Cibo come cultura e legge a Roma

Cibo come cultura a Roma. Di Stefania Roncati

In tutte le epoche la funzione primaria del cibo è stata quella di nutrire il corpo. Ma con l’alimentazione finiscono inevitabilmente per intrecciarsi società e cultura.

La più che millenaria storia romana – tredici secoli, per l’esattezza – ha conosciuto, quanto alle abitudini alimentari, tre diversi momenti.

In età arcaica, era la pastorizia a fornire interamente i cibi con cui nutrirsi. Essi provenivano quasi esclusivamente dal territorio italico: frugalità era il principio che guidava l’alimentazione in quel periodo.

Poi, grazie all’espansione nel Mediterraneo e al contatto con nuove popolazioni, in età repubblicana (a partire dalla metà del III secolo a.C.), e poi sempre di più nel Principato, grazie al raggiungimento di una stabilità politica e sociale, l’alimentazione iniziò a variare arricchendosi di pietanze sempre nuove e anche di ingredienti pregiati.

Un ritorno all’antico sembra invece caratterizzare la terza e ultima fase, quella dell’età tardoantica. Tra i più fulgidi esempi di questa inversione di rotta quanto ad abitudini alimentari, troviamo l’imperatore Giuliano, che, secondo quanto ci riporta la tradizione, si nutriva (e beveva) il minimo indispensabile e, sulla scia dell’usanza dei soldati, addirittura consumava in piedi il suo pasto, di norma consistente in una sorta di polenta di farro.

Un approccio morigerato era imposto principalmente da due fattori, da un lato, la crisi economica, dall’altro il diffondersi del Cristianesimo. Il messaggio cristiano, che vedeva la cena quotidiana come quella eucaristica, memoria della celebrazione di Cristo, fu determinante nel diffondere regole di sobrietà, biasimando ogni eccesso anche a tavola.

Ma quali cibi arrivavano sulle tavole degli antichi Romani?

Cibo come cultura a Roma.

Alla base dell’alimentazione vi erano i cereali, come frumento, orzo, miglio, farro e avena, da cui si otteneva la farina impiegata per produrre il “pane. Come anche nell’odierna tradizione mediterranea, il pane, sebbene diverso da quello che conosciamo oggi, era una presenza essenziale sulle tavole di tutti i ceti sociali. Da solo poteva anche costituire un pasto, soprattutto per i più poveri, che lo condivano con qualche avanzo per conferirgli più sapore. Si narra che anche l’imperatore Augusto fosse solito pranzare con un’oncia di pane e dell’uva.

Un altro prodotto di grande importanza e straordinaria diffusione era il vino, celebrato da poeti come Orazio o Tibullo come ‘rimedio per scacciare gli affanni’ – anche d’amore! – servito spesso allungato con acqua (da un terzo a quattro quinti!) o ‘tagliato’ con miele o albume.

Come scriveva Plinio nella sua Storia naturale, “Ci sono due liquidi che sono particolarmente gradevoli per il corpo umano: il vino all’interno e l’olio all’esterno. Entrambi sono eccellenti prodotti naturali, ma l’olio è assolutamente necessario, e l’uomo non ha sbagliato a dedicare i suoi sforzi ad ottenerlo”.

L’olio d’oliva fu un prodotto imprescindibile nella vita quotidiana degli antichi romani, che non solo lo usavano come condimento in cucina, ma anche, per la sua versatilità, come combustibile per l’illuminazione e come unguento alle terme.

Un giusto apporto proteico, specialmente agli albori della civiltà romana quando carne e pesce non erano molto diffusi, era assicurato dal consumo di legumi e semi, i quali, oltre che facili da coltivare, conservare e cucinare, erano anche alla portata delle persone meno abbienti. Dalle testimonianze archeologiche apprendiamo che i legumi più diffusi erano fave, lupini, ceci, lenticchie e, in misura minore, fagioli. L’impiego prevalente era quello in forma di zuppa. Alcuni di questi avevano inoltre proprietà medicamentose utilizzate anche nella preparazione dei cosmetici.

Frutta e verdura erano consumati in abbondanza.

cibo come cultura nel mondo romano

Produzioni locali di uva, mele, pere, fichi, prugne, melagrane vengono affiancate da prodotti coltivati in terre lontane, come le ciliegie del Ponto, le albicocche armene e le pesche persiane. Gli ortaggi più diffusi ed apprezzati – anche perché considerati salutari per l’organismo – erano bietole, insalate varie, spinaci, cavoli, carciofi, fagiolini, finocchi, broccoli, zucche e zucchini, rape, carote, cipolle.

Il latte, prevalentemente di pecora o di capra, era bevuto appena munto o trasformato in formaggio, di cui si conoscono diversi tipi a seconda della stagionatura. Autori come Varrone e Columella riportano consigli sulle tecniche di preparazione.

I Romani, come già i Greci, erano dediti all’allevamento del pollame non tanto per mangiarne la carne, quanto per consumarne le uova. Sia Varrone sia Cicerone si auguravano di iniziare il pasto proprio con un uovo. Il poeta Marziale, per indicare un pasto completo, usava l’espressione ‘ab ovo usque ad mala’, ossia un pasto che iniziava con l’uovo e si concludeva con le mele.

Cibo come cultura a Roma.

La carne non ebbe mai un ruolo primario nell’alimentazione: soprattutto in età arcaica, essa era mangiata quasi esclusivamente in occasione di sacrifici religiosi.

Con l’andare del tempo, oltre alla cacciagione, ai volatili e ad altri animali che popolavano i boschi, i Romani finirono per apprezzare carni considerate più pregiate quali ghiri, cicogne, fenicotteri, pavoni, usignoli.

Anche il pesce, stando ai ritrovamenti archeologici, era consumato nelle sue varie specie. Diverse sono le ricette tramandateci da Marco Gavio Apicio, celebre gastronomo vissuto all’epoca di Augusto e del successore Tiberio, autore del De re coquinaria (Sull’arte culinaria), come la murena arrosto con pepe, ligustico, zafferano, cipolla, prugne di Damasco, vino, vino melato, aceto, mosto cotto, olio e salsa di pesce oppure i ricci di mare con salsa di pesce, olio, vino dolce, pepe in polvere.

Tutte le preparazioni, sia di carne sia di pesce, prevedevano l’accostamento a salse, come il famoso garum, o a spezie, quali pepe, cumino, coriandolo, finocchio selvatico, ginepro, ottimi insaporitori che però erano ad appannaggio dei più ricchi.

Il cibo non era solo una necessità, ma anche un piacere.

Cibo come cultura a Roma. I banchetti.

A partire dal III secolo a.C. con l’ampliarsi dei confini a seguito delle guerre puniche, giunsero nuovi prodotti sulle tavole romane e i piatti videro elaborazioni sempre più complesse. Inoltre, si diffuse la ‘moda’ di allestire banchetti per accrescere il prestigio dell’organizzatore, cosicché il cibo divenne lo strumento per ottenere consenso sociale.

Lo sfarzo e il lusso sono legati a personaggi come Lucullo e Trimalchione. Del primo, vissuto probabilmente a cavallo tra il II e il I secolo a.C., sono stati tramandati diversi aneddoti legati a tavole imbandite con sfarzo sulle quali facevano bella mostra di sé, tra le altre portate, uccellini di nido con asparagi, pasticcio d’ostrica, pavoni di Samo, pernici di Frigia, morene di Gabes, storione di Rodi. Del secondo, protagonista del Satyricon di Petronio, opera composta nel I secolo d.C., è celebre una cena esageratamente lussuosa ove fa la comparsa una portata che attirò l’attenzione generale: “… un’alzata rotonda su cui si vedevano a cerchio i dodici segni dello zodiaco, sopra ognuno dei quali il cuoco aveva posto la pietanza corrispondente …”. Anche l’arte del servire a tavola assunse rilievo, nel tentativo di fare magie con gli ingredienti e ‘ingannare’ il commensale tramite un gioco di estetica.

Biasimo pubblico e interventi legislativi cercarono di riportare alla frugalità e alla moderazione del consumo del cibo, ponendo limiti al numero dei convitati, alle spese per la preparazione del convivio e al lusso nell’apparecchiatura della tavola.

Ma, oltre al cibo come necessità o come piacere, vi era una terza singolare funzione che assolvevano alcuni alimenti. Infatti, la loro presenza in certi negozi giuridici, in aggiunta al prodursi di effetti sul piano sociale ed economico, ne determinava addirittura la valida conclusione.

Lasciando da parte il diritto sacro e il ruolo delle offerte di cibo nei sacrifici, il primo esempio si rintraccia nella confarreatio, un’antica cerimonia matrimoniale religiosa, compiuta alla presenza del sacerdote di Giove e di dieci testimoni, che prendeva il nome da una focaccia di farro (c.d. panis farreus) che gli sposi spezzavano, per simboleggiare l’inizio della vita in comune. È probabile che tale panis, in principio un miscuglio di grani macinati sottoposti a cottura, somigliasse, più che a una focaccia lievitata, a un’ostia, visto che l’impiego di lievito era proibito dalla religione più antica.

Un altro caso di presenza di cibo nella struttura di un atto giuridico si rintraccia nella manomissione, tramite la quale il padrone rinunciava alla sua potestà sullo schiavo, rendendolo libero. La manomissione nella sua forma ‘per invito al convivio’ (per mensam) consisteva proprio nell’invito che il padrone faceva allo schiavo di unirsi al banchetto.

Il fatto di ammettere lo schiavo alla tavola era una chiara ed inequivocabile manifestazione della volontà da parte del proprietario di liberarlo: la condivisione del cibo attribuiva effetti giuridici alla decisione.

Più di duemila anni sono trascorsi dall’antica Roma a oggi, e sono di tutta evidenza le differenze tra le due società, ma è interessante notare come il modello nutrizionale romano si poggiasse su alimenti che costituiscono il nucleo della cosiddetta dieta mediterranea, riconosciuta dall’Unesco come bene protetto e inserito nel 2010 nella lista dei patrimoni immateriali dell’umanità.

 

 

 

di Stefania Roncati, docente di Istituzioni di Diritto Romano presso l’Università di Genova

Giorgio Vasari: Le Vite narrate due volte

Giorgio Vasari: Le Vite narrate due volte di Mariaclara Menenti Savelli

Giorgio Vasari: Le Vite narrate

Il Vasari è stato senza dubbio il primo grande biografo di tutti quegli artisti che hanno caratterizzato la Storia dell’arte dalle origini fino al 1567. Egli ci ha lasciato la prima grande opera di storiografia artistica moderna. Un testo ricco di dati, aneddoti, critiche, argomenti, cui hanno attinto, nei secoli successivi, studiosi, cronisti e curiosi.

Ma Giorgio Vasari fu anche il primo salottiero “chiacchierone” del Rinascimento, non risparmiando ai suoi rivali giudizi taglienti e spesso di natura meramente personale. Come ogni “buon” cronista che si pieghi alle logiche di potere, ha saputo esaltare, quasi divinizzandoli, pregi e imprese dei grandi potenti del tempo, denigrando e mettendo in luce i difetti fisici e le “mancanze” artistiche dei suoi rivali.

Vasari nasce ad Arezzo nel 1511 e muore a Firenze nel 1574.

Pubblica Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri nella prima edizione datata 1550 e poi nella versione rivisitata del 1568.

Questa riporta la dicitura “Scritte DA M. GIORGIO VASARI PITTORE ET ARCHITETTO ARETINO, Di Nuovo dal Medesimo Riviste Et Ampliate CON I RITRATTI LORO Et con l’aggiunta delle Vite de’ vivi, e de’ morti Dall’anno 1550 infino al 1567.”

L’opera prende spunto dagli schemi che Plutarco utilizzò nella sua opera Le vite parallele e, sicuramente, anche dal Museo di Polo Giovio e dalla sua famosa collezione d’arte.

L’officina di Vulcano, Giorgio Vasari

Leggermente diverse anche le dediche della prima e seconda versione, malgrado il riferimento sia sempre a Cosimo de’ Medici:

Prima dedica: «ALLO ILLUSTRISSIMO ED ECCELLENTISSIMO SIGNORE IL SIGNOR COSIMO DE’ MEDICI DUCA DI FIORENZA SIGNORE MIO OSSERVANDISSIMO».

Seconda dedica: «ALLO ILLUSTRISSIMO ET ECCELLENTISSIMO SIGNOR COSIMO MEDICI DUCA DI FIORENZA E SIENA SIGNOR SUO OSSERVANDISSIMO».

Tra le due versioni delle Vite esistono evidenti differenze: mentre in quella del 1550 si narrano le biografie di artisti defunti, a eccezione di Michelangelo, nella versione riveduta e ampliata del 1568 si analizzano anche le biografie di artisti ancora in vita e se ne traccia un loro preciso ritratto: “usando diligenza grandissima, in ritrovare la patria, l’origine, e le azzioni degli artefici e con fatica grande ritrattole […] farne quella memoria che il mio debole ingegno et il poco giudizio potrà fare”.

Così il pittore dovrà impegnarsi nell’arte del ritratto “facendo le femmine con aria dolce e bella, e similmente i giovani; ma i vecchi gravi sempre d’aspetto, et i sacerdoti massimamente, e le persone di autorità […]”.

Giorgio Vasari: Le Vite narrate due volte. Casa Museo di Giorgio Vasari ad Arezzo

Umberto Eco ricorda che Vasari, insistendo sull’importanza del riprodurre la bellezza della realtà, parla di ex ungue leonem, cioè della coincidenza tra invenzione e imitazione.

Se ciò che si osserva viene riprodotto con precisione, ma anche tenendo conto del punto di vista dell’osservatore, la bellezza presente nel soggetto stesso viene sommata a quella contemplata dallo spettatore.

A questo si lega l’interpretazione data dal Vasari dell’iperrealismo illusionista che va oltre il ritratto dal vivo e che rappresenta fedelmente la realtà senza essere la realtà.

Vasari attribuisce al Verrocchio l’invenzione di modellare i volti in cera e lega questo all’idea di una particolare forma di controllo sul reale che sola può condurre alla perfezione.

I suoi giudizi, però, rimangono a segnare un’epoca. Quella della “Bella Maniera”. Per lui andava a indicare quel tratto caratteristico che rispecchiava lo stile alto, espresso da Leonardo, Raffaello e Michelangelo, come decisa da monsignor Paolo Giovio, quella dei ritratti “di Stato”.

Ritratti emblematici, opere d’arte assunte come documento storico, che devono conferire immortalità a colui che viene rappresentato. L’arte fissa il ricordo in eterno, non solo della mera effige, ma anche del prestigio sociale, dell’integrità morale, attraverso un ritorno alla oggettivizzazione della figura umana.

Giorgio Vasari, Ritratto di Alessandro de’ Medici

I suoi giudizi sono stati in grado di esaltare e valorizzare un artista. Come quelli che rivolge al pittore Correggio, la cui grandezza andava riconosciuta anche nella capacità di trasmettere emozioni e sentimenti. Insomma, di dare vita a immagini soavemente erotiche, attraverso quel “colorito molto alla carne simile, di dolce aria”. Orchestrando così le emozioni di chi guardava. Parlando di Leonardo, specifica che “dette veramente alle figure il moto et il fiato”.

Ma, al pari, Vasari è anche in grado di denigrare l’opera altrui. Parlando del suo più grande rivale, Baccio Bandinelli, lo definisce “molto villano di parole […] ché il dire sempre male e biasimare le cose d’altri era cagione che nessuno lo poteva patire”, e poi “litigava d’ogni cosa volentieri”.

Benvenuto Cellini: Perseo con la testa di Medusa

Stessa sorte, giocata con maggiore sottigliezza di verbo ma non di intenti, viene riservata a Benvenuto Cellini. Vasari, pur riconoscendo la bontà dell’artista fiorentino, afferma che Cellini, malgrado voglia ricalcare le orme del grande maestro Michelangelo, pensa di “averne sempre studiato la maniera, senza essersene mai discostato”. Il raffronto tra i due è assolutamente impari e Vasari colloca il Cellini tra gli artisti “minori”.

E, a riprova dell’acredine tra i due, il modo in cui Cellini sembra aver apostrofato il biografo come “Cane di un Vasari! Bestiaccia, porco, bestia asinina”, durante le polemiche che seguono la commissione del progetto di un catafalco.

Giorgio Vasari rimane comunque uno dei più grandi biografi dell’arte ed egli stesso artista, pittore e architetto. Istituisce anche l’Accademia del Disegno formulando e divulgandone la teoria come qualità essenziale dell’arte.

Quadro di Giorgio Vasari, San Luca che dipinge la Vergine
Giorgio Vasari: San Luca dipinge la Vergine

Le Vite sono anche un percorso didattico per chi voglia intraprendere l’arte del disegno. Per chi “vuole bene imparare a esprimere disegnando i concetti dell’animo e qualsivoglia cosa”.

“Si eserciti in ritrarre figure di rilievo […] – consiglia – e cominci a ritrarre le cose che vengono dal naturale, che sono veramente quelle che fanno onore”.

 

di Mariaclara Menenti Savelli