degrado”.
La natura, dunque, è incredibilmente resiliente.
E il processo è affascinante nei suoi effetti, quanto rapido. Ce lo dimostra la vicenda dei delfini tornati a nuotare nel Golfo di Trieste, nella primavera del 2020, mentre l’intera Italia era chiusa in casa per il lockdown. Abbiamo toccato con mano quanto velocemente le specie animali possano riappropriarsi degli spazi “lasciati liberi” dalla mano dell’uomo, tanto che gli scienziati hanno persino coniato un termine per lo stand by da pandemia che ha generato effetti positivi sull’ambiente: “antropausa”. Una pausa che la natura si è presa dall’essere umano.
Siamo costantemente posti di fronte alla possibilità di un futuro, più o meno lontano, nel quale le nostre opere potrebbero comparire sullo sfondo.Cambiare le regole del gioco, per imprimere una svolta diversa, è una questione che scuote le fondamenta del nostro rapporto con l’ambiente e con l’Altro.
All’umanità serve un nuovo patto di pace – con l’ambiente e con l’Altro. Un ritorno all’essenziale e all’umano.
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