Biofilia: il legame innato tra esseri umani e natura

Biofilia: da bio “vita” e philia “amore per”. Una parola che non esisteva prima del 1946, quando Erich Fromm la conia per definire la generale attitudine dell’uomo verso la vita. Ma è negli anni ’80 del 1900 che il biologo E.O.Wilson la usa per la prima volta per descrivere un fenomeno antico quanto il mondo e radicato nel nostro essere “animali umani”: la curiosità e l’amore verso il mondo naturale in generale, le piante e gli altri animali.

Il concetto di “biofilia”, così come teorizzato da Wilson, rivela un aspetto fondamentale dell’esistenza umana: una profonda affinità intrinseca, biologicamente radicata, con il vasto regno naturale che ci circonda. Questo legame, tutt’altro che superficiale, costituisce una risposta evolutiva incisa nei nostri stessi filamenti del DNA e sviluppatosi attraverso millenni di adattamento alla vita terrestre. Un parametro scientificamente misurabile.

“L’uomo, per costituzione, ama la vita e la protegge” – E.O.Wilson

Edward O. Wilson (1929-2021) è considerato uno dei più grandi biologi del XX secolo.

Biofilia: che cosa accade quando viene messa a tacere?

Abbiamo visto come la biofilia si riferisca all’innata affinità e connessione emotiva degli esseri umani con il mondo naturale e con altri esseri viventi. Questo concetto suggerisce che gli esseri umani abbiano un’attrazione e una curiosità innata verso gli ecosistemi e le altre forme di vita sulla Terra. Ma cosa accade quando non è così? Come spiegare fenomeni come la distruzione degli ambienti naturali, l’inquinamento, la violenza sugli animali? La biofilia è una tendenza naturale che può “spegnersi” quando l’essere umano conduce una vita artificiale o si trova in condizioni di stress profondo o totale incapacità di far fronte alle proprie esigenze fondamentali di sopravvivenza. Con conseguenze devastanti. Non dovrebbe stupire, considerato il fatto che la natura costituisce il nostro habitat naturale e l’istinto a proteggerla ci guida verso la protezione delle nostre stesse esistenze. Eppure, il concetto di biofilia è rivoluzionario, poiché ci porta soprattutto a interrogarci sulle conseguenze che l’allontanamento da questa tendenza naturale comporta per le società e il pianeta (dalle guerre per le risorse, sino all’inquinamento).

L’indagine approfondita sulla connessione biologica tra gli esseri umani e il mondo naturale ha svelato nuovi livelli di consapevolezza sul nostro legame emotivo con piante, animali e persino con il mondo minerale. Con il tempo, i campi di applicazione della teoria si sono ampliati.

Architetture verdi

L’integrazione della biofilia nella progettazione ambientale si presenta come un passo cruciale per creare ambienti che favoriscano il benessere umano. Architetti e progettisti, consapevoli di questa innata affinità, possono arricchire gli spazi abitativi incorporando elementi naturali come la luce solare, l’acqua e una varietà di piante. Questa integrazione non solo crea ambienti visivamente accattivanti ma anche luoghi nei quali le persone possono avvertire una connessione profonda con il loro ambiente, riducendo così lo stress e migliorando la produttività.

La riscoperta dell’ambientalismo innato

In aggiunta, la biofilia assume un ruolo cruciale nella promozione della conservazione ambientale. Individui che ascoltano il proprio desiderio di connessione con la natura e sviluppano una relazione profonda con essa (specie se questo legame viene coltivato sin da bambini) si sentono chiamati a proteggerla attivamente, a svolgere un ruolo di veri e propri “guardiani”. L’educazione basata sulla biofilia, che asseconda il rispetto intrinseco per l’ambiente naturale fin dalla tenera età, costituisce una leva potente per la conservazione e la sostenibilità a lungo termine.

Salute naturale

Un’analisi critica della letteratura scientifica rivela non solo l’influenza positiva della biofilia nella nostra quotidianità, ma anche il suo ruolo cruciale come strumento terapeutico. Terapie basate sulla natura, quali l’ortoterapia, lo shinrin yoku, la pet therapy e l’ecoterapia, stanno guadagnando riconoscimenti sempre maggiori, anche grazie agli studi sul ruolo del microbioma e delle essenze vegetali sul nostro benessere. Ricerche scientifiche hanno inoltre ampiamente documentato che l’esposizione alla natura può ridurre il livello di stress, abbassare la pressione sanguigna e migliorare il tono dell’umore. Un fenomeno noto come “effetto curativo della natura” e che attesta che la biofilia non è una mera astrazione teorica, ma piuttosto un principio concreto e scientificamente misurabile.

Anche se spesso definita come “l’innato legame emotivo con la natura”, la biofilia infatti va oltre il mero apprezzamento estetico, sentimentale o pratico; essa si traduce in benefici palpabili. In poche parole, essa diviene uno strumento per comprendere a fondo – e di conseguenza avere cura – della salute degli individui e delle comunità.

Per approfondire: ECO Manuale di Ecologia Totale

La Grande Muraglia Verde

La “Great Green Wall” (Grande Muraglia Verde) è un ambizioso progetto di conservazione e ripristino ambientale nel continente africano, che mira a creare una barriera naturale di alberi e vegetazione per contrastare il degrado del suolo e il cambiamento climatico, promuovendo modelli di sviluppo sostenibile. Il progetto, partito 16 anni fa, è al 20% del suo completamento. Tanti passi avanti sono stati compiuti, molto lavoro resta ancora da fare. Ma perché l’impegno verso la realizzazione della GGW è così importante?

La Grande Muraglia Verde

La Grande Muraglia Verde (GGW) è un progetto che nasce come contrasto all’espansione del deserto del Sahara. Nel tempo, gli obiettivi si sono estesi fino a comprendere il ripristino dei terreni degradati e inquinati, il miglioramento della fertilità del suolo, la protezione della diversità biologica e la lotta contro il cambiamento climatico. La GGW coinvolge oltre settemila chilometri di territori, attraversando l’Africa da est a ovest e coinvolgendo una serie di nazioni africane, tra cui Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti e Sudan. Un progetto, dunque, che si rivela importante non solo per l’impatto sociale e ambientale ma anche per il potenziale di coordinamento, scambio e cooperazione in un’area spesso tormentata da conflitti.

L’iniziativa comprende una gamma di attività ad ampio spettro, che spaziano dalla piantumazione di alberi autoctoni alla promozione di metodologie agricole sostenibili, dalla conservazione delle risorse idriche alla sensibilizzazione delle comunità autoctone sull’importanza della tutela ambientale. Oltre a ostacolare l’espansione dei deserti, il progetto aspira a potenziare la resilienza nella sicurezza alimentare, a instaurare nuove opportunità occupazionali, a facilitare l’adattamento ai mutamenti climatici e a promuovere il progresso economico nelle aree interessate.

Le maggiori sfide alla realizzazione

La realizzazione della Great Green Wall affronta numerose sfide: la scarsità di risorse finanziarie, la pressione demografica, il cambiamento climatico e la gestione delle risorse naturali.

In particolare, essa necessita di importanti finanziamenti a lungo termine, non solo per l’implementazione ma anche e soprattutto per la conservazione di pratiche sostenibili. La gestione delle risorse locali – acqua, suolo e altri servizi ecosistemici – si scontra spesso con gli interessi delle big corporations e può incontrare la resistenza di governi, funzionari corrotti, gruppi di potere. Anche per questo il coinvolgimento attivo delle comunità locali resta un elemento cruciale. investire in programmi di educazione e sensibilizzazione è imprescindibile. Occorre, infine, un enorme sforzo di coordinazione e dialogo tra paesi, basato su rispetto reciproco e forti basi etiche. Sebbene le relazioni internazionali siano fondamentali per il successo di un programma come la GGW, non sono infatti da escludere ingerenze e pressioni da parte di entità straniere, le quali possono promuovere o finanziare programmi di sviluppo in cambio di concessioni commerciali e sfruttamento.

Tuttavia, il supporto formale all’iniziativa da parte di governi e istituzioni rimane solido e sono stati compiuti progressi significativi nella realizzazione del piano. Milioni di alberi sono stati messi a dimora e le comunità locali stanno beneficiando dei vantaggi ambientali, sociali ed economici derivanti dal progetto. La grande muraglia verde protegge e accresce la biodiversità, con effetti diretti sul benessere dei territori e delle persone.

Piantare alberi e speranza

In un solo decennio, la regione di Koulikoro in Mali ha perso quasi il 90% delle sue foreste. Il progetto della GGW mira a ripristinare questi ecosistemi perduti, piantando nuovi alberi, proteggendo i superstiti e identificando le specie più resistenti e resilienti. In Etiopia, negli ultimi cinquant’anni, un letale mix di cambiamenti climatici, sfruttamento indiscriminato e inquinamento dei suoli, deforestazione e desertificazione ha provocato un netto peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Nell’ambito del progetto GGW, l’Etiopia sta puntando tutto su piante forti e a crescita rapida, come l’eucalipto e l’incenso, le quali stanno già migliorando le condizioni dei suoli e la disponibilità di acqua, con conseguenti ripercussioni positive sulle comunità locali (oltre duecentomila persone hanno trovato impiego grazie al ripristino di questi terreni). In Senegal, la necessità di far fronte all’isolamento dovuto alla pandemia di Covid-19 ha portato alla nascita di giardini circolari, i quali garantiscono ai villaggi risorse idriche e alimentari per far fronte ai loro bisogni. Infine, 16 milioni di alberi sono stati piantati in Burkina Faso, come parte del programma GGW.

Questi sono solo pochi esempi dell’impatto che il progetto GGW sta avendo sulle persone e sui territori.

Il ruolo della biodiversità nell’Africa Continentale

L’Africa, culla della civiltà umana, si distingue anche per la sua straordinaria ricchezza di biodiversità. Un mosaico di ecosistemi, habitat e specie uniche coesiste all’interno dei suoi confini geografici, svolgendo un ruolo di profonda importanza per l’equilibrio ecologico, l’evoluzione delle economie regionali e il benessere delle comunità autoctone.

Risorse primarie

La biodiversità costituisce la linfa vitale dell’approvvigionamento alimentare: l’ampia varietà di piante coltivate e spontanee, animali allevati e specie selvatiche rappresenta una risorsa essenziale per la sicurezza alimentare continentale.

Il continente africano si vanta di un’eredità medica millenaria basata sull’impiego di piante e organismi autoctoni. Questi rimedi naturali, tramandati di generazione in generazione, continuano a essere una risorsa di incommensurabile valore per il trattamento di una vasta gamma di affezioni. La biodiversità dell’Africa, dunque, riveste una primaria importanza nella ricerca farmaceutica, potenzialmente contribuendo in modo tangibile all’avanzamento della sanità globale.

Gestione delle riserve idriche e Controllo del Clima

Le regioni naturali dell’Africa, tra cui foreste pluviali e aree umide (bacino del fiume Congo e Africa occidentale), custodiscono importanti risorse idriche, ancor più fondamentali in ambienti dove l’acqua tende a scarseggiare. Questi ecosistemi assorbono inoltre considerevoli quantità di anidride carbonica, contribuendo significativamente alla mitigazione dei cambiamenti climatici globali. La disponibilità di risorse idriche è cruciale per garantire lo sviluppo e il mantenimento di pratiche di agricoltura sostenibile e indipendenza alimentare.

Sostegno all’Economia

Il turismo naturalistico, incentrato sulla fauna selvatica e sui paesaggi naturali, attira turisti da tutto il mondo, generando un indotto significativo per le economie locali. La biodiversità è anche fonte diretta di benessere economico, garantendo cibo e risorse come legname e carta (ma occorre vigilare sulla sostenibilità dei programmi di sfruttamento di queste aree, affidando alle comunità indigene la gestione delle terre).

In che modo la great green wall contribuisce al ripristino e alla conservazione della biodiversità?

Creazione di Habitat e Corridoi Ecologici: Attraverso la piantumazione di specie autoctone e il ripristino di ecosistemi, la GGW agevola la creazione di nuovi habitat e la connessione tra quelli esistenti. Ciò agevola la dispersione delle specie, garantendo loro la possibilità di migrazione, riproduzione e sopravvivenza. L’istituzione di corridoi ecologici è cruciale per il mantenimento della biodiversità, consentendo alle specie di adattarsi alle dinamiche ambientali e di evitare possibili minacce.

Lotta alla desertificazione: Uno degli obiettivi fondamentali della GGW è l’arresto dell’espansione del deserto del Sahara. La desertificazione rappresenta una delle principali minacce per la biodiversità in Africa, poiché conduce alla perdita di terreni fertili e di habitat cruciali per molte specie.

Conservazione di acqua e suolo: La biodiversità è strettamente correlata alla conservazione delle risorse idriche e al ripristino di suoli fertili. La GGW contribuisce alla preservazione dei corsi d’acqua, delle zone umide e dei bacini idrici, fornendo habitat essenziali per una ricca varietà di piante e animali, tra cui uccelli, pesci e anfibi e insetti.

Lotta agli effetti dei cambiamenti climatici: La GGW contribuisce a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, riducendo la possibilità di eventi estremi. In una parola: promuove la resilienza dei territori.

Supporto allo sviluppo sostenibile: La GGW riduce il ricorsi a un uso non sostenibile delle risorse naturali. Dove c’è biodiversità, infatti, aumentano le risorse alimentari, il benessere e le opportunità di cooperazione e sviluppo.

Empowerment delle comunità Locali: Quando le comunità sono poste nelle condizioni di valutare e comprendere il valore della biodiversità e i vantaggi connessi a un ambiente sano, sono maggiormente propense a impegnarsi nella sua salvaguardia. Le popolazioni indigene ritrovano il loro naturale ruolo di custodi dell’ambiente.

 

Raccontare la vita animale. Tra realtà e finzione

Raccontare la vita animale. Tra realtà e finzione

Capita di trovarsi, una sera, a guardare la storia di due cuccioli di lupo.

E di farsi domande inaspettate.

di Simona Rusconi

Sono  nel fresco di un cinema all’aperto, per la proiezione del documentario Il Contatto[1]. La storia è quella di Achille e Ulisse: due cuccioli di lupo rinvenuti nel 2016 ancora piccolissimi (dieci e venti giorni) e accolti dal Centro Monte Adone con l’obiettivo di ridare loro la libertà in natura. Un percorso sperimentale complesso (normalmente gli animali selvatici recuperati dai centri sono condannati alla cattività) che ha posto una profonda riflessione sul contatto che l’uomo può e deve avere con gli altri esseri viventi.

In questo film non c’è nessuna voce suadente ad accompagnare lo spettatore, nessuna trama avvincente da cui essere catturati e nemmeno una colonna sonora su cui poggiare lo sguardo. Solo due piccoli lupi, il presente costante in cui vivono e i loro movimenti (buffi, istintivi e a tratti noiosi) che si trasformano in linguaggio cinematografico.

Senza commento, le scene vanno interpretate, intuite, a volte anche immaginate per capire quello che vogliono dire. E non tutti stanno al gioco. A metà proiezione, infatti, qualcuno inizia a sgattaiolare via, stanco di quello che sta vedendo. Al momento non ci ho fatto caso ma, con il passare dei giorni, ho cominciato a chiedermi: “Quando guardiamo gli animali sui nostri schermi, li vediamo davvero?”.

Secondo la BBC Natural History Unit (NHU), leader nei documentari naturalistici di alto livello, produzioni come Planet Earth e Blue Planet sono state viste da più di un miliardo di spettatori in tre anni[2]. Una persona su otto nel mondo, quindi, ha deciso di passare il proprio tempo libero guardando animali selvatici nascere, cacciare, accoppiarsi, migrare e anche, in alcuni casi, morire. Ma se questi documentari piacciono così tanto mentre la gente si alza di fronte ai due cuccioli di lupo, un motivo c’è. Anzi, più di uno.

Le serie della BBC (e di altre aziende concorrenti come la Silverback Films di Perfect Planet) hanno budget molto alti. Questo significa poter accumulare molte ore di materiale ma, soprattutto, poter usare attrezzature di altissima qualità, così da affiancare alle storie degli animali paesaggi mozzafiato e immagini ottenute con una risoluzione impossibile per i nostri occhi, in cui tutto diventa più nitido e lucente[3].

La stessa artificiosità caratterizza anche i suoni. Le riprese sono spesso fatte a grande distanza e, se i documentari riportassero ciò che i microfoni hanno davvero registrato, sentiremmo le pale degli elicotteri o le indicazioni della troupe per coordinarsi.

Quando vediamo un orso polare camminare sulla neve o un airone alzarsi in volo, quindi, sentiamo rumori riprodotti in studio, sbriciolando cristalli di sale o aprendo e chiudendo un ombrello. Probabilmente, la maggior parte degli spettatori trova abbastanza normale la cosa, oppure non ci ha nemmeno mai pensato. Ma c’è chi si sente ingannato da questi espedienti[4].

In fondo, l’etimologia della parola “documentario” (dal latino dócere: insegnare, dimostrare) riporta all’idea di registrare ciò che accade realmente, a scopo di studio o di testimonianza. Con le grandi produzioni internazionali, però, il ruolo educativo del documentario si mischia a quello dell’intrattenimento, creando combinazioni molto complesse.

L’idea che lo spettatore debba investire emotivamente in quello che guarda influenza le decisioni cinematografiche a tutti i livelli, dalla presentazione delle idee, alle scelte dei finanziatori fino al montaggio finale. Poche persone vogliono stare a guardare animali che fanno cose da animali, quindi si costruiscono narrazioni umane addosso a esseri inconsapevoli, al fine di creare una storia fluida e significativa con cui lo spettatore possa empatizzare. È il “trattamento antropomorfico completo”[5] di cui parla la giornalista Laura Bradley, con gli animali che ricevono aspirazioni umane e vivono avventure personali narrate da qualcuno di famoso; il tutto avvolto da una colonna sonora intensa che suggerisce il tono emotivo da avere.

Ecco quindi l’utilizzo di alcuni stratagemmi: cibo per attrarre gli animali, montaggio di riprese fatte in momenti diversi e/o ad animali diversi per creare una scena narrativa, utilizzo di animali addestrati o in cattività, immagini create al computer, fino ai trucchi per garantire il successo di una scena di caccia[6]. Jeffery Boswall [7], naturalista e produttore per la NHU, affermava che tutto ciò porta a fraintendere la vera natura degli animali.

Jeffrey Boswall, scomparso nel 2012, è stato tra i più importanti e longevi produttori della BBC Natural History Unit.

Perché alla fine si tratta di questo, dell’idea di natura creata nelle menti di milioni di persone. Un mondo incontaminato, affascinante e inaccessibile, dove gli animali conducono esistenze fiabesche che risuonano dentro di noi. Un mondo che ha un grande assente: l’Uomo. Onnipresente nella struttura narrativa, infatti l’essere umano sparisce dalle immagini e, con lui, spariscono anche gli effetti della sua azione: non c’è traccia di inquinamento, di cambiamento climatico, di deforestazione e iper-urbanizzazione. Tutto questo rischia di creare un ulteriore distacco dell’uomo dalla natura, rafforzando l’opposizione natura-civiltà e portando gli spettatori a preferire la comodità di uno schermo a quella di un contatto reale con la naturale imperfezione degli animali.

Un frame tratto dal trailer del film “Il contatto”.

Ogni volta che guardiamo un animale, quindi, tutto dovrebbe ruotare attorno al “contatto”: un termine che parla di vicinanza e di relazione, ma anche di rispetto per l’altro e di rinuncia. Senza invadere spazi, senza creare storie dove non ci sono, senza ricercare il nostro mero divertimento. Fare un passo indietro rispetto al costante protagonismo che ci contraddistingue. Per potersi toccare veramente.

Non tanto con i corpi, ma con l’idea di guardarsi per quello che si è.

 

[1] Il Contatto è un documentario del regista Andrea Dalpian, realizzato dal Centro Tutela e Ricerca Fauna Esotica e Selvatica – Monte Adone, in collaborazione con la casa di produzione indipendente PopCultDocs.

 

[2] Le statistiche di visualizzazione registrate dal BBC Global Audience Measure (GAM) hanno mostrato che l’episodio di apertura di Planet Earth II è stato il programma di storia naturale più visto nel Regno Unito negli ultimi 15 anni, attirando 9,2 milioni di spettatori su BBC1.
Secondo Parrot Analytics (leader nel monitoraggio dell’audience di tutte le piattaforme streaming disponibili al mondo), negli ultimi 30 giorni Planet Earth ha avuto una domanda di pubblico superiore al 99,7% rispetto a tutti i titoli di documentari negli Stati Uniti.

 

[3] Alenda Y. Chang, Professore Associato in Cinema e Studi sui Media presso la UC Santa Barbara, trova disumana la profondità di campo che caratterizza molte delle inquadrature di questi documentari, perché nessun occhio umano (biologico e imperfetto) potrebbe mai mettere a fuoco contemporaneamente il soggetto in primo piano e lo sfondo in lontananza.

 

[4] Chris Palmer, autore e produttore di film sull’ambiente e la fauna selvatica, riporta in un suo articolo un aneddoto in cui sua moglie, venuta a sapere che i suoni del suo documentaro erano stati registrati da un fonico in studio, si era mostrata scioccata, offesa e indignata perché, trovandosi di fronte a un documentario, “si aspettava autenticità e verità”.
Cfr: Chris Palmer, Into the Wild, Ethically: Nature filmmakers need a code of conduct, sito International Documentary Association, 17/06/2011 (www.documentary.org/feature/wild-ethically-nature-filmmakers-need-code-conduct)

 

[5] Laura Bradley, Why Wildlife Documentaries insist on making animal seems human, Slate, 23/04/2015 (https://slate.com/culture/2015/04/monkey-kingdom-and-how-nature-and-wildlife-documentaries-use-anthropomorphism-to-create-empathy-and-shape-stories.html)

 

[6] Nel 1996, il Denver Post ha riferito che il conduttore di Wild America, Marty Stouffer, ha messo in scena alcune delle scene più drammatiche della serie a costo della vita di alcuni animali. In particolare, Stouffer avrebbe riunito in un recinto un cervo e un branco di lupi, togliendo alla preda qualsiasi possibilità di sopravvivere. Dopo un’indagine interna, la PBS ha abbandonato la serie. Ma non si tratta certo di un caso isolato: secondo lo studio condotto dal CMSI (Center for Media & Social Impact) nel 2009, un produttore ha ammesso di aver rotto la zampa di un coniglio in modo da ottenere una ripresa migliore di un predatore in azione.

 

[7] Jeffrey Boswall è stato uno dei produttori più longevi della BBC Natural History Unit (1957-1987). Scrittore e presentatore/narratore di molti dei programmi che ha prodotto, è stato un grande sostenitore dello sviluppo dell’etica nelle trasmissioni di storia naturale e ha incoraggiato l’ingresso di nuovi operatori in questo campo.

 

 

Articolo realizzato nell’ambito del corso Scrivere di Natura (II Edizione).

Scrivere di Natura: sono aperte le iscrizioni per l’edizione autunnale 2023

Scrivere di Natura: terza edizione autunno 2023. Edizione speciale oasi

Scrivere di Natura è il primo e unico corso in Italia interamente dedicato al Nature writing e al pensiero ecologico profondo. Un corso Kressida in sette moduli per imparare a narrare la bellezza autentica e selvaggia degli ambienti naturali e la relazione che lega esseri umani e natura. Giunto alla sua terza edizione, è un viaggio appassionante alla scoperta di luoghi e linguaggi dell’ecologia, sulle orme di autori indimenticabili come Henry David Thoreau, Rachel Carson, Gary Snyder, Arne Naess e John Muir.

Una terza edizione speciale, in partnership con Oasi Dynamo, che alle lezioni in aula virtuale affianca l’esperienza in natura. 

In partenza a ottobre 2023

Tutte le informazioni sul corso (programma, calendario e quota di partecipazione e borsa di studio) sono disponibili al seguente link: Scrivere di Natura

 

Mary Henrietta Kingsley – L’incontro con il selvatico

Mary Henrietta Kingsley

L’incontro con il selvatico

La tematica della relazione tra essere umano e specie selvatiche è oggi quantomai attuale. Dove si trovano i confini del nostro spazio, ora che siamo in otto miliardi su questa terra? Dove finisce la città e dove inizia il bosco? E possiamo poi davvero considerare il bosco come spazio sacro della selvaticità, quando molti fatti di cronaca recente dimostrano che neppure in quei luoghi è consentito all’animale di comportarsi come tale, di agire o reagire fuori dagli schemi che la nostra fantasia, compromessa dai modelli disneiani, ha a esso riservato?

Mary Henrietta Kingsley.

Mary Henrietta Kingsley è stata un’esploratrice britannica, figlia dell’antropologo George Henry Kingsley. Vissuta nella tranquillità della campagna inglese fino alla mezza età, alla morte del padre abbandonò il confort della casa (ma anche il soffocante clima vittoriano) per spingersi fino all’Africa più inesplorata. Siamo alla fine del 1800. Dal padre ereditò la passione per gli studi etnologici, campo nel quale diede un contributo rilevante. Ma l’interesse della Kingsley si spinse più in là, verso le scienze naturali e lo studio della biodiversità.

I suoi diari sono popolati di incontri con i “favolosi cinque” d’Africa e non mancano tête-a-tête con coccodrilli, grandi felini, ippopotami.

La Kingsley scrive in un’epoca – quella delle grandi esplorazioni – che presenta caratteristiche ben definite. Oltre all’esaltazione, al puro desiderio di scoperta e alla volontà di documentarla, erano saldi nell’esploratore un certo senso di superiorità dell’uomo (ovviamente bianco), nonché una visione opportunistica della ricerca, spesso finalizzata all’accaparramento di nuove risorse o all’apertura di nuove rotte commerciali. Gli animali erano visti, il più delle volte, come trofei da conquistare dopo una lunga caccia o come mere curiosità scientifiche da gabinetto delle meraviglie. Si era ancora molto lontani da una concezione ecologica che ne legasse l’esistenza ai territori o che ne riconoscesse il valore all’interno di reti complesse. Mary Henrietta Kingsley è inserita nel contesto imperialista dell’epoca, dove la caccia è parte integrante dell’esperienza naturalistica e l’esplorazione è funzionale a ricavarne un vantaggio economico o strategico.

Nonostante questo, ella riesce a trattare l’incontro con la vita animale (così come, del resto, molte altre materie) con un rispetto spesso carente persino al giorno d’oggi. Innanzitutto, riconosce di essere “fuori contesto” e decide di agire di conseguenza.

Questa consapevolezza la porterà a inserire ogni reazione animale in una cornice (etologica ed ecologica, diremmo oggi) ben precisa, in cui la presenza umana è sempre disturbante o al massimo, simile a quella di un ospite che non sempre sa come comportarsi e che viene guardato, dagli abitanti non-umani del luogo, con la benevolenza del padrone di casa il cui ospite maldestro abbia fatto cadere del tè sul tappeto. Sa che occorre limitare al massimo errori e interferenze.

Gli incontri con la vita animale sono spesso fugaci, momenti fuori dal tempo, attimi rubati allo scorrere dell’esplorazione e tracciati, nei diari, con parole ricche di rispetto e ammirazione.

Cadeva una pioggia maestosa con grande fragore, faceva a brandelli foglie e fiori (…) salendo su un mucchio di rocce da un burrone che aveva iniziato ad allagarsi, non feci in tempo ad alzare la testa che mi ritrovai ad altezza occhi, a meno di un metro di distanza, un grosso leopardo, accucciato a terra con la sua magnifica testa voltata, le zampe anteriori divaricate. Batteva a terra con la coda. Non appena lo vidi, mi abbassai di scatto per un tempo che mi sembrò lungo un anno ma che deve essere stato in realtà meno di venti minuti. Rialzandomi cautamente, diedi una sbirciatina e lui non c’era più”.

Rispetto, ammirazione e giuste distanze, dunque. La relazione non deve essere romanticizzata.

Nei suoi diari, annota:

“Una volta un coccodrillo scelse di mettere le zampe anteriori sopra la prua della mia canoa per migliorare la nostra conoscenza. Ho dovuto colpirlo forte con una pagaia per farlo desistere”

In un’altra occasione, i cui protagonisti furono un ippopotamo e un ombrello, l’esito fu simile.

La “dama dei coccodrilli” è consapevole che ogni incontro è una sfida, un rischio, una scommessa. L’animale gioca questa partita utilizzando il suo istinto e così, allo stesso modo, la Kingsley si trova spesso vittima della sua paura. Una paura ancestrale, che non può essere cancellata, in quanto parte essa stessa dell’esperienza umana. Un’emozione da mettere in conto quando ci si accosta a un predatore ma che non deve condizionare l’esito dell’incontro stesso.

Kingsley studierà per anni le scienze naturali e la vita degli animali nell’ambiente africano, al fine di scoprirne usi e abitudini, di apprenderne il “galateo”.

“Non nutro terrore nei confronti di nessun animale selvatico, se non nell’unico momento esatto in cui me lo trovo a un palmo dal naso”.

Le paure resteranno e andranno gestite e affrontate.

La Kingsley si definisce di temperamento nervoso, si riconosce una certa fragilità. In realtà, affronterà decine di avventure del tutto fuori dal comune.

“Il leopardo africano è un animale audace… nel suo insieme è l’animale più bello che io abbia mai visto; l’unico modo per vederlo, l’unico modo in cui si possa avere un’idea completa della sua bellezza, è nella sua foresta natale, anche se non posso dire sia una gioia pura per una persona, come me, di carattere nervoso”.

Un esemplare di leopardo africano.

L’animale selvatico deve essere libero: questo è l’unico modo per vederlo e conoscerlo davvero.

In Congo, la Kingsley farà spesso la conoscenza con i sistemi di trappole del luogo (un giorno cadrà persino in una di queste, procurandosi una brutta ferita). Quando possibile, libererà i felini dalle gabbie. Di uno di questi “salvataggi” narrerà anche nei suoi diari: un leopardo, la cui mancanza di rassegnazione lo spingeva a sbattere contro le sbarre fino a ferirsi. La Kingsley, aperta la cella, lo esorterà a godersi la libertà: “E ora, via!!!” lo inciterà gridando.

Bio macht schön

Cibo Bio: Mangiare sano e sostenibile deve essere un diritto.

Il tema dell’accessibilità e il modello tedesco

di Georg Jakob, membro dell’esecutivo circondariale di Bündnis 90/Die grünen (Alleanza 90/i Verdi) di Monaco e Mariagrazia Rizzi, ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca

Bio ti fa bella/o, Bio macht schön. Con questo slogan i Verdi tedeschi (Bündnis 90/Die Grünen) promuovevano alcuni anni fa una delle battaglie principali del partito, quella a favore del consumo di prodotti biologici, tema sensibile tra gli elettori tedeschi e in grado di far convergere molti consensi.

Ed effettivamente quando si pensa a un Paese modello per il BIO, in molti si rivolgono immediatamente alla vicina Germania. L’apertura da un tempo relativamente lungo ai prodotti biologici, la presenza, nell’attuale coalizione di governo di un partito ecologista attento alla cultura biologica (partito che alle ultime elezioni politiche ha ottenuto un consenso del 14,8 %), la numerosità dei punti vendita che si incontrano in città e le tante realtà locali di piccole dimensioni, in cui è possibile acquistare prodotti biologici, costituiscono certamente elementi che indirizzano verso questa visione, a sua volta confermata da alcuni dati statistici.

I tedeschi sono i primi acquirenti di BIO in Europa e sono stati cronologicamente i primi, sempre in Europa, a promuovere i prodotti biologici. I dati del 2021 mostravano un consumo del 24 % di prodotti bio certificati, con un incremento negli ultimi 4 anni dell’84% dell’acquisto di ortofrutta biologica (811 mila tonnellate), a fronte di un incremento del 10% in Italia (339 mila tonnellate). Una diversa tendenza si è registrata invece in Germania nell’anno 2022, quando si è assistito a un deciso decremento delle vendite, secondo il rapporto dell’Associazione tedesca degli agricoltori, causato dalla forte inflazione sui prodotti alimentari e dall’instabilità dei prezzi.

Sostenere il consumo (e dunque la produzione) di cibi biologici significa avere a cuore il futuro del pianeta e delle persone.

Il successo del consumo biologico in Germania, così come in Italia, ha certamente avuto un forte impulso a seguito della creazione del logo bio dell’UE, strumento dell’Unione Europea che conferisce la possibilità di definire come biologico un prodotto che rispetti taluni parametri di base.

Alla base dell’acquisto di prodotti bio in Germania vi è per un verso, certamente, una diffusa sensibilità ambientale nel Paese, per un altro verso una relativamente bassa qualità delle merci alimentari poste in vendita. Se in Italia in generale è possibile trovare cibi biologici di qualità medio-alta, nei mercati rionali fino alle grandi catene di supermercati, con prezzi adatti alle diverse tipologie di fruitori, in Germania tendenzialmente i prodotti in vendita hanno già da molto tempo uno standard relativamente basso, in particolare nel caso di frutta e verdura, non proporzionato ai prezzi assai alti praticati.

Questo ha indirizzato una parte della popolazione a “investire” nella “purezza” del prodotto, anche a livello monetario.

Nella crescita dei consumi di biologico in Germania incidono considerazioni di natura pratica ed economica sulla qualità del prodotto non bio, spesso mediocre, eppure venduto ad alto prezzo.

L’acquisto di alimenti biologici in Germania risulta ancora accessibile prevalentemente da single e famiglie con reddito medio-alto.

La scelta bio rimane uno stile di vita, uno dei diversi simboli della cultura “green” borghese della Germania occidentale. I prodotti biologici, tanto nei negozi specializzati quanto nei supermercati GDO, come pure nei normali supermercati, presentano prezzi ancora più elevati di quelli non biologici. L’accesso ai prodotti BIO risulta dunque riservato a una fetta limitata della popolazione, principalmente concentrata nelle grandi città dell’occidente tedesco, Monaco, Frankfurt, Stuttgart. Essa non tocca se non in piccolissima parte l’est della Germania (a eccezione di Berlino), in cui il grave problema della povertà e della disoccupazione impedisce in maniera sostanziale l’accesso a prodotti costosi come quelli bio.

A fronte di questa realtà si collocano la produzione e la distribuzione non biologiche. Negli ultimi anni si è assistito al riguardo a un costante abbassamento della qualità della produzione nazionale. Se la presenza di prodotti accessibili al vasto pubblico di consumatori costituisce una necessità, la circolazione di alimenti di bassissima qualità genera un’iniquità nel mercato.

Volgendo lo sguardo alle concrete misure politiche nazionali adottate negli ultimi anni, si deve constatare come gli interventi posti in essere si presentino limitati, nonché di scarsa incisività se analizzati in una prospettiva più generale. Se appare lodevole il recente provvedimento approvato, teso a incrementare il consumo bio nelle mense di lavoro e nelle scuole, rimangono ancora assai scarsi gli interventi volti a aumentare la produzione nazionale BIO, attualmente decisamente non in grado di soddisfare la domanda. Certamente significativo il confronto con l’Italia, che vanta il primato europeo in ordine al numero di coltivatori e trasformatori di prodotti biologici.

In particolare, gli interventi nazionali in Germania tendono a favorire soprattutto le grandi aziende, così come a livello europeo hanno arrecato vantaggi soprattutto ai grandi produttori. I sostegni ingenti da parte della Commissione Europea all’agricoltura sostenibile e alle pratiche benefiche per il clima, l’ambiente e il benessere degli animali, si inseriscono nella cornice del Green Deal europeo, con l’obiettivo di raggiungere almeno il 25% dei terreni agricoli nell’UE coltivati biologicamente entro il 2030. Quanto alla produzione non biologica, la politica adottata risulta poco attenta ai controlli nel settore e sostanzialmente orientata a un lasser faire.

Il grosso problema legato alla produzione in Germania, bio e non bio, è evidente. Controlli più serrati nell’ambito della grande produzione agricola e un’attenzione maggiore ai piccoli produttori  biologici e/o incentivi alla conversione in agricoltori biologici si pongono come misure urgenti, da attuare sia in ambito nazionale, sia su spinta europea. Sullo sfondo resta il problema della fruibilità ampia dei prodotti bio, che le misure ora menzionate migliorerebbero solo in parte.

Mangiare bio è ancora troppo spesso un lusso riservato a famiglie e single a reddito medio-alto, in Germania come in Italia.

I dati esposti mostrano come il “modello” tedesco attento al biologico, presenti diversi elementi di criticità. Il percorso verso una più ampia produzione biologica, nonché verso una diffusa alimentazione bio e in generale una fruizione di prodotti di qualità necessita ancora di significativi sforzi politici, nazionali ed europei, in molteplici direzioni.

Mangiare bene deve essere ecosostenibile, ma soprattutto e prima di tutto mangiare bene e in modo ecosostenibile deve essere un diritto di tutti. 

 

Un vuoto ricco di significato

Un vuoto ricco di significato. Esploriamo il concetto di vacuità (Śūnyatā) nel pensiero buddhista: un “non elemento” in cui trovare il Tutto e riscoprire la connessione con la natura.

Che cosa significa “vuoto”?

L’universo è privo di esistenza intrinseca. La prima volta che si ascolta o si legge questa frase, fondamentale nella logica buddhista, è difficile non restare colpiti dalla sua taglienza. Magari siamo incappati in essa per caso leggendo un libro di filosofie orientali, magari l’abbiamo incontrata durante un ritiro di meditazione. Ciò che è certo è che può averci lasciati sgomenti, confusi ma mai indifferenti. C’è qualcosa di netto e definitivo in questa affermazione che sembra rendere il mondo improvvisamente insignificante. Vuoto, appunto. L’orecchio (o l’occhio) occidentale non ci sta. La prima reazione è di ribellione: come può il mondo non avere esistenza… vuol dire che nulla ha senso? Abituata a speculazioni, divagazioni, costruzioni, divisioni, la nostra mente resta disorientata di fronte a tanta crudezza.

Possiamo, però, tirare un sospiro di sollievo: siamo vittime di un fraintendimento, di uno scoglio culturale che ci porta ad assegnare diversi significati alle parole, a inciampare nei nostri pregiudizi. Superate le esitazioni iniziali, questo è un viaggio che può regalarci grandi scoperte.

L’universo è privo di esistenza intrinseca. Questa frase racchiude una tra le più belle e amorevoli filosofie mai concepite dalla mente umana. Vacuità, infatti, non è vuoto. Perlomeno, non nel significato che riserviamo comunemente a questo termine in Occidente. Vacuità non è il vuoto che annichila o rabbuia e neppure il vuoto solitario e triste di una realtà in abbandono. Il vuoto buddhista è, invece, luminosa relazione. E come può una relazione essere vuota e per di più ricca di bellezza proprio in virtù di un’apparente assenza? Ci arriviamo subito. Abbiate solo la pazienza di seguirmi nel ragionamento. Ancora poche righe, per sbrigliare questo impiccio semantico.

Vuoto come relazione

Secondo la visione buddhista Mahayana, ogni elemento del mondo è legato a tutti gli altri attraverso meccanismi di causa-effetto e interdipendenza. Non è, dunque, possibile separare un essere umano – o qualsiasi altro oggetto, vivente o non vivente – dalla natura. La visione buddhista è, a tutti gli effetti, una visione ecologica. Ecologica non solo in senso filosofico, bensì nel senso più scientifico (e moderno) del termine. Una visione sistemica, direbbe il fisico austriaco Fritjof Capra, in cui la relazione è posta al centro. Essa è il fulcro dell’esistenza: io non esisto se non in virtù di uno scambio, continuo e inarrestabile, con tutto il resto.

Sono parte di un flusso dal quale non posso essere separato.

Esisto soltanto in quanto corrente, in quanto parte di qualcosa (sul quale, di conseguenza, mi ritrovo a interrogarmi). E dunque, esisto davvero?

Buddhismo ed ecologia profonda

L’interdipendenza: quali sono i confini tra noi e la natura di cui siamo parte?

Come individui, siamo abituati a identificarci con la nostra esperienza corporea. Noi siamo, in quanto possediamo un corpo e utilizziamo questo confine come barriera naturale tra noi e il resto del mondo. Ma davvero possiamo tracciare una linea netta? Gli studi sul microbioma e sul microbiota dell’ultimo decennio hanno dimostrato come la nostra salute e persino i nostri pensieri possano essere influenzati dai microorganismi che abitano il nostro intestino o proliferano sulla nostra pelle. La nostra sopravvivenza dipende inoltre da un gran numero di fattori “esterni”: acqua, aria, cibo. Gli elementi che compongono i nostri corpi sono stati forgiati da esplosioni in nuclei stellari e all’universo tornano costantemente, ogni volta che le nostre cellule si rinnovano e, infine, quando abbandoniamo questo mondo.

Nella visione buddhista, questo basta a smantellare ogni concetto di ego. In questo senso, tutti gli oggetti del mondo sono privi di esistenza intrinseca, ovvero fine a se stessa, separata.

Il cambiamento è l’unica costante

Su questa impalcatura si inserisce inoltre una valutazione sulla pervasività del cambiamento nel mondo. Ogni cosa, compreso il nostro corpo, è in mutamento continuo. Dove c’è cambiamento non è possibile “fotografare” alcun oggetto per definirlo: tu, lettore, sei già qualcosa di diverso da ciò che eri qualche istante fa. Nel momento in cui leggerai questo articolo, anche io sarò mutata rispetto al momento in cui le mie dita battevano sulla tastiera. Potrei, persino, non esistere più in questa forma. E così ogni cosa intorno a noi. L’universo buddhista è un regno in continua evoluzione, in cui niente esiste, se non come corrente di un flusso. Una visione che rispecchia le ricerche più recenti nel campo della fisica quantistica: a identificarci è la relazione, le connessioni che ci legano a tutto il resto… niente altro.

Vuoto ricco di significato

Come può la mancanza di esistenza intrinseca, di ego, di Io, cambiare le nostre vite? Come può essere ricca di significato?

Abbandonare gli egoismi è un precetto fondamentale insegnato dal buddha storico, Siddhartha Gautama, vissuto fra il VI e il V secolo prima di Cristo. Nella visione ecologica moderna è fondamentale riconoscere che noi siamo natura e non solo sforzarci di creare una relazione sana con essa.

Il vuoto buddhista è ricco di significato in quanto è un vuoto/pieno: di intrecci, connessioni, interdipendenze, scambi.

Non c’è assenza in tutto questo, anzi, è un vuoto piuttosto affollato! Ci serve a realizzare di essere parte del tutto. Come posso, infatti, attivarmi a difesa dell’ambiente se non riconosco che non esiste separazione tra me e il pianeta? Se lo chiedeva anche Arne Naess, teorico dell’ecologia profonda, alla fine degli anni ’70.

vacuità e relazione

Ama la natura come te stesso

Meditare sulla vacuità ci permette di uscire da una visione duale, in cui ci siamo noi in opposizione al mondo e di entrare in una dimensione in cui la nostra esistenza è naturalmente votata alla generosità, all’altruismo, alla cura. Riconoscere le connessioni tra noi e il mondo comporta la realizzazione di quella che Naess definiva concezione profonda dell’attivismo: mi prendo cura del pianeta e rispetto l’ambiente perché è per me naturale, esattamente come lo è prendermi cura del mio corpo, nutrirmi se sono affamato, riposare se sono malato. Diffondo amore e gentilezza perché non concepisco separazione tra me e gli altri esseri umani, gli altri animali non umani, persino le piante, e poi le montagne, i fiumi, le foreste. Sviluppo empatia e compassione, poiché mi sento responsabile di ciò che accade intorno a me. Ciò che faccio alla natura, faccio a me stesso. Se danneggio la natura, sto ferendo me stesso.

 

 

 

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Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Thomas Stern Eliot pubblica nel 1939 la raccolta Old Possum’s book of practical cats (Il libro dei gatti tuttofare), da cui Andrew Loyd Webber trarrà il suo musical in due atti “Cats”. Old Possum è il nomignolo con cui Eliot si firmava nelle lettere che inviava ai suoi figliocci.

La prima edizione di Book of Practical Cats edita da Faber and Faber.

Esse erano ricche di giochi di parole e stramberie, tra cui molte poesie sui gatti. In casa di Eliot si era insediata una vera e propria colonia felina, impicciona e invadente (malgrado lo scrittore fosse ben consapevole del fatto che sono i gatti stessi a considerare gli umani invadenti e spesso impiccioni).

Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Con quella scrittura delicata ed elegante con cui si occupava delle cose del mondo, Eliot ha parlato anche di psicologia felina e del modo che hanno i gatti di interpretare il nostro mondo e le nostre “stranezze” quotidiane.

The Naming of Cats (Il nome dei gatti) è un piccolo capolavoro di ironia, di saggezza e di rispetto per compagni certo amatissimi, ma con i quali mantenere sempre la giusta distanza “di sicurezza”.

Anche dar loro un nome costituisce un problema di non poco conto:

“È un affare difficile mettere il nome ai gatti; niente che abbia a che vedere, infatti, con i soliti passatempi di fine settimana”.

E continua proponendo Tre Diversi Nomi da dare ai domestici felini:

“Prima di tutto quello che in famiglia potrà essere usato quotidianamente, un nome come Pietro, Augusto, o come Alonzo, Clemente; come Vittorio o Gionata […] tutti nomi giudiziosi per ogni occorrenza”.

Il secondo Nome sarà meno familiare e dovrà essere tale per cui i gatti possano sentirsi orgogliosi di sfoggiarlo.  Nome dignitoso, da gentiluomo o da eroe:

“Nomi di questo genere posso offrirvene un numero legale, nomi come Mustràppola, Tisquàss o Ciprincolta, nome Babalurina o Mostradorum, che si adattano soltanto a un gatto per volta”.

Infine, il terzo Nome, quello più semplice da ricercare, quello immediato, che permetta al gatto di sentirsi a suo agio, senza agitare convulsamente la coda e, con fare indifferente, studiare un nuovo graffiante attacco.

“Comunque, mettila come vuoi, un nome è ancora assente: quello che non potete nemmeno indovinare, né un’investigazione è in grado di scovare; ma IL GATTO LO CONOSCE, anche se mai lo confessa”.

Un Nome dai contorni indefinibili, forse impronunciabile, dal suono arcano e primordiale, che scatena nell’essere umano ricordi ormai rimossi. Un Nome su cui riflettere, che solo il gatto conosce, il solo che a lui si confà:

“Quando vedete un gatto in profonda ponderazione, il motivo, credetemi, è sempre lo stesso: ha la mente in piena contemplazione e in contemplazione del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome: del suo ineffabile effabileeffineffabile profondo e inscrutabile unico NOME”.

Un’illustrazione tratta dall’edizione del 1959 di Old Possum’s book of pratical cats di T.S. Eliot.

In The ad-dressing of cats (Come rivolgerci a un gatto) Eliot affronta l’annoso problema di come interpellare un gatto per non destare in lui il minimo sentimento di offesa, perché i gatti non sono differenti dagli umani con cui si degnano di convivere:

“Ora avete imparato abbastanza per capire che un Gatto non è affatto differente né da voi né da me né dall’altra gente” e ribatte che i gatti sono proprio come gli umani, saggi, pazzi, buoni o maligni, tanto che ognuno di loro può essere messo in lirica, descritto in versi che lo rappresentino.

Il libro dei gatti tuttofare racchiude un mondo di meraviglie.

Nell’ Ultima resistenza di Sandogàtt si narra di un gatto, rude pirata, che solca il fiume sul suo veliero, vero “terrore del Tamigi”, accompagnato dal suo fido in seconda dal nome Arruffapelo e dal nostromo, un tal Rognasparso. Il suo unico punto debole: la siamese Lady Spremilosso. Un vero gattaccio Sandogàtt che finirà i suoi giorni inghiottito dalle acque, dopo essere stato costretto dal nemico “a camminare in bilico a fil di parapetto”.

In Gattatràc e Gattasfascio si racconta la vicenda di una coppia di gatti famosi, matti e spericolati, trasformisti ed equilibristi che rovesciano, strappano, scippano e fanno sparire abiti e vestiti dai cassetti. Uno stile certo originale nel lavorare in coppia, facendo cadere a terra e con gran frastuono stoviglie e libri e anche un preziosissimo vaso Ming. Ma ci si chiede dappertutto: chi mai dei due avrà commesso simili fatti? “Di certo Gattatràc e Gattafascio, che sono insieme un gatto indefinito”.

Gatti dai nomi improponibili, come Vecchio Deutoronomio, sempre in meditazione, gatto dall’alto ingegno, impegnato com’è nelle faccende di economia domestica, o Brunero, il gatto del mistero, conosciuto anche con il nome di Brunero Zampaproibita, vero capo malavitoso, o Gàssgatt, il gatto di teatro.

di Mariaclara Menenti Savelli

Il mare di tutti

Il mare di tutti.

La marine citizenship e gli oceani come bene comune

Una distesa cobalto che profuma di alghe e sale. Centinaia di bioregioni, migliaia di forme di vita, milioni di comunità umane che dipendono direttamente dalle risorse marine. Si può dire che i mari e gli oceani appartengano a qualcuno? O essi sono bene comune, eredità da custodire e trasferire, ricchezza da proteggere? La marine citizenship, o cittadinanza del mare, indica un modello in cui gli individui sono coinvolti nelle scelte che riguardano la salute degli ambienti marini, rivendicando diritti quali la preservazione degli ecosistemi a beneficio anche delle generazioni future. I “cittadini del mare” si attivano per la sua difesa e compiono scelte consapevoli.

Gli oceani sono un complesso “unico e continuo”. Essi occupano circa il 70% della superficie terrestre.

Obiettivi comuni

Tra le sfide indicate dai documenti ufficiali del decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile 2020-2030 (UN), emergono chiari diversi indirizzi. Innanzitutto, vi è l’aspirazione a cambiare radicalmente la nostra relazione con il mondo marino. Comprendere e affrontare le minacce climatiche, proteggere e ripristinare la biodiversità, rovesciare i modelli economici di sfruttamento. Si tratta di obiettivi nobili e alla nostra portata, purché si lavori sull’allargamento della partecipazione attiva. E mai come prima d’ora questo desiderio è stato tanto diffuso e radicato.

Acqua e vita. Due elementi strettamente connessi

Minacciati dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento ambientale, questi fragili ecosistemi sono tra i più soggetti a speculazioni, sfruttamenti e abusi. In essi sono ancora più evidenti i meccanismi di interconnessione che regolano la vita sul pianeta. I mari sono patrimonio del pianeta e delle comunità, umane e non umane, che da essi traggono nutrimento per la vita. La relazione con il mare è stata inoltre fondamentale per lo sviluppo di innumerevoli culture nel mondo.

 

Oltre 250 milioni di persone nel mondo dipendono direttamente dagli ecosistemi marini per il soddisfacimento delle proprie necessità di base

Tuttavia, quando si parla di strategie di gestione dei mari, difficilmente riusciamo a configurare una partecipazione diretta alle decisioni che le riguardano. Ci preoccupiamo delle coste, delle spiagge, a volte dei primi tratti del fondale. Ma l’esperienza dei cittadini è ancora lontana dalle discussioni macro sulla salute e sulla tutela del patrimonio blu. In questo, occorre chiedere a gran voce un cambiamento politico.

Diritti e doveri

Secondo una recente ricerca svolta dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, la “cittadinanza del mare”, ovvero la possibilità di partecipare consapevolmente alle decisioni e agli eventi trasformativi che riguardano mari e oceani, è un diritto da reclamare, a tutela del nostro benessere e di quello delle generazioni future. Le ricerche su questo tema si sono finora focalizzate sulla partecipazione sporadica e la responsabilità individuale, come singoli attivisti o associazioni che si occupano di promuovere stili di vita sostenibili, allontanando, ad esempio, le persone dal consumo di plastica monouso o ripulendo le spiagge. Ma la marine citizenship può diventare molto di più.

Gli effetti dell’inquinamento da plastica e il sovrasfruttamento legato alla pesca stanno mutando profondamente gli equilibri marini. Cambiare rotta dipende dalle nostre scelte di vita, come singoli e come comunità

“la cittadinanza marina è più importante del cambiamento individuale. […] l’accesso alle decisioni ambientali, che oggi è mediato dagli enti, non consente agli individui di fornire un contributo diretto. L’influenza dei cittadini sulle discussioni che riguardano il futuro degli oceani è ancora minima.” – afferma Pamela Buchan dell’Università di Exeter, vincitrice del Celebrating Impact Prize 2022 dell’Economic and Social Research Council (ESRC).

I problemi marini sono legati anche alle nostre scelte individuali: alimentazione, stili di vita e consumi producono un forte impatto. Questi comportamenti divengono poi modelli. Propagandosi all’interno delle società, “disegnano” il nostro rapporto con il mare.

In questo senso, le mobilitazioni a favore dell’ambiente di questi ultimi anni e il desiderio di attivarsi concretamente per la difesa dei nostri territori, sono un primo segno di concezioni nuove del nostro vivere con responsabilità la natura di cui siamo parte. Di fronte alla natura, possediamo diritti e doveri. Tuttavia, occorre spingere perché il cambiamento investa anche i livelli più alti: riconoscendo l’emergenza climatica, le cause di inquinamento, i meccanismi che intaccano la rigenerazione delle risorse e le possibili minacce future agli equilibri del mare.

Diffondere la consapevolezza che ogni decisione sulle tematiche ambientali ci riguarda da vicino e che partecipare è un nostro diritto, può ridisegnare il futuro degli oceani

Già una ricerca del 2012 aveva messo in luce come il coinvolgimento dei cittadini nella gestione delle risorse marine promuovesse una maggiore sostenibilità ambientale e una migliore salute dell’intero ecosistema. A giocare un ruolo chiave sarà la nostra capacità di educare alle sfide che abbiamo di fronte, di aumentare il nostro senso di responsabilità e di promuovere scelte politiche diverse, attraverso la partecipazione attiva a favore del bene comune.

 

di Team Kressida

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La foresta Pando, testimone della saggezza della Natura

Lungo le rive del Fish Lake, nella National Forest dello Utah centrale, risiede uno dei più grandi organismi viventi sulla terra: la foresta Pando.

Sopravvissuta per più di 12.000 anni, rischia ora di scomparire per cause, finora, non pienamente identificate. Numerosi studiosi e operatori forestali sono alla ricerca di una soluzione per salvare questo inestimabile patrimonio del pianeta Terra. 

Con un’estensione di 43 ettari, pari allo spazio occupato da circa 60 campi da calcio, composto da 47.000 diramazioni di pioppi tremuli, Pando si sviluppa grazie a un singolare e vasto apparato radicale contenente un unico DNA. 

Le comunità di pioppi sono dette anche “foreste di amianto”, grazie alla loro resistenza al fuoco (essi immagazzinano enormi quantità di acqua che li proteggono in caso di incendi), alle loro radici profonde e ai loro fusti flessibili in grado di sopportare le intemperie, e alla loro capacità di fare fronte a inverni lunghi e rigidi (grazie alla clorofilla contenuta nella corteccia, che consente loro di creare energia pur in assenza di foglie).

Pando nasce in una terra di ghiacciai, terremoti, vulcani e incendi. Un’area caratterizzata da un suolo frastagliato con enormi massi vulcanici, ghiaia e ciottoli, lungo una faglia attiva. Ed è proprio grazie a queste caratteristiche che le sue radici, nei secoli, hanno avuto modo di sviluppare un apparato estremamente esteso attraverso il quale riprodursi. 

In quanto albero maschio, Pando produce solo polline e invia nuovi steli alle radici mettendo in atto un processo definito “pollone”: la clonazione di nuovi esemplari prende vita direttamente dall’apparato radicale. Queste sue peculiarità gli hanno permesso di sopravvivere migliaia di anni ristabilendo continui nuovi equilibri con l’intero ecosistema in cui si trova immerso, condivendolo con animali selvaggi, insetti, uccelli, roditori.

Ungulati nella foresta Pando. Fonte: New York Times

Un’ecosistema a rischio

Da circa 40 anni, Pando sta soffrendo. Molti dei suoi nuovi germogli non riescono a sopravvivere. Almeno tre malattie hanno intaccato la sua struttura: un parassita corticale che ne ha compromesso le cortecce, un agente patogeno che colpisce le parti fuori terra e causa disseccazioni e caduta delle foglie, e un’ulteriore infezione fungina che interessa le radici. Da quel momento, gruppi di studiosi e responsabili di servizi forestali hanno iniziato a vedere il degrado del clone (ovvero di quell’unico patrimonio genetico da cui ha avuto origine e che accomuna ogni singolo pioppo della foresta) e a monitorarne il cambiamento. Sono contemporaneamente state attuate misure di contenimento che lo proteggessero da un aumento fuori controllo di ungulati, quali cervi mulo e alci di montagna.

A differenza dei cervi, mammiferi nativi e quindi da sempre esistiti e cresciuti con Pando, gli alci di montagna sono stati introdotti dall’uomo per la caccia e l’allevamento. Hanno dimostrato di essere altamente adattabili, moltiplicandosi fuori controllo e impattando in modo significativo sull’equilibrio dell’ecosistema. Animali più grandi rispetto ad altre specie, riescono a superare con facilità le recinzioni costruite a tutela della foresta e a mangiare e mordere rami, cortecce, gemme e germogli ad altezze più elevate. Indebolendo, così, la pianta e creando solchi che facilitano l’insorgere di malattie o attirano altri insetti.

Per agevolarne l’osservazione, l’intera superficie è stata suddivisa in 65 aree di monitoraggio forestale, raggruppate in tre diversi regimi.

Una prima area è libera e aperta. Una seconda zona ha una semplice rete di protezione. L’ultima è munita di recinzione e sottoposta a trattamenti attivi quali bruciatura, abbattimento di arbusti e potatura.

I risultati non si sono dimostrati però sufficienti ad arginare il problema. Le recinzioni non hanno protetto la foresta, in quanto i grandi animali hanno trovato comunque il modo di penetrare le barriere e invadere il territorio. C’è stato un leggero incremento di rigenerazione dell’area sottoposta a trattamenti attivi, ma non tale da rallentare in maniera rassicurante il processo di decadenza di Pando. 

Alberi della foresta Pando. Credit: Ray Boren

Che cosa ha generato disequilibrio nella foresta Pando?

Per poter porre rimedio a questa apparentemente inarrestabile decadenza, è fondamentale chiedersi quali siano stati gli elementi che hanno contribuito a rompere l’armonia che aveva garantito la sopravvivenza di Pando per migliaia di anni. 

A partire dal 1939 sono stati sempre più evidenti i segni di intrusione umana in quell’area circoscritta.

È stata costruita un’autostrada che taglia in due la foresta, sono nati campeggi ed edificate nuove abitazioni. Il turismo si è moltiplicato esponenzialmente (si stimano ogni anno circa 300.000 visitatori). Di conseguenza, è stata abolita la caccia e sono stati soppressi gli incendi, al fine di non mettere in pericolo i nuovi abitanti della zona. Ma queste azioni hanno avuto delle ripercussioni sugli eventi naturali di quell’antico ecosistema.

La soppressione degli incendi spontanei ha interrotto un importante processo di difesa della foresta. 

Il fuoco, infatti, è fondamentale per mantenerne l’equilibrio. Restituisce al terreno nutrienti necessari alla crescita e stimola nelle radici gli ormoni che ne attivano l’assimilazione. In questo modo, una volta estinto, la pianta riprende con maggiore forza e vigore la propria attività vitale e riproduttiva. In assenza di fuoco, i pioppi diminuiscono di numero e vengono sostituiti da specie miste di conifere. Un processo che può essere lungo ma inarrestabile, compromettendo irrimediabilmente la natura dell’organismo.

Inoltre, anche il grave problema del surriscaldamento globale, ha inciso sull’indebolimento delle sue ramificazioni. L’innalzamento delle temperature medie ha provocato l’insorgere di periodi sempre più lunghi di siccità e ridotto l’estensione e la profondità del manto nevoso. Di conseguenza, c’è stato un allungamento della stagione di brucatura, andando a ridurre il naturale tempo di riposo degli alberi. Questi fattori causano la mortalità negli esemplari più vecchi e inibiscono la continuità della clonazione della specie.

Pando rappresenta un sistema a sé stante e unico nella sua peculiarità. È un bene inestimabile che testimonia le potenzialità della natura in termini di custodia, rigenerazione e bilanciamento della vita nel corso di millenni.

La sua salvaguardia richiede necessariamente una ridefinizione della gestione della fauna e delle cause che hanno scatenato l’impoverimento e l’inquinamento del suolo e dell’aria. Azioni necessarie al fine di ripristinare quell’equilibrio che gli ha permesso di sopravvivere per 12.000 anni e giungere fino a noi, testimone di secoli di saggezza innata, propria della Natura a cui ognuno di noi appartiene.

 

 

Articolo di Marianna Rozzarin

 

 

 

Testo realizzato nell’ambito del corso Scrivere di Natura

 

Anche le piante “traslocano”

Anche le piante “traslocano”. Per far fronte ai cambiamenti climatici, boschi, giungle e foreste si spostano verso aree ecologicamente migliori, trascinando con sé interi ecosistemi. 

Una ricerca condotta da Jenny McGuire, della School of Biological Sciences di Georgia Tech ha messo in luce i meccanismi coinvolti in questi “viaggi”.

Anche le piante “traslocano”. Molti sistemi vegetali mostrano resilienza nei confronti dei cambiamenti climatici, purché sia stato in precedenza conservato il loro naturale tasso interno di biodiversità.

Come reagiscono le piante alle minacce climatiche?

Come rivelatoci dalle più recenti ricerche della neurobiologia, la vita vegetale possiede una sua intelligenza ed è dotata di capacità comunicative sorprendenti, sulle quali gli scienziati hanno iniziato soltanto da pochi anni a farsi un’idea.

Le piante sono “problem solver” d’eccezione e queste capacità si rivelano fondamentali di fronte alle minacce ambientali, tra cui l’inquinamento e i repentini cambi di temperatura. 

 

Empatia, solidarietà, intelligenza: sono solo alcune delle caratteristiche in precedenza ritenute solo “umane” che si riscontrano nella vita vegetale (oltre che in quella animale).

Rifugi climatici

Il team interdisciplinare di Jenny McGuire ha analizzato il comportamento passato di interi sistemi vegetali di fronte a eventi distruttivi e massicce variazioni climatiche, in aree molto diverse tra loro, dalla Cina al Texas, fino alla Norvegia. I risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) e hanno dimostrato come le connessioni tra membri diversi di uno stesso ecosistema (non solo diverse specie di piante ma anche gli animali che in quell’habitat vivono e sopravvivono) sia responsabile dell’elaborazione di complesse strategie di difesa e persino di interi “traslochi” verso terre dalle condizioni più favorevoli: veri e propri rifugi climatici, dove sebbene le condizioni siano diverse rispetto all’ecosistema originale, gli equilibri si ricreano e la biodiversità complessiva persiste. 

Il ruolo della biodiversità

Alcune specie mostrano una resilienza maggiore e una maggiore inclinazione a spostarsi per ripristinare le proprie naturali capacità di rigenerazione, portando con sé anche le specie animali che da esse dipendono per assolvere alle proprie necessità alimentari e trovare riparo. Ancora una volta, come accaduto in passato con altre analisi svolte sulla resistenza dei coralli alle ondate di calore estremo, è la biodiversità a fungere da protezione attiva nei confronti degli scenari più incerti.

Più un ecosistema è ricco in termini di diversità, più sono complesse le interazioni, più esso possiede risorse per far fronte al cambiamento.

Anche le piante “traslocano”. Vegetali e animali elaborano strategie comuni per far fronte alle minacce ambientali.

Il modo in cui questi meccanismi agiscono e si sviluppano è ancora oggetto di ricerca, ne sappiamo davvero poco e soprattutto non ci è chiaro quale sia il tempo minimo limite all’interno del quale può verificarsi un meccanismo di resilienza simile. In altre parole: se i cambiamenti avvenissero troppo in fretta, rischieremmo di vanificare anche questa possibilità. Per queste ragioni, occorre difendere la biodiversità e se vogliamo aumentare le nostre chance di sopravvivere al disastro ecologico, diventa un imperativo globale. 

Una tematica scientifica, economica, sociale e individuale

Oggi il 75% dei territori terrestri è minacciato dal cambiamento climatico. Una minaccia direttamente connessa ai nostri modelli economici e sociali. Delegare alla scienza la risoluzione dei problemi non basta, occorre che queste tematiche diventino parte della discussione sulla gestione dei territori e delle risorse: 

“L’identificazione di strategie per consentire a piante e animali di navigare in questi scenari in mutamento richiede piani di conservazione che riconoscano e integrino la complessità di questi problemi in modo socialmente esplicito”.

Occorre anche che esse si integrino nella nostra riflessione su stili di vita e consumo: 

“L’impronta umana globale si sta espandendo perché i bisogni si stanno espandendo”. 

 

Per approfondire: J.L. McGuire, A.M. Lawing, S. Díaz e N.C. Stenseth,  The past as a lens for biodiversity conservation on a dynamically changing planet, PNAS, 6 febbraio 2023

 

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Un saluto a Pio D’Emilia

Un saluto a Pio D’Emilia

Ieri ci ha lasciati Pio D’Emilia: un dolore per tutti gli amanti dell’Estremo Oriente, che dai suoi reportage traevano spunti e approfondimenti chiari e competenti per imparare a leggerne le vicende più complesse. 

Pio D’Emilia arriva in Giappone alla fine degli anni ’70, giovane laureato in giurisprudenza, con un borsa di studio dell’Università Keiō. Stregato dal Paese del Sol Levante, decide di restare. Diviene giornalista e negli anni collaborerà con diverse testate, dal Messaggero al Manifesto, dal Fatto Quotidiano a l’Espresso.

Cina e Giappone, in particolare, costituivano le sue aree di interesse principali e proprio su questi due paesi egli ha scritto numerosi libri e realizzato due tra i più interessanti documentari degli ultimi anni: “Fukushima, a nuclear story”, dedicato al disastro nucleare della Fukushima Dai-ichi (Pio è stato tra l’altro tra i pochi giornalisti ad averlo vissuto in diretta sul campo) e “YiDai YiLu la FerroVia della Seta”, sull’articolato programma cinese che mira a collegare commercialmente oriente e occidente.

In Giappone si sentiva a casa. Qui ha fondato l’associazione per la libertà di stampa Jiyūhōdōkyōkai ed è stato consigliere di esponenti del partito democratico giapponese, tra cui Naoto Kan.

Cina e Giappone: due mondi diversi, spesso di difficile interpretazione per il lettore occidentale, che Pio ha saputo raccontare con semplicità ed equilibrio, senza rinunciare a toccarne gli aspetti più controversi, a rovesciarne i luoghi comuni. Fornendoci, così, preziosi strumenti di conoscenza. Ma nel suo lavoro c’è anche un’Asia solitamente trascurata dall’informazione: le numerose crisi coreane, le rivendicazioni del popolo tibetano, le vicende politiche nelle Filippine, le dolorose proteste in Birmania.  

Pio D’Emilia e Tenzin Gyatso in occasione dell’intervista realizzata al Dalai Lama per SkyTG 24 a Milano, il 21 ottobre 2016. Photo credit Tenzin Choejor/OHHDL

Storico corrispondente di Sky TG24, dotato di forza gentile, ha speso oltre trent’anni spesi nella sua amata Asia Orientale, che aveva abbracciato quando l’Estremo Oriente era in buona parte meta esotica per i giornalisti italiani – con l’illustre eccezione di Tiziano Terzani – raccontando paesi di cui sapeva cogliere tutta la bellezza e la complessità, senza rinunciare a indagarne le contraddizioni.

Antifascista – e ci teneva a ribadirlo spesso – critico contro le guerre e i meccanismi nocivi del potere, esperto yamatologo e sensibile alle tematiche ambientali, ha scritto e affermato parole profonde contro il nucleare.

Pio D’Emilia durante la campagna Save Katoku, mirata a proteggere la spiaggia di Katoku (riserva marina incontaminata nel distretto di Ōshima in Giappone e santuario marino), dallo sfruttamento commerciale. Credit: informazione.it

Nel 2017 ha ricevuto il prestigioso premio CerviAmbiente, che fu di scienziati del calibro di Konrad Lorenz e Jacques Yves Cousteau. Un uomo coraggioso, che sapeva spingersi alla ricerca della verità oltre le apparenze, anche a costo di incontrare il pericolo, l’ignoto.

Locandina del documentario “Fukushima, a Nuclear Story” realizzato con Christine Reinhold e Matteo Gagliardi e uscito nel 2015.

Nonostante i problemi di salute non ha mai smesso di progettare, di sognare, di voler raccontare. Celebre anche l’esperimento che lo aveva portato a studiare su di sé gli effetti del passaggio a un’alimentazione sana, misurando scientificamente i progressi, per arrivare a dimostrare che siamo ciò che mangiamo (da questa esperienza è nato il documentario “Mini Size Me”), interrogandosi anche sulle conseguenze etiche delle nostre scelte alimentari. 

Pio D’Emilia. Credit: Corriere delle Alpi

La sua voce profonda e pacata, eppure così incisiva, ci mancherà. Buon viaggio, Pio.