• LETTERATURA • SCUOLA DI SCRITTURA 11 OTTOBRE 2022
L’autofiction secondo Philip Roth
di Giorgio Galetto
Operazione Shylock, romanzo di Philip Roth pubblicato in Italia da Einaudi nel 1993, è uno dei più originali esempi di narrazione autofinzionale tra quelli susseguitisi da quando questa modalità narrativa è nata, ed è stata in un certo senso codificata.

Operazione Shylock: l’autofiction secondo Philip Roth. Di Giorgio Galetto
Operazione Shylock, romanzo di Philip Roth pubblicato in Italia da Einaudi nel 1993, è uno dei più originali esempi di narrazione autofinzionale tra quelli susseguitisi da quando questa modalità narrativa è nata, ed è stata in un certo senso codificata.
Nell’era della cosiddetta post-verità anche la transmedialità diventa un fattore rilevante nell’elaborazione creativa.
È ciò che accade ad esempio al Montalbano di Camilleri sdoppiato tra tv e letteratura, o a Houellebeck personaggio mediatico, autore e personaggio letterario: sia in Riccardino, opera postuma pensata da Camilleri come uscita di scena (è il caso di dirlo) del celebre commissario.
Ne La carta e il territorio di Houellebeck, l’autore compare come personaggio, o per meglio dire: un personaggio che porta il nome dell’autore e ne ha le caratteristiche.
L’ espediente è utilizzato anche in Operazione Shylock di Philip Roth.

Nel caso di Roth la faccenda è ancora più complessa: più che di metanarrazione e transmedialità la questione è quella sempre viva, tra menzogna e verità. Qui la complessità d’intreccio del romanzo è strettamente connessa alla sua natura autofinzionale.
Operazione Shylock ha come sottotitolo «una confessione», e si apre con una premessa del narratore:
Ho ricavato Operazione Shylock da diari e taccuini. Il libro è la cronaca più precisa che io possa fornire di fatti veri dei quali sono stato protagonista a 54 o 55 anni e culminati all’inizio del 1988, nell’assenso che diedi alla proposta di intraprendere un’operazione di controspionaggio per il servizio segreto israeliano, il Mossad.

La prefazione continua entrando nel merito del processo Demjaniuk, operaio della Ford di Cleveland accusato di essere l’Ivan il Terribile di Treblinka, l’operatore della camera a gas che aveva mandato a morte migliaia di ebrei.
Si tratta di un fatto vero e documentato, svoltosi esattamente in quel modo e in quei giorni. Il narratore condivide l’identità dell’autore: Philip Roth, scrittore ebreo americano, di stanza a Londra al tempo dei fatti, racconta una vicenda che lo coinvolge in quanto persona Philip Roth, e in cui nulla sembra discostarsi di una virgola dalla cosiddetta realtà.
Sembrerebbe a tutti gli effetti una cronaca autobiografica relativa a una vicenda singolare e inquietante che lo ha coinvolto. Il background e il contesto sono assolutamente coincidenti con la realtà biografica dello scrittore.
La vicenda centrale, il caso Demjanjuk, è accaduta realmente ed è fedelmente descritta nel romanzo. Il sottotitolo, una confessione, risulta di fatto credibile, e il lettore si immerge nella narrazione convinto di leggere quella che a tutti gli effetti è una cronaca.

A questo punto l’autore mette in campo gli effetti speciali. Nella narrazione si susseguono una girandola di eventi al limite del surreale, che molto spesso sfociano nel comico. Subito il protagonista narratore viene a sapere dell’esistenza di un suo omonimo, che si spaccia per lui e che scopriremo a breve avere anche il suo aspetto, il quale sta promuovendo in Israele una paradossale campagna a favore del controesodo degli ebrei dallo stato, per tornare in Europa. Questo doppio di Philip Roth si espone addirittura con il leader polacco di Solidarnosc, Lech Walesa, per discutere il rientro in Polonia degli Ebrei; i giornali riportano questo incontro e altre notizie sulle iniziative del sosia.
Parlando di sosia, Roth dichiara apertamente alcuni antecedenti letterari cui il lettore potrebbe pensare, smarcandosene:
I sosia figurano soprattutto nei libri, come copie pienamente materializzate che incarnano l’occulta depravazione del rispettabile originale […] sapevo tutto di queste fantasie dell’io diviso, avendole decodificate come meglio non si sarebbe potuto una quarantina di anni prima all’università. Ma questo non era un libro che stavo studiando o un libro che stavo scrivendo, e questo sosia non era un personaggio che nel senso gergale della parola […] un nome che avevo imparato ad apprezzare molto tempo prima di avere letto del dottor Jekyll e del signor Hide o di Goljadkin primo e Goljadkin secondo.
Roth autore sgombra il campo dagli equivoci: la creazione del doppio non è un’indagine tardo-romantica, surreale o allegorica, del lato oscuro. Qui si parla di realtà e finzione, di verità e menzogna (le citazioni da Stevenson e Dostoevskj sono indicative).
Roth ci fa sperimentare il potere della letteratura svelando apertamente il meccanismo della metanarrazione davanti ai nostri occhi di lettori distratti:
ma questo non era un libro che stavo studiando o un libro che stavo scrivendo.
Invece sì, è proprio ciò che sta facendo. E ancora:
Potevo capire la tentazione di annullarsi e diventare imperfetti o posticci in modi nuovi e divertenti: vi avevo ceduto anch’io […] ancora più ampiamente di così nei miei romanzi: dove avevo la mia faccia, la mia voce, dove rivendicavo addirittura brani utili della mia biografia, e tuttavia, sotto la maschera di me, ero una persona completamente diversa. Ma questo non era un romanzo, e non andava bene.
Di nuovo: è proprio di un romanzo, invece, che si tratta, e noi che leggiamo lo sappiamo bene.
Quest’ultima citazione sembra dare una definizione di autofiction così come l’autore l’ha praticata finora, negandone il grado di attendibilità attraverso questo ulteriore e più sofisticato esperimento autofinzionale, che afferma di non esserlo in assoluto. Presentandosi infatti come una cronaca, Roth sembra voler affinare le sue armi narratologiche.
Per affermare cosa? Che non si può mai sapere fino in fondo cosa sia vero, o meno, neanche riguardo la Storia. E sono in gioco la credibilità e oggettività della realtà.
La narrazione era partita infatti col racconto dello stato allucinatorio dovuto ad un medicinale che ha determinato nel Roth personaggio (ma siamo certi che questa non sia la verità?) una forma depressiva acuta durata qualche mese.
Questa scarsa lucidità nel giudicare i fatti ritorna: nelle domande che il narratore rivolge a se stesso, e poi nel fatto che giungerà a dubitare di sé, a incarnare i panni dell’altro Roth, a sostenerne le ragioni impersonandolo.
Roth autore abilmente dissemina sottotrame, apre digressioni in cui il tema risulta essere sempre il rapporto verità-menzogna, e in cui l’olocausto e la questione ebraico-palestinese sono certamente rilevanti ma come discorso di secondo grado, forniscono il termine di paragone della Storia, sono il parametro dell’oggettività apparente, a fronte dell’insincerità plausibile della fiction letteraria.
Tutto il romanzo è incentrato sull’impossibilità di scoprire la verità, sia riguardo la vicenda dei due Roth, ma complessivamente riguardo la Storia e la realtà.
La nota per il lettore, alla fine del libro, ci toglie ogni dubbio:
Questo libro è un’opera di fantasia […] questa confessione è falsa.