Un vuoto ricco di significato

Un vuoto ricco di significato. Esploriamo il concetto di vacuità (Śūnyatā) nel pensiero buddhista: un “non elemento” in cui trovare il Tutto e riscoprire la connessione con la natura.

Che cosa significa “vuoto”?

L’universo è privo di esistenza intrinseca. La prima volta che si ascolta o si legge questa frase, fondamentale nella logica buddhista, è difficile non restare colpiti dalla sua taglienza. Magari siamo incappati in essa per caso leggendo un libro di filosofie orientali, magari l’abbiamo incontrata durante un ritiro di meditazione. Ciò che è certo è che può averci lasciati sgomenti, confusi ma mai indifferenti. C’è qualcosa di netto e definitivo in questa affermazione che sembra rendere il mondo improvvisamente insignificante. Vuoto, appunto. L’orecchio (o l’occhio) occidentale non ci sta. La prima reazione è di ribellione: come può il mondo non avere esistenza… vuol dire che nulla ha senso? Abituata a speculazioni, divagazioni, costruzioni, divisioni, la nostra mente resta disorientata di fronte a tanta crudezza.

Possiamo, però, tirare un sospiro di sollievo: siamo vittime di un fraintendimento, di uno scoglio culturale che ci porta ad assegnare diversi significati alle parole, a inciampare nei nostri pregiudizi. Superate le esitazioni iniziali, questo è un viaggio che può regalarci grandi scoperte.

L’universo è privo di esistenza intrinseca. Questa frase racchiude una tra le più belle e amorevoli filosofie mai concepite dalla mente umana. Vacuità, infatti, non è vuoto. Perlomeno, non nel significato che riserviamo comunemente a questo termine in Occidente. Vacuità non è il vuoto che annichila o rabbuia e neppure il vuoto solitario e triste di una realtà in abbandono. Il vuoto buddhista è, invece, luminosa relazione. E come può una relazione essere vuota e per di più ricca di bellezza proprio in virtù di un’apparente assenza? Ci arriviamo subito. Abbiate solo la pazienza di seguirmi nel ragionamento. Ancora poche righe, per sbrigliare questo impiccio semantico.

Vuoto come relazione

Secondo la visione buddhista Mahayana, ogni elemento del mondo è legato a tutti gli altri attraverso meccanismi di causa-effetto e interdipendenza. Non è, dunque, possibile separare un essere umano – o qualsiasi altro oggetto, vivente o non vivente – dalla natura. La visione buddhista è, a tutti gli effetti, una visione ecologica. Ecologica non solo in senso filosofico, bensì nel senso più scientifico (e moderno) del termine. Una visione sistemica, direbbe il fisico austriaco Fritjof Capra, in cui la relazione è posta al centro. Essa è il fulcro dell’esistenza: io non esisto se non in virtù di uno scambio, continuo e inarrestabile, con tutto il resto.

Sono parte di un flusso dal quale non posso essere separato.

Esisto soltanto in quanto corrente, in quanto parte di qualcosa (sul quale, di conseguenza, mi ritrovo a interrogarmi). E dunque, esisto davvero?

Buddhismo ed ecologia profonda

L’interdipendenza: quali sono i confini tra noi e la natura di cui siamo parte?

Come individui, siamo abituati a identificarci con la nostra esperienza corporea. Noi siamo, in quanto possediamo un corpo e utilizziamo questo confine come barriera naturale tra noi e il resto del mondo. Ma davvero possiamo tracciare una linea netta? Gli studi sul microbioma e sul microbiota dell’ultimo decennio hanno dimostrato come la nostra salute e persino i nostri pensieri possano essere influenzati dai microorganismi che abitano il nostro intestino o proliferano sulla nostra pelle. La nostra sopravvivenza dipende inoltre da un gran numero di fattori “esterni”: acqua, aria, cibo. Gli elementi che compongono i nostri corpi sono stati forgiati da esplosioni in nuclei stellari e all’universo tornano costantemente, ogni volta che le nostre cellule si rinnovano e, infine, quando abbandoniamo questo mondo.

Nella visione buddhista, questo basta a smantellare ogni concetto di ego. In questo senso, tutti gli oggetti del mondo sono privi di esistenza intrinseca, ovvero fine a se stessa, separata.

Il cambiamento è l’unica costante

Su questa impalcatura si inserisce inoltre una valutazione sulla pervasività del cambiamento nel mondo. Ogni cosa, compreso il nostro corpo, è in mutamento continuo. Dove c’è cambiamento non è possibile “fotografare” alcun oggetto per definirlo: tu, lettore, sei già qualcosa di diverso da ciò che eri qualche istante fa. Nel momento in cui leggerai questo articolo, anche io sarò mutata rispetto al momento in cui le mie dita battevano sulla tastiera. Potrei, persino, non esistere più in questa forma. E così ogni cosa intorno a noi. L’universo buddhista è un regno in continua evoluzione, in cui niente esiste, se non come corrente di un flusso. Una visione che rispecchia le ricerche più recenti nel campo della fisica quantistica: a identificarci è la relazione, le connessioni che ci legano a tutto il resto… niente altro.

Vuoto ricco di significato

Come può la mancanza di esistenza intrinseca, di ego, di Io, cambiare le nostre vite? Come può essere ricca di significato?

Abbandonare gli egoismi è un precetto fondamentale insegnato dal buddha storico, Siddhartha Gautama, vissuto fra il VI e il V secolo prima di Cristo. Nella visione ecologica moderna è fondamentale riconoscere che noi siamo natura e non solo sforzarci di creare una relazione sana con essa.

Il vuoto buddhista è ricco di significato in quanto è un vuoto/pieno: di intrecci, connessioni, interdipendenze, scambi.

Non c’è assenza in tutto questo, anzi, è un vuoto piuttosto affollato! Ci serve a realizzare di essere parte del tutto. Come posso, infatti, attivarmi a difesa dell’ambiente se non riconosco che non esiste separazione tra me e il pianeta? Se lo chiedeva anche Arne Naess, teorico dell’ecologia profonda, alla fine degli anni ’70.

vacuità e relazione

Ama la natura come te stesso

Meditare sulla vacuità ci permette di uscire da una visione duale, in cui ci siamo noi in opposizione al mondo e di entrare in una dimensione in cui la nostra esistenza è naturalmente votata alla generosità, all’altruismo, alla cura. Riconoscere le connessioni tra noi e il mondo comporta la realizzazione di quella che Naess definiva concezione profonda dell’attivismo: mi prendo cura del pianeta e rispetto l’ambiente perché è per me naturale, esattamente come lo è prendermi cura del mio corpo, nutrirmi se sono affamato, riposare se sono malato. Diffondo amore e gentilezza perché non concepisco separazione tra me e gli altri esseri umani, gli altri animali non umani, persino le piante, e poi le montagne, i fiumi, le foreste. Sviluppo empatia e compassione, poiché mi sento responsabile di ciò che accade intorno a me. Ciò che faccio alla natura, faccio a me stesso. Se danneggio la natura, sto ferendo me stesso.

 

 

 

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Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Thomas Stern Eliot pubblica nel 1939 la raccolta Old Possum’s book of practical cats (Il libro dei gatti tuttofare), da cui Andrew Loyd Webber trarrà il suo musical in due atti “Cats”. Old Possum è il nomignolo con cui Eliot si firmava nelle lettere che inviava ai suoi figliocci.

La prima edizione di Book of Practical Cats edita da Faber and Faber.

Esse erano ricche di giochi di parole e stramberie, tra cui molte poesie sui gatti. In casa di Eliot si era insediata una vera e propria colonia felina, impicciona e invadente (malgrado lo scrittore fosse ben consapevole del fatto che sono i gatti stessi a considerare gli umani invadenti e spesso impiccioni).

Gatti nei libri: Thomas Stearn Eliot

Con quella scrittura delicata ed elegante con cui si occupava delle cose del mondo, Eliot ha parlato anche di psicologia felina e del modo che hanno i gatti di interpretare il nostro mondo e le nostre “stranezze” quotidiane.

The Naming of Cats (Il nome dei gatti) è un piccolo capolavoro di ironia, di saggezza e di rispetto per compagni certo amatissimi, ma con i quali mantenere sempre la giusta distanza “di sicurezza”.

Anche dar loro un nome costituisce un problema di non poco conto:

“È un affare difficile mettere il nome ai gatti; niente che abbia a che vedere, infatti, con i soliti passatempi di fine settimana”.

E continua proponendo Tre Diversi Nomi da dare ai domestici felini:

“Prima di tutto quello che in famiglia potrà essere usato quotidianamente, un nome come Pietro, Augusto, o come Alonzo, Clemente; come Vittorio o Gionata […] tutti nomi giudiziosi per ogni occorrenza”.

Il secondo Nome sarà meno familiare e dovrà essere tale per cui i gatti possano sentirsi orgogliosi di sfoggiarlo.  Nome dignitoso, da gentiluomo o da eroe:

“Nomi di questo genere posso offrirvene un numero legale, nomi come Mustràppola, Tisquàss o Ciprincolta, nome Babalurina o Mostradorum, che si adattano soltanto a un gatto per volta”.

Infine, il terzo Nome, quello più semplice da ricercare, quello immediato, che permetta al gatto di sentirsi a suo agio, senza agitare convulsamente la coda e, con fare indifferente, studiare un nuovo graffiante attacco.

“Comunque, mettila come vuoi, un nome è ancora assente: quello che non potete nemmeno indovinare, né un’investigazione è in grado di scovare; ma IL GATTO LO CONOSCE, anche se mai lo confessa”.

Un Nome dai contorni indefinibili, forse impronunciabile, dal suono arcano e primordiale, che scatena nell’essere umano ricordi ormai rimossi. Un Nome su cui riflettere, che solo il gatto conosce, il solo che a lui si confà:

“Quando vedete un gatto in profonda ponderazione, il motivo, credetemi, è sempre lo stesso: ha la mente in piena contemplazione e in contemplazione del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome: del suo ineffabile effabileeffineffabile profondo e inscrutabile unico NOME”.

Un’illustrazione tratta dall’edizione del 1959 di Old Possum’s book of pratical cats di T.S. Eliot.

In The ad-dressing of cats (Come rivolgerci a un gatto) Eliot affronta l’annoso problema di come interpellare un gatto per non destare in lui il minimo sentimento di offesa, perché i gatti non sono differenti dagli umani con cui si degnano di convivere:

“Ora avete imparato abbastanza per capire che un Gatto non è affatto differente né da voi né da me né dall’altra gente” e ribatte che i gatti sono proprio come gli umani, saggi, pazzi, buoni o maligni, tanto che ognuno di loro può essere messo in lirica, descritto in versi che lo rappresentino.

Il libro dei gatti tuttofare racchiude un mondo di meraviglie.

Nell’ Ultima resistenza di Sandogàtt si narra di un gatto, rude pirata, che solca il fiume sul suo veliero, vero “terrore del Tamigi”, accompagnato dal suo fido in seconda dal nome Arruffapelo e dal nostromo, un tal Rognasparso. Il suo unico punto debole: la siamese Lady Spremilosso. Un vero gattaccio Sandogàtt che finirà i suoi giorni inghiottito dalle acque, dopo essere stato costretto dal nemico “a camminare in bilico a fil di parapetto”.

In Gattatràc e Gattasfascio si racconta la vicenda di una coppia di gatti famosi, matti e spericolati, trasformisti ed equilibristi che rovesciano, strappano, scippano e fanno sparire abiti e vestiti dai cassetti. Uno stile certo originale nel lavorare in coppia, facendo cadere a terra e con gran frastuono stoviglie e libri e anche un preziosissimo vaso Ming. Ma ci si chiede dappertutto: chi mai dei due avrà commesso simili fatti? “Di certo Gattatràc e Gattafascio, che sono insieme un gatto indefinito”.

Gatti dai nomi improponibili, come Vecchio Deutoronomio, sempre in meditazione, gatto dall’alto ingegno, impegnato com’è nelle faccende di economia domestica, o Brunero, il gatto del mistero, conosciuto anche con il nome di Brunero Zampaproibita, vero capo malavitoso, o Gàssgatt, il gatto di teatro.

di Mariaclara Menenti Savelli

Il mare di tutti

Il mare di tutti.

La marine citizenship e gli oceani come bene comune

Una distesa cobalto che profuma di alghe e sale. Centinaia di bioregioni, migliaia di forme di vita, milioni di comunità umane che dipendono direttamente dalle risorse marine. Si può dire che i mari e gli oceani appartengano a qualcuno? O essi sono bene comune, eredità da custodire e trasferire, ricchezza da proteggere? La marine citizenship, o cittadinanza del mare, indica un modello in cui gli individui sono coinvolti nelle scelte che riguardano la salute degli ambienti marini, rivendicando diritti quali la preservazione degli ecosistemi a beneficio anche delle generazioni future. I “cittadini del mare” si attivano per la sua difesa e compiono scelte consapevoli.

Gli oceani sono un complesso “unico e continuo”. Essi occupano circa il 70% della superficie terrestre.

Obiettivi comuni

Tra le sfide indicate dai documenti ufficiali del decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile 2020-2030 (UN), emergono chiari diversi indirizzi. Innanzitutto, vi è l’aspirazione a cambiare radicalmente la nostra relazione con il mondo marino. Comprendere e affrontare le minacce climatiche, proteggere e ripristinare la biodiversità, rovesciare i modelli economici di sfruttamento. Si tratta di obiettivi nobili e alla nostra portata, purché si lavori sull’allargamento della partecipazione attiva. E mai come prima d’ora questo desiderio è stato tanto diffuso e radicato.

Acqua e vita. Due elementi strettamente connessi

Minacciati dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento ambientale, questi fragili ecosistemi sono tra i più soggetti a speculazioni, sfruttamenti e abusi. In essi sono ancora più evidenti i meccanismi di interconnessione che regolano la vita sul pianeta. I mari sono patrimonio del pianeta e delle comunità, umane e non umane, che da essi traggono nutrimento per la vita. La relazione con il mare è stata inoltre fondamentale per lo sviluppo di innumerevoli culture nel mondo.

 

Oltre 250 milioni di persone nel mondo dipendono direttamente dagli ecosistemi marini per il soddisfacimento delle proprie necessità di base

Tuttavia, quando si parla di strategie di gestione dei mari, difficilmente riusciamo a configurare una partecipazione diretta alle decisioni che le riguardano. Ci preoccupiamo delle coste, delle spiagge, a volte dei primi tratti del fondale. Ma l’esperienza dei cittadini è ancora lontana dalle discussioni macro sulla salute e sulla tutela del patrimonio blu. In questo, occorre chiedere a gran voce un cambiamento politico.

Diritti e doveri

Secondo una recente ricerca svolta dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, la “cittadinanza del mare”, ovvero la possibilità di partecipare consapevolmente alle decisioni e agli eventi trasformativi che riguardano mari e oceani, è un diritto da reclamare, a tutela del nostro benessere e di quello delle generazioni future. Le ricerche su questo tema si sono finora focalizzate sulla partecipazione sporadica e la responsabilità individuale, come singoli attivisti o associazioni che si occupano di promuovere stili di vita sostenibili, allontanando, ad esempio, le persone dal consumo di plastica monouso o ripulendo le spiagge. Ma la marine citizenship può diventare molto di più.

Gli effetti dell’inquinamento da plastica e il sovrasfruttamento legato alla pesca stanno mutando profondamente gli equilibri marini. Cambiare rotta dipende dalle nostre scelte di vita, come singoli e come comunità

“la cittadinanza marina è più importante del cambiamento individuale. […] l’accesso alle decisioni ambientali, che oggi è mediato dagli enti, non consente agli individui di fornire un contributo diretto. L’influenza dei cittadini sulle discussioni che riguardano il futuro degli oceani è ancora minima.” – afferma Pamela Buchan dell’Università di Exeter, vincitrice del Celebrating Impact Prize 2022 dell’Economic and Social Research Council (ESRC).

I problemi marini sono legati anche alle nostre scelte individuali: alimentazione, stili di vita e consumi producono un forte impatto. Questi comportamenti divengono poi modelli. Propagandosi all’interno delle società, “disegnano” il nostro rapporto con il mare.

In questo senso, le mobilitazioni a favore dell’ambiente di questi ultimi anni e il desiderio di attivarsi concretamente per la difesa dei nostri territori, sono un primo segno di concezioni nuove del nostro vivere con responsabilità la natura di cui siamo parte. Di fronte alla natura, possediamo diritti e doveri. Tuttavia, occorre spingere perché il cambiamento investa anche i livelli più alti: riconoscendo l’emergenza climatica, le cause di inquinamento, i meccanismi che intaccano la rigenerazione delle risorse e le possibili minacce future agli equilibri del mare.

Diffondere la consapevolezza che ogni decisione sulle tematiche ambientali ci riguarda da vicino e che partecipare è un nostro diritto, può ridisegnare il futuro degli oceani

Già una ricerca del 2012 aveva messo in luce come il coinvolgimento dei cittadini nella gestione delle risorse marine promuovesse una maggiore sostenibilità ambientale e una migliore salute dell’intero ecosistema. A giocare un ruolo chiave sarà la nostra capacità di educare alle sfide che abbiamo di fronte, di aumentare il nostro senso di responsabilità e di promuovere scelte politiche diverse, attraverso la partecipazione attiva a favore del bene comune.

 

di Team Kressida

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La foresta Pando, testimone della saggezza della Natura

Lungo le rive del Fish Lake, nella National Forest dello Utah centrale, risiede uno dei più grandi organismi viventi sulla terra: la foresta Pando.

Sopravvissuta per più di 12.000 anni, rischia ora di scomparire per cause, finora, non pienamente identificate. Numerosi studiosi e operatori forestali sono alla ricerca di una soluzione per salvare questo inestimabile patrimonio del pianeta Terra. 

Con un’estensione di 43 ettari, pari allo spazio occupato da circa 60 campi da calcio, composto da 47.000 diramazioni di pioppi tremuli, Pando si sviluppa grazie a un singolare e vasto apparato radicale contenente un unico DNA. 

Le comunità di pioppi sono dette anche “foreste di amianto”, grazie alla loro resistenza al fuoco (essi immagazzinano enormi quantità di acqua che li proteggono in caso di incendi), alle loro radici profonde e ai loro fusti flessibili in grado di sopportare le intemperie, e alla loro capacità di fare fronte a inverni lunghi e rigidi (grazie alla clorofilla contenuta nella corteccia, che consente loro di creare energia pur in assenza di foglie).

Pando nasce in una terra di ghiacciai, terremoti, vulcani e incendi. Un’area caratterizzata da un suolo frastagliato con enormi massi vulcanici, ghiaia e ciottoli, lungo una faglia attiva. Ed è proprio grazie a queste caratteristiche che le sue radici, nei secoli, hanno avuto modo di sviluppare un apparato estremamente esteso attraverso il quale riprodursi. 

In quanto albero maschio, Pando produce solo polline e invia nuovi steli alle radici mettendo in atto un processo definito “pollone”: la clonazione di nuovi esemplari prende vita direttamente dall’apparato radicale. Queste sue peculiarità gli hanno permesso di sopravvivere migliaia di anni ristabilendo continui nuovi equilibri con l’intero ecosistema in cui si trova immerso, condivendolo con animali selvaggi, insetti, uccelli, roditori.

Ungulati nella foresta Pando. Fonte: New York Times

Un’ecosistema a rischio

Da circa 40 anni, Pando sta soffrendo. Molti dei suoi nuovi germogli non riescono a sopravvivere. Almeno tre malattie hanno intaccato la sua struttura: un parassita corticale che ne ha compromesso le cortecce, un agente patogeno che colpisce le parti fuori terra e causa disseccazioni e caduta delle foglie, e un’ulteriore infezione fungina che interessa le radici. Da quel momento, gruppi di studiosi e responsabili di servizi forestali hanno iniziato a vedere il degrado del clone (ovvero di quell’unico patrimonio genetico da cui ha avuto origine e che accomuna ogni singolo pioppo della foresta) e a monitorarne il cambiamento. Sono contemporaneamente state attuate misure di contenimento che lo proteggessero da un aumento fuori controllo di ungulati, quali cervi mulo e alci di montagna.

A differenza dei cervi, mammiferi nativi e quindi da sempre esistiti e cresciuti con Pando, gli alci di montagna sono stati introdotti dall’uomo per la caccia e l’allevamento. Hanno dimostrato di essere altamente adattabili, moltiplicandosi fuori controllo e impattando in modo significativo sull’equilibrio dell’ecosistema. Animali più grandi rispetto ad altre specie, riescono a superare con facilità le recinzioni costruite a tutela della foresta e a mangiare e mordere rami, cortecce, gemme e germogli ad altezze più elevate. Indebolendo, così, la pianta e creando solchi che facilitano l’insorgere di malattie o attirano altri insetti.

Per agevolarne l’osservazione, l’intera superficie è stata suddivisa in 65 aree di monitoraggio forestale, raggruppate in tre diversi regimi.

Una prima area è libera e aperta. Una seconda zona ha una semplice rete di protezione. L’ultima è munita di recinzione e sottoposta a trattamenti attivi quali bruciatura, abbattimento di arbusti e potatura.

I risultati non si sono dimostrati però sufficienti ad arginare il problema. Le recinzioni non hanno protetto la foresta, in quanto i grandi animali hanno trovato comunque il modo di penetrare le barriere e invadere il territorio. C’è stato un leggero incremento di rigenerazione dell’area sottoposta a trattamenti attivi, ma non tale da rallentare in maniera rassicurante il processo di decadenza di Pando. 

Alberi della foresta Pando. Credit: Ray Boren

Che cosa ha generato disequilibrio nella foresta Pando?

Per poter porre rimedio a questa apparentemente inarrestabile decadenza, è fondamentale chiedersi quali siano stati gli elementi che hanno contribuito a rompere l’armonia che aveva garantito la sopravvivenza di Pando per migliaia di anni. 

A partire dal 1939 sono stati sempre più evidenti i segni di intrusione umana in quell’area circoscritta.

È stata costruita un’autostrada che taglia in due la foresta, sono nati campeggi ed edificate nuove abitazioni. Il turismo si è moltiplicato esponenzialmente (si stimano ogni anno circa 300.000 visitatori). Di conseguenza, è stata abolita la caccia e sono stati soppressi gli incendi, al fine di non mettere in pericolo i nuovi abitanti della zona. Ma queste azioni hanno avuto delle ripercussioni sugli eventi naturali di quell’antico ecosistema.

La soppressione degli incendi spontanei ha interrotto un importante processo di difesa della foresta. 

Il fuoco, infatti, è fondamentale per mantenerne l’equilibrio. Restituisce al terreno nutrienti necessari alla crescita e stimola nelle radici gli ormoni che ne attivano l’assimilazione. In questo modo, una volta estinto, la pianta riprende con maggiore forza e vigore la propria attività vitale e riproduttiva. In assenza di fuoco, i pioppi diminuiscono di numero e vengono sostituiti da specie miste di conifere. Un processo che può essere lungo ma inarrestabile, compromettendo irrimediabilmente la natura dell’organismo.

Inoltre, anche il grave problema del surriscaldamento globale, ha inciso sull’indebolimento delle sue ramificazioni. L’innalzamento delle temperature medie ha provocato l’insorgere di periodi sempre più lunghi di siccità e ridotto l’estensione e la profondità del manto nevoso. Di conseguenza, c’è stato un allungamento della stagione di brucatura, andando a ridurre il naturale tempo di riposo degli alberi. Questi fattori causano la mortalità negli esemplari più vecchi e inibiscono la continuità della clonazione della specie.

Pando rappresenta un sistema a sé stante e unico nella sua peculiarità. È un bene inestimabile che testimonia le potenzialità della natura in termini di custodia, rigenerazione e bilanciamento della vita nel corso di millenni.

La sua salvaguardia richiede necessariamente una ridefinizione della gestione della fauna e delle cause che hanno scatenato l’impoverimento e l’inquinamento del suolo e dell’aria. Azioni necessarie al fine di ripristinare quell’equilibrio che gli ha permesso di sopravvivere per 12.000 anni e giungere fino a noi, testimone di secoli di saggezza innata, propria della Natura a cui ognuno di noi appartiene.

 

 

Articolo di Marianna Rozzarin

 

 

 

Testo realizzato nell’ambito del corso Scrivere di Natura

 

Anche le piante “traslocano”

Anche le piante “traslocano”. Per far fronte ai cambiamenti climatici, boschi, giungle e foreste si spostano verso aree ecologicamente migliori, trascinando con sé interi ecosistemi. 

Una ricerca condotta da Jenny McGuire, della School of Biological Sciences di Georgia Tech ha messo in luce i meccanismi coinvolti in questi “viaggi”.

Anche le piante “traslocano”. Molti sistemi vegetali mostrano resilienza nei confronti dei cambiamenti climatici, purché sia stato in precedenza conservato il loro naturale tasso interno di biodiversità.

Come reagiscono le piante alle minacce climatiche?

Come rivelatoci dalle più recenti ricerche della neurobiologia, la vita vegetale possiede una sua intelligenza ed è dotata di capacità comunicative sorprendenti, sulle quali gli scienziati hanno iniziato soltanto da pochi anni a farsi un’idea.

Le piante sono “problem solver” d’eccezione e queste capacità si rivelano fondamentali di fronte alle minacce ambientali, tra cui l’inquinamento e i repentini cambi di temperatura. 

 

Empatia, solidarietà, intelligenza: sono solo alcune delle caratteristiche in precedenza ritenute solo “umane” che si riscontrano nella vita vegetale (oltre che in quella animale).

Rifugi climatici

Il team interdisciplinare di Jenny McGuire ha analizzato il comportamento passato di interi sistemi vegetali di fronte a eventi distruttivi e massicce variazioni climatiche, in aree molto diverse tra loro, dalla Cina al Texas, fino alla Norvegia. I risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) e hanno dimostrato come le connessioni tra membri diversi di uno stesso ecosistema (non solo diverse specie di piante ma anche gli animali che in quell’habitat vivono e sopravvivono) sia responsabile dell’elaborazione di complesse strategie di difesa e persino di interi “traslochi” verso terre dalle condizioni più favorevoli: veri e propri rifugi climatici, dove sebbene le condizioni siano diverse rispetto all’ecosistema originale, gli equilibri si ricreano e la biodiversità complessiva persiste. 

Il ruolo della biodiversità

Alcune specie mostrano una resilienza maggiore e una maggiore inclinazione a spostarsi per ripristinare le proprie naturali capacità di rigenerazione, portando con sé anche le specie animali che da esse dipendono per assolvere alle proprie necessità alimentari e trovare riparo. Ancora una volta, come accaduto in passato con altre analisi svolte sulla resistenza dei coralli alle ondate di calore estremo, è la biodiversità a fungere da protezione attiva nei confronti degli scenari più incerti.

Più un ecosistema è ricco in termini di diversità, più sono complesse le interazioni, più esso possiede risorse per far fronte al cambiamento.

Anche le piante “traslocano”. Vegetali e animali elaborano strategie comuni per far fronte alle minacce ambientali.

Il modo in cui questi meccanismi agiscono e si sviluppano è ancora oggetto di ricerca, ne sappiamo davvero poco e soprattutto non ci è chiaro quale sia il tempo minimo limite all’interno del quale può verificarsi un meccanismo di resilienza simile. In altre parole: se i cambiamenti avvenissero troppo in fretta, rischieremmo di vanificare anche questa possibilità. Per queste ragioni, occorre difendere la biodiversità e se vogliamo aumentare le nostre chance di sopravvivere al disastro ecologico, diventa un imperativo globale. 

Una tematica scientifica, economica, sociale e individuale

Oggi il 75% dei territori terrestri è minacciato dal cambiamento climatico. Una minaccia direttamente connessa ai nostri modelli economici e sociali. Delegare alla scienza la risoluzione dei problemi non basta, occorre che queste tematiche diventino parte della discussione sulla gestione dei territori e delle risorse: 

“L’identificazione di strategie per consentire a piante e animali di navigare in questi scenari in mutamento richiede piani di conservazione che riconoscano e integrino la complessità di questi problemi in modo socialmente esplicito”.

Occorre anche che esse si integrino nella nostra riflessione su stili di vita e consumo: 

“L’impronta umana globale si sta espandendo perché i bisogni si stanno espandendo”. 

 

Per approfondire: J.L. McGuire, A.M. Lawing, S. Díaz e N.C. Stenseth,  The past as a lens for biodiversity conservation on a dynamically changing planet, PNAS, 6 febbraio 2023

 

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Un saluto a Pio D’Emilia

Un saluto a Pio D’Emilia

Ieri ci ha lasciati Pio D’Emilia: un dolore per tutti gli amanti dell’Estremo Oriente, che dai suoi reportage traevano spunti e approfondimenti chiari e competenti per imparare a leggerne le vicende più complesse. 

Pio D’Emilia arriva in Giappone alla fine degli anni ’70, giovane laureato in giurisprudenza, con un borsa di studio dell’Università Keiō. Stregato dal Paese del Sol Levante, decide di restare. Diviene giornalista e negli anni collaborerà con diverse testate, dal Messaggero al Manifesto, dal Fatto Quotidiano a l’Espresso.

Cina e Giappone, in particolare, costituivano le sue aree di interesse principali e proprio su questi due paesi egli ha scritto numerosi libri e realizzato due tra i più interessanti documentari degli ultimi anni: “Fukushima, a nuclear story”, dedicato al disastro nucleare della Fukushima Dai-ichi (Pio è stato tra l’altro tra i pochi giornalisti ad averlo vissuto in diretta sul campo) e “YiDai YiLu la FerroVia della Seta”, sull’articolato programma cinese che mira a collegare commercialmente oriente e occidente.

In Giappone si sentiva a casa. Qui ha fondato l’associazione per la libertà di stampa Jiyūhōdōkyōkai ed è stato consigliere di esponenti del partito democratico giapponese, tra cui Naoto Kan.

Cina e Giappone: due mondi diversi, spesso di difficile interpretazione per il lettore occidentale, che Pio ha saputo raccontare con semplicità ed equilibrio, senza rinunciare a toccarne gli aspetti più controversi, a rovesciarne i luoghi comuni. Fornendoci, così, preziosi strumenti di conoscenza. Ma nel suo lavoro c’è anche un’Asia solitamente trascurata dall’informazione: le numerose crisi coreane, le rivendicazioni del popolo tibetano, le vicende politiche nelle Filippine, le dolorose proteste in Birmania.  

Pio D’Emilia e Tenzin Gyatso in occasione dell’intervista realizzata al Dalai Lama per SkyTG 24 a Milano, il 21 ottobre 2016. Photo credit Tenzin Choejor/OHHDL

Storico corrispondente di Sky TG24, dotato di forza gentile, ha speso oltre trent’anni spesi nella sua amata Asia Orientale, che aveva abbracciato quando l’Estremo Oriente era in buona parte meta esotica per i giornalisti italiani – con l’illustre eccezione di Tiziano Terzani – raccontando paesi di cui sapeva cogliere tutta la bellezza e la complessità, senza rinunciare a indagarne le contraddizioni.

Antifascista – e ci teneva a ribadirlo spesso – critico contro le guerre e i meccanismi nocivi del potere, esperto yamatologo e sensibile alle tematiche ambientali, ha scritto e affermato parole profonde contro il nucleare.

Pio D’Emilia durante la campagna Save Katoku, mirata a proteggere la spiaggia di Katoku (riserva marina incontaminata nel distretto di Ōshima in Giappone e santuario marino), dallo sfruttamento commerciale. Credit: informazione.it

Nel 2017 ha ricevuto il prestigioso premio CerviAmbiente, che fu di scienziati del calibro di Konrad Lorenz e Jacques Yves Cousteau. Un uomo coraggioso, che sapeva spingersi alla ricerca della verità oltre le apparenze, anche a costo di incontrare il pericolo, l’ignoto.

Locandina del documentario “Fukushima, a Nuclear Story” realizzato con Christine Reinhold e Matteo Gagliardi e uscito nel 2015.

Nonostante i problemi di salute non ha mai smesso di progettare, di sognare, di voler raccontare. Celebre anche l’esperimento che lo aveva portato a studiare su di sé gli effetti del passaggio a un’alimentazione sana, misurando scientificamente i progressi, per arrivare a dimostrare che siamo ciò che mangiamo (da questa esperienza è nato il documentario “Mini Size Me”), interrogandosi anche sulle conseguenze etiche delle nostre scelte alimentari. 

Pio D’Emilia. Credit: Corriere delle Alpi

La sua voce profonda e pacata, eppure così incisiva, ci mancherà. Buon viaggio, Pio.

Il silenzio olfattivo

Il silenzio olfattivo: storia della deodorizzazione

 

I sensi non sono persone: ciascun senso è un polipaio di relazioni stabilite.
(Carlo Emilio Gadda)

 

Il silenzio olfattivo mette a tacere un senso tra i più importanti, responsabile delle funzioni di esplorazione, ricerca e selezione all’interno del mondo

 

A partire dalla fine del 1700, gli uomini occidentali smisero gradualmente di tollerare la vicinanza dei cattivi odori e della sporcizia delle città, visti come vizi capitali.

Iniziarono, perciò, ad apprezzare e a riscoprire i profumi che la natura incontaminata poteva offrire. Comparve in tutta Europa una nuova sensibilità, che spinse le classi più abbienti a fuggire dalle “emanazioni sociali” delle città ammalate e a cercare nei boschi e nelle montagne la purezza del respiro che, come dice Corbin, “rivelò l’armonia del loro essere nel mondo”.

L’attenzione al recupero degli odori naturali, però, finì per perdersi a favore di una lotta contro gli odori “cattivi”, fagocitando ogni sforzo olfattivo.

Nel febbraio del 1790 Noël  Hallé ordinò una prima indagine olfattiva sulle due rive della Senna. Da medico, distinse l’odore dei “poveri buoni” da quello dei “poveri irrecuperabili.” Iniziò, quindi,  il processo di deodorizzazione di Parigi, che coinvolse in poco tempo tutte le capitali europee.

Come scrive Lucien Febvre nella sua opera “La Francia moderna. Essenza di filosofia storica dal 1500 al 1640, 1961”: «In quegli anni le ricerche sull’aria da parte della chimica e dalla medicina infezionista, comporteranno un atteggiamento di inquietudine nei confronti degli odori, avvertiti come anticipatori di una potenziale minaccia». Un processo iniziato durante il terribile flagello della peste, che colpì l’Europa a partire dal 1300.

Il sorgere del concetto di individuo, il trionfo della visione borghese di appropriazione del mondo, la lotta di classe in cui il discrimine è tra coloro che “sanno di buono” e coloro che “sanno di sudore”, il rapporto tra anima e corpo, verranno tradotti in termini di metafora medica e olfattiva.

Il Risanamento rappresentò il grande piano di deodorizzazione di Parigi (1852-1869), realizzato dal barone-urbanista Haussmann su commissione di Napoleone III. La frattura fra le due linee di cinta (quella più interna dei Fermiers Généraux e quella più esterna di Thiers) definirà il nuovo confine fra la metropoli ingrandita e le Banlieue, oltre al perimetro del Dipartimento della Senna.

«La presenza alle porte di Parigi, ai confini con i quartieri più popolari, di emanazioni ripugnanti, costituisce una duplice minaccia: quella della salubrità e quella morale, che mettono in pericolo l’intera società.» (L. Roux, Sull’insalubrità e la minaccia alle istituzioni, 1841).

Il silenzio olfattivo e la deodorizzazione hanno risvolti sociali e culturali

E in Italia? Lo sventramento di Napoli rappresentò la risposta italiana al problema del risanamento olfattivo.

“Bisogna sventrare Napoli” fu lo slogan che supportò la richiesta del sindaco Nicola Amore della Legge speciale per Napoli, approvata dal governo nel 1885. Lo slogan ripeteva l’esclamazione del presidente del Consiglio dei ministri, Agostino Depretis, venuto a Napoli assieme a re Umberto I nell’anno del colera. L’espressione fu ripresa dal romanzo di Matilde Serao: “Il ventre di Napoli”.

Senza saperlo, “la profumazione del mondo”, regolata da decreti che contenevano norme severe e dettagliate contro il fetore sociale, porterà, da allora in poi, verso l’eccesso della deodorizzazione a tutti i costi, investendo anche odori che nulla hanno a che vedere con il mefite: il mondo indosserà l’inquietante volto del non-odore o “silenzio olfattivo”. Fino ad oggi.

 

Il silenzio olfattivo, “coprendo” e soffocando a ogni costo gli odori, ha provocato un’incapacità culturale di distinguere il naturale dall’artificiale

 

Perché profumiamo le nostre case con essenze chimiche che ci regalano “un senso di pulizia” ma che nulla hanno a che fare con l’igiene dei nostri ambienti? Lo facciamo, persino, quando consapevoli di inquinare. Abbiamo sviluppato una forte quanto fallace associazione tra odori artificiali (che spesso dichiarano di richiamare i profumi della natura) e una “virtù” di pulizia.

Il recupero degli odori e della nostra capacità di distinguere il naturale dall’artificiale è la sfida odierna e un obiettivo da perseguire. Per ritrovare non solo il nostro olfatto ma anche la cultura del mondo naturale che ci circonda.

L’olfatto è il senso della scoperta profonda.

«L’odorato, come il gusto, stabiliscono rapporti di fusione con il mondo. L’odore permette di avvertire non soltanto le sostanze ma anche le situazioni, i climi, i vissuti esistenziali. Coglie dati estremamente tenui, prerazionali: quelli dell’indicibile che si sprigiona da un essere, da una situazione, da un luogo.», Hubertus Tellenbach, Gusto e atmosfera, 1983

Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura

Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura.

Aine E. Nakamura è una cantante, compositrice e artista performativa vincitrice quest’anno della seconda edizione di Biennale College Teatro, l’iniziativa che premia progetti di performance “site specific”. Nata a Bellevue, città della contea di King nello Stato di Washington, si è formata tra il Giappone, gli Stati Uniti e la Germania. Laureata in relazioni internazionali all’Università Jochi di Tokyo, ha poi studiato musica jazz e contemporanea negli States e si è laureata in Arte performativa alla New York University.

Al centro delle sue opere vi è il concetto di umanità. Riconoscere noi nell’altro, abbattere ogni frontiera.

Nei miei lavori perseguo sensibilità e spiritualità. Sono la canzone e sono la cantante.

Il punto di partenza: l’animismo. La natura che è divinità in ogni sua espressione, fonte di pace. Storie e immagini, oralità e poesia del corpo.

La gentilezza come Via: Aine E.Nakamura.
Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura. La gentilezza come Via. Credit: Aine E.Nakamura

È impossibile non vedere la delicatezza del Giappone in Aine E.Nakamura. Ma non fermiamoci alla superficie: sotto c’è molto di più. Aine E. Nakamura è giapponese e statunitense. Ma queste due coordinate si dissolvono nel messaggio di comunione con il mondo intero, di cui si fa portavoce. Oltre l’orientalismo, ci sono emozioni universali.

C’è la gentilezza, rivoluzionaria misura contro un modo maleducato, rude, indifferente, scostante e freddo. La delicatezza dell’animo che fluendo scalfisce anche la roccia più dura. La gentilezza si trasforma in resilienza, in strumento di riscatto, di cambiamento e di gioia. Contro ogni sopruso, ogni razzismo. L’Arte, come la natura, è un luogo d’amore in cui ritrovarsi.

“Sono un essere che occupa uno spazio artistico e intellettuale, che non può essere rinchiuso in nessuna cornice disciplinare o culturale”. 

E questo spazio artistico e intellettuale è ricco di pace, consapevolezza e meraviglia. 

L’Arte come speranza e crescita. Prendersi cura del proprio sé interiore, rivendicare il tempo, lo spazio, viverli e occuparli. Respirare. Connettersi con un’energia interiore sopita, ascoltando la natura intorno a sé. Percepire e percepirsi.

La gentilezza come Via: Aine E.Nakamura.
Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura. Credit: Same Pulse

Un luogo senza frontiere, muri, gerarchie, discriminazioni. La poesia del prendersi cura. 

Interiorità, dolore, malattia, sogno sono ingredienti di un’arte performativa in evoluzione, che è specchio di un’anima che non si arrende alla bruttezza ma che celebra un rapporto con la natura e con le persone fatto di purezza, rispetto e fiducia.

Domande soffici come neve, che divengono messaggi contro la violenza: come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura è poetica della pace e della vulnerabilità, che sfida il modello di potere basato sull’esercizio della forza.

La gentilezza come Via: Aine E.Nakamura.
Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura. “Sotto un fiore senza nome”. Credit: Aine E.Nakamura

Arte come strumento di catarsi e (auto)guarigione. È quasi un’iniziazione misterica al supremo atto di amarsi, riconoscendo ciò che di divino è nascosto in noi e intorno a noi. Partendo dal dolore, per iniziare a conoscersi e comprendersi. Guarire dall’odio e abbracciare la pace. La via è tracciata: un percorso di ascolto cosmico, un cerchio che si chiude sulla fragilità dell’esistenza e sull’esigenza di stringere relazioni e connessioni positive, ricche di significato. 

“Piantiamo semi nella primavera delle montagne”.

Siamo solo noi a poter scegliere di nutrire l’amore. Spetta a ognuno di noi. 

Che cos’è la giustizia ambientale?

Che cos’è la giustizia ambientale? Trattiamo oggi uno degli argomenti più importanti del nuovo paradigma etico.

La giustizia ambientale è innanzitutto un movimento sociale che si preoccupa di comprendere il ruolo che lo sfruttamento delle risorse naturali può giocare nell’aumento o nella riduzione delle disparità sociali e di proporre ove necessario azioni e contromisure. Ma anche di indagare come l’ambiente possa, invece, divenire strumento di equità e giustizia. Il concetto così come lo conosciamo nasce negli Stati Uniti, negli anni ’80 del secolo scorso. Nell’epoca del boom economico emerge una concezione complessa della relazione tra ambiente e essere umano, che ingloba aspetti economici, sociali e di ecologia.

L’ambientalismo occidentale aveva, infatti, mosso i suoi primi passi all’interno di un contesto privilegiato: quello delle colte e relativamente benestanti comunità statunitensi ed europee.

Le prime associazioni per la tutela della natura, nate alle fine del 1800, si ponevano come obiettivo principale la salvaguardia di ambienti selvaggi e il più possibile incontaminati.

Questi costituivano fonte di ispirazioni per le arti, rifugio da una vita industrializzata già allora troppo invadente, diletto per lo spirito e il corpo. Il movimento ambientalista si occupava, dunque, di preservare la natura limitandone l’accesso all’uomo, “chiudendola” nella gabbia d’oro di riserve e parchi nazionali.

A partire dagli anni ’60 del ‘900 lo scenario si è fatto più complesso. E il pensiero molto più consapevole dei legami tra ambiente e società, tra sfruttamento e ingiustizia, tra modelli economici e inquinamento. Inoltre, le comunità indigene hanno gradualmente conquistato un peso e una rilevanza maggiore anche all’interno delle grandi organizzazioni internazionali.

La giustizia ambientale non può realizzarsi senza consapevolezza dei legami tra noi, la natura e gli altri. Essa si manifesta lontano dalle logiche di sfruttamento e profitto.

Perché parlare di giustizia ambientale?

L’ecologia non può più limitarsi a guardare alla tutela di spazi dedicati alla natura. Pensare di costruire oasi felici di biodiversità per arginare il disastro ambientale è un piano incompleto. Servono modelli diversi, che prevedano maggiore integrazione tra comunità umane e natura e visioni a lungo termine. Ogni volta che un’area selvaggia viene “invasa dallo sviluppo”, infatti, gli habitat prima a disposizione di molte specie vengono compromessi o distrutti. Ogni volta che un’innovazione produce un aumento della domanda di materie prime la cui estrazione, lavorazione o smaltimento produce un impatto (come nel caso delle miniere di cobalto, rame e coltan in Congo, indispensabili per la produzione di dispositivi elettronici) meccanismi complessi si mettono in moto. Con effetti a catena per l’ambiente, ma anche per il tessuto sociale (guerre) – che non riusciamo neppure a prevedere. E ripercussioni etiche che dovremmo affrontare.

La distruzione degli ecosistemi può in particolare impattare il diritto alla salute e allo sviluppo delle generazioni presenti e future.

L’inquinamento da plastica colpisce in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili e le donne, che risentono maggiormente degli squilibri ormonali causati dalle microplastiche.

In questa ottica le comunità indigene sono diventate modelli di riferimento per la loro capacità di sopravvivere e di far fronte ai loro bisogni essenziali e persino di prosperare, senza tuttavia intaccare la qualità degli ambienti.

L’attenzione nei confronti di questi saperi e la ricerca di una valorizzazione di questo bagaglio culturale prezioso per l’umanità, al fine di diffondere sistemi virtuosi, si scontra però con gli interessi rapaci di big player mondiali e spesso degli stessi governi, che “svendono” i territori e le foreste per trarne profitti. Accade così che l’Amazzonia divenga un pascolo per le grandi catene di fast food, i boschi della popolazione Sami si trasformino in autostrade, le foreste pluviali degli aborigeni australiani si mutino in stalle, allevamenti e miniere.

In virtù della loro esperienza e delle tradizioni tramandate di generazione in generazione, i popoli indigeni sono spesso i migliori conservazionisti. Poiché la loro vicinanza alla natura è maggiore e non filtrata, la consapevolezza dell’impatto che ogni azione ha sull’ambiente è maggiore.

La giustizia ambientale è un concetto sfaccettato, che abbraccia le modalità con cui le popolazioni si rapportano all’ambiente, i benefici che da esso traggono e come questa ricchezza viene gestita e ridistribuita.

Ma anche il modo in cui i modelli economici impattano sugli equilibri naturali, distruggendo la possibilità, per le generazioni future, di fruire di servizi ecosistemici puliti e sicuri. O anche solo di godere della bellezza della natura.

Poter godere di un ambiente sano e di una natura pulita, le cui forze rigenerative siano intatte e che produca servizi ecosistemici essenziali accessibili (cibo, acqua, risorse) – nel rispetto dei suoi tempi, è parte del diritto alla salute, un diritto inalienabile di ogni essere umano.

I costi dello sfruttamento e del degrado ambientale – nonché dei cambiamenti climatici – ricadono soprattutto sulle popolazioni più povere. Innescando fenomeni migratori, impattando sulla possibilità di costruire una vita sui propri territori e di agire per invertire la tendenza. Provocando spesso alienazione e frustrazione che si trascinano per intere generazioni.

Eppure la sofferenza di questi popoli che per primi si trovano a dover affrontare le conseguenze di inquinamento e cambiamenti climatici ci riguarda da vicino. Non solo perché se non cambiamo paradigma risentiremo presto anche noi gli effetti di questo uragano. Ma anche perché per la natura non esistono confini.

I problemi ambientali non possono essere arginati da muri e frontiere. 

la cura delle natura deve occupare un ruolo centrale nella cultura e nello stile di vita.

La salute del pianeta riguarda tutti. 

 

 

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Ecologia: due prospettive da conoscere

Ecologia: due prospettive da conoscere. L’ecologia è una scienza i cui obiettivi e indirizzi si sono grandemente evoluti e modificati nel tempo, passando da un approccio antropocentrico alla valorizzazione dei sistemi complessi che mettono in relazione tutti gli esseri viventi. Due prospettive in particolare hanno giocato un ruolo chiave in questo cambio di paradigma: la teoria di Gaia e la filosofia della Deep Ecology (in italiano Ecologia Profonda). Vediamole insieme.

  • Teoria di Gaia

Non è un caso che questa teoria riprenda il nome dalla Dea della primordialità dell’antica mitologia greca. La teoria di Gaia, infatti, sostiene l’esistenza di equilibri basati su un “metabolismo della vita”, capace di regolare e autoregolarsi.

Ecologia: due prospettive da conoscere. Secondo la teoria di Gaia la biosfera sarebbe regolata da un unico super organismo capace di autoregolarsi, modificando le condizioni ambientali in base alle necessità. Con il fine ultimo di sostenere la vita sul pianeta.

Questa rete di interazioni equilibratrici si sarebbe sviluppata in un aumento costante di complessità e di valore nell’arco di diverse ere. La vita e il pianeta terra si sarebbero dunque evoluti insieme.

In effetti, è l’interazione tra miliardi di microbi e esseri viventi ciò che consente il mantenimento dell’atmosfera così come la conosciamo. Le sue stesse regole sono frutto di milioni di anni di evoluzione, stravolgimenti geologici, aggiustamenti necessari nella chimica dell’atmosfera. Questi cambiamenti sono strettamente legati alle popolazioni di viventi che abitano la terra, al loro numero e alle loro dinamiche di sopravvivenza.

I batteri, in particolare, costituirebbero una garanzia di equilibrio a lungo termine: organismi dalla popolazione quasi illimitata, in grado di modificarsi rapidamente e di “aggiustare” situazioni apparentemente compromesse (persino in condizioni di inquinamento chimico o nucleare).

Ecologia: due prospettive da conoscere. Il suolo è una risorsa preziosa e non rinnovabile proprio in virtù dei complessi meccanismi che concorrono alla sua formazione. In questo processo, i batteri svolgono un ruolo fondamentale. La nostra catena alimentare, senza di loro, sarebbe irrimediabilmente compromessa.

I batteri sono organismi che, non dimentichiamolo, vivono e prosperano ovunque. Sono responsabili di meccanismi indispensabili per la nostra salute e per la salute del cibo che ingeriamo. Trasferiscono informazioni genetiche svolgendo un ruolo fondamentale nell’evoluzione. Riciclano i rifiuti di altri esseri viventi. Insomma, regolano i cicli globali da cui dipendono tutte le altre forme di vita, animale e vegetale.

La teoria di Gaia fu elaborata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979 ed è stata, da allora, ampiamente dibattuta e criticata.

Ora sembra trovare conferma nei più recenti studi sull’ecologia dei sistemi e, ancor di più, nelle ricerche sul ruolo del microbioma.

I batteri: alleati indispensabili anche per la salute umana.

Gli studi sul microbioma dimostrano che i batteri, in particolare quelli presenti nel nostro intestino, sulla superficie della nostra pelle e sulle mucose, influenzano non solo la nostra salute, aiutandoci a prevenire tumori e infezioni, ma persino la nostra psiche. In che modo? Modulando il sistema ormonale (alcuni batteri emettono “molecole segnale”, al pari di neurotrasmettitori e ormoni) e influenzando umore e pensieri. Essi svolgono, dunque, un ruolo regolatore ben più ampio di quanto in precedenza immaginato.

In quest’ottica, la Teoria di Gaia ha trovato nuova linfa vitale.

  • Ecologia profonda

L’ecologia profonda (in inglese deep ecology) è una filosofia che mette al centro la visione ecocentrica, facendo dell’etica ambientale il suo focus fondamentale. In netto contrasto, quindi, con una visione antropocentrica ed egocentrica, che ha sempre messo al centro i bisogni umani rispetto a quelli di altre specie e ha promosso un’idea di progresso basata sul dominio, anche a costo di compromettere la salute degli ecosistemi.

Il termine fu coniato dal filosofo norvegese Arne Næss nel 1973.

Ecologia: due prospettive da conoscere. La Deep Ecology si basa su una visione ecocentrica, rimette al centro delle discussioni sull’ambiente la natura stessa, unendo spiritualità, attivismo, promozione di obiettivi basati sulla qualità della vita e non sul PIL, con una forte critica al modello economico capitalista.

La deep ecology sostiene che la vita (umana e non-umana) abbia di per sé un valore intrinseco.

La biodiversità merita di essere difesa al di là delle logiche di convenienza e sfruttamento. Di fatto, l’attuale interferenza delle attività umane con il resto del mondo naturale si è spinta troppo in là.

Una transizione ecologica reale delle nostre economie dovrebbe perciò puntare su meccanismi virtuosi di decrescita, in netto contrasto con la concezione capitalista basata su bisogni indotti, progresso a tutti i costi e consumismo.

Poiché in natura tutto è collegato, non esiste possibilità di uno sviluppo infinito, squilibrato e incontrollato delle economie umane, se non a costo di una compromissione seria del sistema e delle nostre possibilità di sopravvivenza. Gli uomini, insomma, non hanno alcun diritto di impoverire la ricchezza del pianeta, al solo scopo di soddisfare i propri egoismi.

L’ecologia profonda domanda un ritorno ai bisogni reali dell’umanità: amore e affetti, senso di comunità, creazione artistica e ricerca spirituale. Spostando l’attenzione dai beni materiali alle relazioni.

Ecologia: due prospettive da conoscere. Per l’Ecologia Profonda la felicità è da ricercarsi al di fuori dagli schemi di competizione, sfruttamento, consumo e profitto.

La Deep Ecology promuove il minimalismo e una riduzione reale (lontana, perciò, dalla propaganda greenwashing dalla quale siamo invasi) del nostro impatto sul pianeta. Ci invita, insomma, a tornare a focalizzarci su un’autentica sostenibilità e sul benessere psicologico e sociale degli individui e delle comunità.

 

 

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Anna Stella Dolcetti si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School, specializzandosi in Green Marketing all’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali. Laureata in Lingue e Culture Orientali, è insegnante di Yoga certificata Yoga Alliance RYT-500

Che cos’è il Green Marketing?

Che cos’è il Green Marketing?

In molti lo confondono con il Greenwashing. Ignorando, invece, che il Green Marketing nasce grazie alle pressioni dei movimenti ambientalisti degli anni 70. Esso presenta caratteristiche e strumenti ben diversi da quelli utilizzati dal suo “gemello cattivo” greenwashing. Facciamo chiarezza. 

Dopo aver visto l’ultima campagna di una nota associazione ambientalista fare riferimento al Marketing Green come sinonimo di Greenwashing ho creduto necessario tornare sull’argomento. L’utilizzo improprio del termine è paradossale se si pensa che nella storia del Green Marketing figurano grandi nomi dell’ambientalismo mondiale, come Gro Harlem Brundtland (che oltretutto fu a lungo impegnata anche sul fronte femminista). Esso nasce, infatti, con la volontà di portare il dibattito etico all’interno delle strutture economiche capitaliste, fino ad allora votate soltanto alla crescita ad ogni costo. Ne avevo già parlato in un mio articolo del 2019, che trovate qui. 

Negli ultimi decenni il termine “Green Marketing” è stato spesso utilizzato in modo improprio. Un uso che ha contribuito a sminuire gli sforzi di chi ha fatto dell’impegno verso la sostenibilità una missione. Riappropriamoci, allora, del corretto utilizzo del termine e dei valori connessi alla fondazione di questa disciplina. Recuperando tutto quanto di buono e utile per il pianeta possiamo trarne. 

Che cos’è il Green Marketing? 

Green Marketing è un termine ombrello che abbraccia strategie e strumenti volti al design e alla promozione di prodotti sostenibili, sia a livello sociale che ambientale. La nascita di questa disciplina va a braccetto con l’avvento del concetto di “sviluppo sostenibile”. 

Green Marketing: John Grant è tra i maggiori esponenti della disciplina.

Che cos’è il Greenwashing?

Con Greenwashing si intende un insieme di tecniche volte a ingannare il consumatore, facendo percepire un determinato prodotto o servizio come sostenibile (o più sostenibile di quanto esso sia realmente). Propagandando, cioè, falsi vantaggi per la salute del pianeta, delle persone o delle società. In Italia per Green Washing un’azienda può finire in tribunale e essere condannata per pubblicità ingannevole (come accaduto a Gorizia, lo scorso Febbraio). 

In che cosa Green Marketing e Greenwashing sono diversi?

Il Green Marketing è una scienza sociale che ha come obiettivo quello di generare sostenibilità, conciliando gli obiettivi di crescita con il benessere delle persone e del pianeta. Se il Greenwashing si pone come obiettivo il mettere in piedi un inganno (e l’attenzione del green washer è dunque tutta puntata sul manipolare la mente del consumatore), il green marketer concentra invece i suoi sforzi virtuosi sulla creazione di prodotti e servizi il cui impatto sia ridotto o nullo, studiando a fondo materiali, strategie, opzioni e processi “verdi”, che facciano bene a chi consuma e a chi produce (curandosi, ad esempio, dei diritti dei lavoratori e delle comunità di produttori, riducendo gli sprechi, eliminando le materie plastiche dai packaging, mettendo in piedi strategie circolari).

Nel Green Marketing il design etico del prodotto, che deve essere sostenibile e a basso impatto lungo tutto il suo ciclo di vita, è punto di partenza e condizione imprescindibile. La comunicazione arriva dopo.

Nel Green Marketing il prodotto/servizio è “green by design”, ovvero verde per definizione – o verde o nullo. Intorno al prodotto o al servizio, che deve essere sostenibile, pulito, trasparente e dall’impatto positivo, ruotano tutte le attenzioni del marketer etico. 

A cosa serve il Green Marketing?

L’attenzione nei confronti delle tematiche legate alla sostenibilità è cresciuta negli ultimi decenni. La consapevolezza sull’impatto dei propri acquisti (unita alle eco-ansie) spinge sempre più persone a privilegiare prodotti “eco”, “green” o “naturali”.

Purtroppo, a servirsi di strategie di marketing pervasive sono soprattutto i grandi gruppi multinazionali. Il Greenwashing (ovvero strategie di Green Marketing “snaturate” in quanto prive dei fondamentali presupposti etici), è utilizzato come strumento per aumentare i profitti. E ottiene spesso grande successo nel confondere il consumatore.

Non a caso un recente sondaggio condotto nel Regno Unito, che ha coinvolto oltre mille persone, ha prodotto un curioso risultato: secondo il campione le aziende di retail più sostenibili sarebbero Amazon, H&M e Primark. Lasciamo al lettore le dovute conclusioni (qui come esempio un approfondimento del Guardian sull’impatto sociale e ambientale di Amazon nel 2022). Il dato, comunque, almeno sulla cecità dei consumatori, sembra parlare chiaro.

Tutto questo è avvenuto anche a causa di una “demonizzazione” del marketing in sé e per sé. Dobbiamo riappropriarcene come strumento di design e di comunicazione efficace.

È molto importante che i piccoli produttori, imprenditori e associazioni del mondo green sappiano come comunicare al meglio il proprio valore. Il Green Marketing si rivolge proprio a loro. 

Il marketing etico valorizza le persone e la natura dietro i prodotti.

Conoscere il Green Marketing, infine, come consumatori, ci aiuta a riconoscere i prodotti davvero etici e sostenibili, e ad arginare così il fenomeno del Green Washing, evitando di cadere in trappola.

Quali sono alcuni esempi di Green Marketing? 

I prodotti e le campagne delle imprese del biologico e del biodinamico, il design del merchandising delle associazioni ambientaliste e le loro campagne di raccolta fondi. I prodotti e le campagne dei consorzi equosolidali. La strategia social del turismo responsabile e solidale. Sono tutti esempi di messa a terra di strategie di Green Marketing. 

Le campagne del Green Marketing non si limitano a presentare il prodotto come sostenibile, bensì forniscono garanzie di conformità a standard di sostenibilità riconosciuti e affidabili.

Agiscono inoltre come vere e proprie campagne di  sensibilizzazione per il consumatore, che viene invitato a informarsi e a comprendere maggiormente cosa si celi dietro ogni acquisto, aiutandolo a evitare di cadere nei tranelli del Green Washing.

Un esempio di Green Marketing: Campagna pubblicitaria dei negozi NaturaSì.

Nel Green Marketing l’etica è il fondamento dell’azione e consumatore e produttore sono vicini, condividono gli stessi valori, che portano avanti producendo o acquistando prodotti e servizi sicuri e trasparenti. 

Non solo tutela dell’ambiente: anche i diritti dei lavoratori sono una tematica centrale nella campagne Green. Un prodotto è sano quando rispetta tutti.

Il Green Marketing è comune anche nelle medie e piccole imprese, dove l’artigianalità del prodotto e l’attenzione alla tutela dei territori e delle risorse è più forte. 

Come riconoscere il Green Washing?

La maggior parte delle campagne di prodotti “verdi” portate avanti da grandi gruppi multinazionali ricade nel greenwashing. Questo perché l’impatto di alcuni grandi gruppi sull’ambiente e sulle società è talmente grande da non poter essere compensato da piccole azioni, che oltre a essere gocce nel mare, vengono utilizzate come “scuse” per “vestirsi” di sostenibilità. I casi più eclatanti riguardano le aziende coinvolte nell’inquinamento da plastica (ad esempio i produttori di acqua o bibite in bottiglia).

Campagna di Greenpeace contro Coca Cola.

Anche i grandi gruppi di fast fashion ricorrono al greenwashing. Pur rappresentando la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella del petrolio e la seconda industria per impiego di schiavitù infantile e femminile nella produzione, si servono spesso di “capsule collection”, ovvero collezioni in edizione limitata, prodotte in cotone biologico o in plastica riciclata. Le campagne pubblicitarie dedicate sono spesso un trionfo di multiculturalità, empowerment femminile e bambini che giocano spensierati tra i prati. Il ritorno di immagine è alto, almeno nel consumatore poco attento. La spesa, per la grande azienda fashion, è minima. E può continuare a inquinare in pace. 

Il Greenwashing (e i suoi fratelli Pinkwashing e Socialwashing) spesso adottano strategie sottili e subdole, che rendono difficile anche al consumatore esperto e scaltro accorgersi dell’inganno.

Accade, ad esempio, quando i grandi gruppi progettano e mettono in vendita nuovi brand. Un processo che vede la fondazione di aziende ad hoc, senza che l’affiliazione alla multinazionale madre sia chiaramente esplicitata. E così, il principale produttore di plastica mondiale può mettersi a vendere succhi di frutta “naturali”, con un nuovo nome e una nuova veste grafica accattivante. L’ignaro consumatore li mette nel carrello, senza sapere che sta finanziando un’azienda che magari, su altri prodotti, boicotta. 

Come puntualizza Matt Palmer di Plastics Rebellion – Gruppo appartenente a XR UK (in questo articolo), “Il greenwashing […] è pericoloso: significa che le persone decidono volontariamente – e inconsapevolmente – di supportare il tuo progetto, nella convinzione errata di fare del bene al pianeta”.

 

Il Greenwashing è una “verniciata di verde”, che sotto la superficie si dimostra ben poco sostenibile.

 

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Anna Stella Dolcetti si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School, specializzandosi in Green Marketing presso l’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali. Laureata in Lingue e Culture Orientali, è insegnante di Yoga certificata Yoga Alliance RYT-500. 

Le Grandi Dimissioni. Alla ricerca di una vita sostenibile

Il tema della sostenibilità investe ogni aspetto della nostra vita. Anche quello lavorativo. Il fenomeno delle Grandi Dimissioni ha portato alla luce quanto la ricerca di una vita rispettosa delle nostre emozioni possa spingerci ad affrontare l’incertezza e condurci lontano.  

“Sostenibile” significa “Che può essere affrontato”.  

Ragionando sul concetto di sostenibilità mi sono imbattuta in articoli, podcast, blog, libri, conferenze che negli ultimi mesi hanno popolato social e rubriche. Ad oggi possiamo attingere a una grande quantità di informazioni e nozioni sul tema della sostenibilità.

Ma cosa si intende per sostenibilità?

“Sostenibile” significa “che può essere affrontato”. – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Stando al vocabolario, sostenibilità significa “La possibilità di essere sopportato, spec. dal punto di vista ecologico e sociale.”


La definizione di sviluppo sostenibile secondo la Commissione delle Nazioni Unite è “lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri”. La sostenibilità è legata al processo di cambiamento, dove lo sfruttamento delle risorse, gli investimenti e l’integrazione tecnologica lavorano assieme per valorizzare non solo il potenziale attuale, ma anche quello futuro. I pilastri sui cui si fonda sono, convenzionalmente, tre: economico, ambientale e sociale. Se interconnessi e adeguatamente comunicanti, possono dar vita a sistemi e società virtuose e rispettose degli ambienti socio-culturali nelle quali sono inserite. 

Oltre le convenzioni, però, ci siamo noi, che abitiamo e viviamo questi contesti socio-culturali con le nostre quotidianità, i nostri desideri, i nostri sogni, facendo del nostro meglio per vivere in “maniera sostenibile”. 

Ognuno di noi agisce con la sua matrice e la sua motivazione personale che lo spinge a differenziare i rifiuti, a scegliere la bicicletta al posto dell’automobile, a chiudere il rubinetto mentre ci si spazzola i denti, a coltivare l’orto condominiale condiviso, a scegliere lo scambio di abiti usati piuttosto che acquistarne di nuovi. Potrei citare tanti esempi virtuosi, facilmente scovabili nel mondo del web. Ma io vorrei uscirne, oggi, e vedere cosa succederebbe se alla parola sostenibilità affiancassimo un quarto pilastro: l’emotività. 

Vivo da due anni in una regione montana del nord Italia perché nel settembre 2020, in piena pandemia, quando iniziavano ad aprirsi primi spiragli di libertà rivelatesi poi essere solo momentanei, ho lasciato tutto quello che avevo costruito in ventotto anni tra le risaie della pianura padana e i navigli milanesi. Col senno di poi, ho scoperto di non essere stata l’unica, ma anzi, che come me stava facendo circa l’85% in più di lavoratori rispetto all’anno precedente la pandemia (fonte: Ministero del Lavoro, Banca d’Italia e ANPAL).

Tutto questo sarebbe diventato un vero e proprio fenomeno, chiamato “le Grandi Dimissioni”.

L’ho fatto perché una spinta dentro di me mi diceva che quella vita non era quella che volevo. Che dovevo cercare altro, o altrove, una vita che mi rendesse serena e in equilibrio. Si è trattato, in verità, di una scelta di pancia, che devo ammettere di aver fatto nel pieno delle mie possibilità di quel momento, nonché nel pieno di tutte le mie paure. Ho pensato “Se non ora, quando?” con tutta la spontaneità, la semplicità (e l’ingenuità) che chi mi conosce sa bene che spesso mi contraddistinguono.

Ho lasciato un lavoro da Art Director in un’agenzia pubblicitaria di Milano, dove avevo un contratto a tempo indeterminato e un’infelicità a tempo illimitato che mi garantivano uno stipendio fisso alla fine del mese.

Le Dimissioni come strumento di libertà: alla ricerca di una vita emotivamente sostenibile. “Avevo un contratto a tempo indeterminato e un’infelicità a tempo illimitato” – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Non sopportavo il peso della contraddizione che in quegli ambienti regna sovrana: si organizzano teambuilding per creare affiatamento tra colleghi ma poi, di contro, non viene persa occasione per fare nascere competizione e gelosie interne. La vita privata sembra non essere importante ma, anzi, completamente ignorabile. Ciò che conta è dimostrare di lavorare sempre di più e sempre meglio.

Ho abbracciato l’incertezza e me ne rendo conto solo adesso, abbandonando quell’illusione di felicità ovattata che ti porta, di contro, la certezza.

Se lo chiedeste ai miei genitori probabilmente non sarebbero d’accordo con me. Tutt’oggi si chiedono come abbia fatto, con uno sguardo nei miei confronti sempre a cavallo tra l’affascinato, l’ammirato e il preoccupato. Ho abbandonato la certezza, per quanto mi riguarda, non solamente dal punto di vista lavorativo e professionale ma anche personale, avendo lanciato alle ortiche solo poche settimane prima il mio matrimonio, già organizzato e fissato. Insomma, nel giro di un paio di mesi la mia vita si è totalmente ribaltata. Se qualche anno fa mi avessero raccontato cosa sarei riuscita a ricostruire e come sarei riuscita a ricostruirmi non ci avrei mai creduto. Qui dove vivo ho trovato una nuova dimensione. Certamente non è quella di un lavoro fisso, ma mi dà l’opportunità di vivere a pieno le mie giornate, libera delle mie decisioni e padrona del mio lavoro da Art Director e illustratrice Freelance.

Vivo finalmente a contatto con la Natura, perché la vicinanza con la terra è molto più sentita. E anche se si sta per due settimane senza uscire per fare trekking, si vive a contatto con l’ambiente, con la montagna, con il lago, con le vigne e gli uliveti.

Qui la pioggia è semplicemente pioggia, non un peso che intensifica il traffico del lunedì mattina. La neve è semplicemente neve, non un imprevisto che sporca le strade. Le persone sono semplicemente persone, e spesso non una fonte di guadagno o un numero seriale del badge di lavoro. 

“Vivo finalmente a contatto con la Natura. Cambia il paradigma, cambia la scala di valori, cambiano gli occhi con cui si guarda il mondo”. – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Con questo non voglio rinnegare quello che è stata la mia “vita precedente” – e la chiamo così volontariamente, perché adesso mi sembra di viverne un’altra totalmente nuova. Vorrei solo scrivere di come ho dovuto, nella mia piccola esperienza, valutare quanto fosse emotivamente sostenibile una scelta piuttosto che un’altra, quando, di contro, l’altra scelta era anche solo restare ferma dove mi trovavo, nella vita che conoscevo e che avevo imparato ad apprezzare con gli anni.

Se il concetto di sostenibilità è strettamente legato al concetto di cambiamento e di sguardo al futuro è facile capire come adattarlo alle nostre vite e come fare dei ragionamenti soggettivi che possano aiutarci a “sfruttare” a pieno le nostre risorse personali per inseguire la felicità, o qualcosa che le si avvicini il più possibile. 

Rispettando noi stessi, i nostri desideri, le nostre paure, i nostri passati traumatici, i nostri ricordi felici, i nostri passi falsi e i nostri difetti più profondi, senza giudicarci, possiamo arrivare a capire quanto una scelta sia da noi sostenibile nel lungo periodo. Rientra nella nostra necessità di essere umani e di tutelare noi stessi in un momento storico che sembra non vedere mai luce. È adesso, quando tutto intorno a noi sembra crollare e tornare ad essere precario, che dobbiamo prendere il coraggio di ascoltare. Seguendo quella voce interna che troppo spesso mettiamo a tacere. 

A Milano si parla di lavoro prima ancora di sapere il nome dell’interlocutore. Adesso, qui in Trentino, mi rendo conto di avere intere conversazioni senza che l’argomento lavoro venga nemmeno sfiorato.

Cambia il paradigma, cambia la scala di valori, cambiano gli occhi con cui si guarda il mondo. Tutto sta nell’essere pronti ad accogliere il cambiamento. E, a lungo termine, a sostenerlo con tutti i nostri mezzi e il nostro bagaglio emotivo. Presto potremo accorgerci che avremmo dovuto rischiare prima, perché eravamo pronti da molto più tempo di quanto pensavamo.

 

Testo e illustrazioni di Tiziana Pesenti (Illustratrice e Art Director, specializzata in Branding e Green Design, Tiziana è tra i docenti della nostra Summer School in Green Marketing