Murakami: le connessioni irresistibili

Murakami: le connessioni irresistibili. Presentazione del Cahier “Mishima versus Murakami”

Murakami Haruki (per rispettare la tradizione giapponese che antepone il cognome al nome proprio)  è, senza dubbio, uno dei più grandi scrittori contemporanei. Affrontare un suo testo vuol dire accettare di trovarsi sospesi a testa in giù su un ponte mobile e non sapere più a quale dimensione si voglia davvero appartenere. Ci si sente solo liberi, emozionati, eccitati per quel respiro nuovo che si inala da ogni sua parola, da ogni nota che riempie l’aria e da quello stupore che ci fa intravedere mondi possibili.

Murakami: le connessioni irresistibili.

In una delle sue rare interviste, rilasciata nel 2018 a Deborah Treisman sul The New Yorker e che riporta l’allusivo titolo The underground worlds of Haruki Murakami, scopriamo uno scrittore e un uomo fuori da ogni schema, uno dei geni letterari dei nostri tempi, che pur nell’apparente equilibrio e nella pacatezza dell’uomo orientale, nasconde una frenesia e un desiderio di avventura che lo portano a esplorare mondi possibili e relazioni mancate. Murakami conosce l’importanza di non dare giudizi, di percepire situazioni e cose per quelle che sono, non che dovrebbero essere, per come il mondo si presenta a lui, pieno di suspence, di spiriti in cerca di risposte, di misteri nascosti dietro una cascata o nei passi felpati di un gatto. Murakami è un uomo schivo, amante della solitudine, che concede pochissime interviste e partecipa raramente a eventi pubblici:

Non faccio molta socializzazione. Mi piace stare da solo in un posto tranquillo, con molti dischi e, possibilmente, gatti.

Murakami: le connessioni irresistibili. I gatti, la corsa e la musica jazz sono le più grandi passioni dello scrittore giapponese.

Ma dentro di lui vive un universo immaginifico, un sistema costellato da milioni di piccoli esseri irreali, pecore immaginarie, uomini e donne concentrati su problemi impossibili da risolvere, figure oniriche ed evocative. Leggere il suo pensiero, oltre i romanzi acuti e visionari o i racconti in cui narra di situazioni e persone che descrive nella naturale evanescenza di un sogno, vuol dire avvicinarsi all’animo di un uomo fuori dall’ordinario, capace di non fermarsi mai alle apparenze, incapace com’è di innalzare muri o barriere tra quello che viene definito mondo “reale” e quello che non lo è:

I lettori a volte mi dicono che scrivo di mondi irreali e che il protagonista va in quel mondo e poi torna in quello reale. Ma non riesco quasi mai a vedere il confine tra mondo irreale e mondo realistico (and the realistic world).

Cioè non lo definisce “mondo non reale”, ma “mondo realistico”. Una sottile differenza semantica tra i due aggettivi che ci offre la possibilità di comprendere come la sua visione delle cose del mondo si basi semplicemente sulla stima di quella che si ritiene essere la “realtà reale”, e non su un’accettazione cieca di questa. È il suo calarsi in profondità, all’interno di realtà tutte possibili e tutte praticabili nelle loro regole e principi che permette l’accesso a una dimensione alternativa, a un universo separato e distinto dal nostro ma con esso coesistente. E questo è un espediente che lascia infinite possibilità, poiché se nella nostra realtà le cose si sono evolute in altre cose, in quella parallela potrebbe non essere accaduto o accaduto al contrario.

Murakami: le connessioni irresistibili. “Molto spesso il mio narratore è un ragazzo che avrei potuto essere ma che non sono io”. 

Nei romanzi di Murakami, però, non ci troviamo di fronte a storie alternative, a ucronie insomma, ma alla simultanea presenza, fisicamente misurata, di più dimensioni di realtà, di molti mondi. Esistono cioè “luoghi” e piani diversi di realtà e il significato delle cose può quindi non essere univoco e le azioni, lo spazio-tempo, le regole che sottendono il nostro mondo, possono assumere diverse direzioni e significati:

Quando mi calo nella scrittura, sono lì, all’interno di un pozzo profondo e mentre sono lì incontro cose strane. Ma mentre li vedo, sembrano naturali ai miei occhi. […] Mi guardo intorno, descrivo quello che vedo e poi, semplicemente, torno indietro. Se non tornassi sarebbe spaventoso. Ma sono un professionista, quindi posso tornare.

La naturalezza e la spontaneità con cui descrive il suo calarsi in un mondo diverso da quello in cui vive “normalmente”, ci mostra la capacità di essere scrittore visionario, immerso e vivente in diversi alterni mondi, perché conserva la consapevolezza di poterli dominare, passando da uno spazio all’altro, da un tempo all’altro, lasciando a ogni mondo le stranezze, le cose spaventose, i paradossi che gli appartengono. La curiosità lo spinge a inseguire storie, lungo il filo sottile dei sogni e dei desideri:

Molto spesso il mio narratore, il mio protagonista, è un ragazzo che avrei potuto essere ma che non sono io, ma è sempre una specie di alternativa a me.

Scrivere per Murakami è una routine, un impegno come correre o ascoltare jazz, ma sempre guidato da una profonda, volontaria scelta:

Una volta che mi siedo alla mia scrivania, già so cosa accadrà dopo. Se non lo faccio, se non voglio scrivere qualcosa, non scrivo. Scrivo quando voglio scrivere, cosa voglio scrivere e nel modo in cui voglio farlo. […] La scrittura ha bisogno di concentrazione e di resistenza, perché scrivere un libro non è così difficile, ma continuare a scrivere per molti anni è quasi impossibile.

Murakami Haruki. Scrivere come mestiere.

Un concetto per lui fondamentale, esposto e sviluppato in Shokugyō to shite no shōsetsuka (Il mestiere dello scrittore), pubblicato nel 2015 e arrivato in Italia solo nel 2017 (nell’edizione Einaudi, con la traduzione di Antonietta Pastore):

Chiunque può scrivere un romanzo, dal mio punto di vista, non è un insulto nei confronti di questo genere letterario, ma piuttosto una forma di elogio. Insomma, la narrativa è come un ring di lotta libera sul quale può salire chiunque lo desideri. […] Tuttavia, se salire sul ring non presenta particolari problemi, restarci a lungo è una faticaccia. Questo i romanzieri lo sanno bene. Scrivere un romanzo o due non è poi così difficile. Ma pubblicarne molti, mantenersi con la propria scrittura e sopravvivere in quanto romanziere, è tutt’altra cosa. Un’impresa dura, non alla portata di tutti. […] richiede qualcosa di speciale. Un certo talento e una certa fermezza sono necessari, è ovvio. Ma in più occorre una capacità specifica. C’è chi ce l’ha e chi no. Chi ne è dotato per natura, e chi l’ha acquisita per essersi sforzato anima e corpo.

Ma cosa pensa Murakami dei suoi personaggi, quelli che cercano, che a volte trovano e a volte no, che si perdono, che centrano gli obiettivi che si sono prefissi ma che alla fine non sono mai a loro agio nella realtà in cui vivono?

Per me è un tema importante mancare qualcosa, cercare, trovare. I miei personaggi cercano spesso qualcosa che è andato perduto. A volte è una ragazza, a volte una causa, a volte un obiettivo. Ma stanno sempre cercando qualcosa di importante per loro, qualcosa che comunque è andato perso. E quando il personaggio lo trova non è, però, felice. Ci sarà sempre una sorta di delusione. […] Perché se il personaggio è felice, non c’è alcuna storia. Quello che voglio fare è scrivere cose serie, complicate e difficili e per farlo devo calarmi, devo essere disposto a scendere sempre più in profondità.

Murakami: le connessioni irresistibili. Dalla delusione nascono grandi storie.

Ecco perché un Cahier che parla di lui e del suo bisogno di epifanie e di sogni. Perché Murakami è lo scrittore che fa dell’invenzione letteraria una musica di improvvisazione, libera, senza spartito, ma piena di inventiva e di slanci verso l’ignoto. Tutto si mescola, si unisce, si frammenta, per poi disfarsi ancora, mentre ci trasporta, con una scrittura ricca di citazioni, variazioni sul tema, passaggi segreti che si snodano in frasi apparentemente semplici, all’interno di un’armonia difficilmente raggiungibile. Murakami scrive come se suonasse ed è una musica familiare, riconoscibile, che si insinua in un quotidiano stravolto da fatti e circostanze strane e a volte orrifiche ma in cui ognuno di noi riesce a trovare il proprio appagante rifugio, le proprie connessioni irresistibili.

L’espressione del mio essere. Essenza e diversità

Sono una donna con disabilità e vivere senza perdere l’entusiasmo, non è facile. La nostra società è improntata più sull’apparire che sull’essere. Quindi, converrete con me, che essere una donna su ruote è estenuante.

Ogni giorno devo trovare la forza di far ascoltare la mia voce. E di renderla valida, perché ogni volta che interagisco con gli altri devo dimostrare di poter essere degna di stare al mondo e di possedere una mia facoltà di pensiero. Questo processo molte volte mi è reso possibile grazie ai social: scrivo tanto, scrivo molto, e quello schermo protegge sia me dall’invadenza della gente (che si sente legittimata, pur non conoscendomi, ad accarezzarmi come se fossi un cagnolino) sia loro da quella frustrazione, da tutta la rabbia, il dolore, la mancanza e i compromessi che ogni giorno caratterizzano la mia vita.

Spesso mi dicono che sono una persona determinata e forte. E io rispondo che lo sono perché non ho altra scelta.

Non perché io sia una wonder woman, anzi faccio mediamente schifo, come tutti. Però, vivere per me significa essere responsabile del mio miglioramento, giorno dopo giorno. Lotto sempre con persone che mi dicono come essere donna e come vivere la mia vita. Adulta sì, ma mai abbastanza. Donna sì, ma mai abbastanza.

Il “sembri quasi una normodotata” mi accompagna da una vita. Chi lo dice pensa di farmi un complimento. Ma è tutto fuorché un complimento. È un modo indiretto per dirmi: “Non so come definirti, non so comprendere la tua diversità, non so accettare che l’essere umano è polisemico, che può racchiudere diverse qualità, senza categorizzarsi e definirsi indefinitamente. Io, ad esempio, definisco solo ciò che oggettivamente non posso cambiare ma solo accettare.

Non solo sono una donna, non solo una persona con disabilità. Sono entrambe le cose, più tante altre qualità.

Per una vita intera ho dato l’opportunità agli altri di definirmi. Con le loro osservazioni, aggettivi, consigli non richiesti. Ora, non più. O almeno, ci sto provando.  Sto imparando a fare i conti con la solitudine e con l’inquietudine, tipica di chi sceglie di vivere la vita seguendo i propri valori, anche se questo significa non conformarsi alla società.

Io, nella vita voglio darmi la possibilità di evolvere, cambiare. Con uno sguardo accogliente, diventare me stessa ed essere qualcuno per le persone che stimo.

L’espressione del mio essere è condizionata dal contesto in cui sono. Vi sembrerà a tratti scontato, ma vivere in una città piuttosto che un’altra, fa la differenza. I luoghi, i servizi, l’educazione civica, le persone con cui interagisco durante la giornata, influenzano in maniera esponenziale ciò che sono. Vivere in un luogo dove puoi esprimere te stessa, a tutto tondo, è indispensabile per accettarsi e per crescere. Dal poter uscire di casa, andare in università, viaggiare, lavarsi, vestirsi, sono tutte azioni che per me non sono automatiche, ma sono frutto di esercizio e di collaborazione con gli altri.

Molte azioni che faccio per manifestare me stessa nel mondo sono possibili perché chiedo aiuto, perché pago, perché ci sono servizi sul territorio che aiutano a preservare la mia libertà.

Da piccola mi sono fatta una promessa. Mi sono promessa di diventare una donna libera e indipendente.

Una promessa molto difficile da mantenere visto che il mondo è fatto per persone normotipiche e tutto ciò che sono riuscita ad ottenere l’ho ottenuto solo perché ho compreso che nella vita nulla è scontato: dal mangiare autonomamente, al poter camminare sulla sabbia, godersi il sole, uscire di casa, tutte azioni frutto di interazioni con gli altri e fisioterapia perenne. Sul mio corpo, mi sono tatuata questa frase: “Senza più limiti” e invece di limiti ne ho tanti e sono loro a rendermi autentica, a insegnarmi che non sono speciale, che questa sono semplicemente io.

Essere se stessi è una virtù di pochi, essere se stessi significa essere consapevoli che il futuro deriva solo da questo e che per vivere la vita che vuoi, devi fare tanti sacrifici. E non hai minimamente tempo di dire agli altri come vivere la propria vita. Perché sei troppo impegnata a pensare alla tua.

Avere una disabilità ti insegna a chiedere aiuto, ti insegna a mostrarti fragile, non perché lo vuoi ma perché non hai altra scelta. Ti insegna cosa vuol dire la mancanza, la perdita, con la successiva rielaborazione forzata di quella voglia di vivere irrefrenabile (che mi contraddistingue).

Ho imparato cosa voglia dire la parola “umana”. Sono umana quando sbaglio, sono umana quando non sono performante, sono umana quando ho dei momenti di sconforto, sono umana quando sono stanca e voglio stare per conto mio.

Sono una donna di 24 anni e ho una disabilità. La spensieratezza dei miei vent’anni, non l’ho ancora sperimentata e forse non la sperimenterò mai, sono troppo impegnata a costruirmi la vita che vorrei. Vorrei poter socializzare con tutti a prescindere dai contesti, e vorrei essere considerata valida per poter intrattenere conversazioni con estranei, senza dimostrare di esserne degna.

Devo tener conto di tantissime cose: degli ambienti, perché se non sono accessibili, non possono esserci per me. Devo tener conto del fatto che non posso provare a fare esperienze come tutti gli altri, il mio sforzo è sempre maggiore, perché lo scoglio culturale è talmente grande che anche se sei bella, intelligente ed autonoma, se ne escono con la scusa: “non siamo pronti ad accettare la tua disabilità” come se io fossi solo questo e nient’altro. Non posso svegliarmi e decidere di partire all’istante, visto che devo prenotare tutto con molto anticipo. Posso decidere il giorno e l’ora ma devo sperare che in quel determinato momento ci sia solo io su quel treno, perché i posti disponibili per le persone con disabilità sono ridotti. Cercare una casa in affitto per me è una missione quasi impossibile, devo tener conto dell’accessibilità del luogo, dei servizi offerti, devo costruirmi una rete sociale ben solida, devo tener conto che devo avere dei soldi da parte per modificare la casa, per soddisfare le mie esigenze “speciali”.

Proprio per queste circostanze, per me è veramente difficile cambiare, nonostante nell’animo io sia una donna errante, vagabonda, emigrata, viaggiatrice e attrice girovaga. E di questo ne soffro molto ma al tempo stesso ho compreso e accettato, che ci sono cose nella vita che sono come devono essere. Ci sono cose per cui non possiamo fare nulla, se non focalizzare l’attenzione su quello che si può realmente fare, con quello che si ha a disposizione in quel preciso istante.

Insomma, la mia vita è una sorta di circo errante e proprio per questo ho imparato a essere un po’ comica, pagliaccia; ho imparato che l’ironia può salvarti la vita e che per uscirne non bisogna prenderla né poco né troppo sul serio.  Tanto non ne usciamo vivi, comunque.

Sono una donna istintiva, eccentrica, spontanea, creativa, emotiva, possessiva, malinconica. Voglio vivere la mia vita al meglio, non ho paura di esprimere ciò che provo anche se ci metto molto a comprenderlo e a definirlo. Parlo tanto, parlo molto ma tutte le cose che dico sono frutto di una riflessione ed elaborazione mentale.

Credo tantissimo nella valenza delle parole, perché so che hanno il potere di restarti dentro, belle o brutte che siano, e a prescindere da chi le pronuncia.  

Al giorno d’oggi, si vive il mondo alla massima velocità e veloci sono anche le parole, le relazioni, i sentimenti che viviamo. Il mio modo di essere influisce anche su questo. Non sono mai stata una persona veloce, infatti nella mia vita ho solo legami profondi.  Si possono contare sulle dita di una mano. Ma queste persone sono affascinanti, piene di conoscenza e riflessioni interessanti, aperte. Hanno sperimentato a loro volta il dolore e quindi non giudicano.

Sono persone consapevoli dei loro limiti.  Non credono di essere migliori di altri, non sono mai vincenti ma sempre diversi da tutti. Alcuni per scelta, altri, perché non ne hanno avuta.

I miei amici per me sono il sale della vita, sono coloro che mi hanno insegnato cos’è la tenerezza, la dolcezza, l’esserci, l’amore, la protezione, l’accettazione. Sono accoglienza, ironia e bellezza. Ho imparato ad amarmi proprio grazie al loro amorevole sguardo, che mi ha permesso di mostrarmi alcuni aspetti di me che non sapevo neanche di avere.  Sono persone importanti  e  li porto dentro ovunque vada, perché mi hanno amato sempre, anche e soprattutto quando ero” invisibile”, credendo in me prima che lo facessi io.

Parte integrante di me sono anche tutti i bambini che incrocio ogni giorno, anche per un solo secondo. Io sono un’educatrice, sto studiando per diventarlo. Sento il dovere di amarli incondizionatamente, dedicare tutta me stessa a loro, giocarci, passare del tempo con loro in maniera autentica, lasciandoli liberi di esplorare e sperimentare la vita, con l’eventualità di farsi anche male.

Non sono io che educo loro ma sono loro che educano me. Mi insegnano cosa voglia dire vivere la vita con spontaneità, leggerezza e semplicità, tutte caratteristiche che per sopravvivere ho accantonato ma con loro ho vissuto di nuovo.

Diceva, K. Jaspers : “Rimane bambino chi è veramente uomo“. Ecco, per questo io amo insegnare ai bambini: per preservare la mia umanità.

Ci dicono che dobbiamo crescere, avere dei soldi ed essere realizzati professionalmente, ma nessuno ci insegna come diventare umani.

Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura

Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura.

Aine E. Nakamura è una cantante, compositrice e artista performativa vincitrice quest’anno della seconda edizione di Biennale College Teatro, l’iniziativa che premia progetti di performance “site specific”. Nata a Bellevue, città della contea di King nello Stato di Washington, si è formata tra il Giappone, gli Stati Uniti e la Germania. Laureata in relazioni internazionali all’Università Jochi di Tokyo, ha poi studiato musica jazz e contemporanea negli States e si è laureata in Arte performativa alla New York University.

Al centro delle sue opere vi è il concetto di umanità. Riconoscere noi nell’altro, abbattere ogni frontiera.

Nei miei lavori perseguo sensibilità e spiritualità. Sono la canzone e sono la cantante.

Il punto di partenza: l’animismo. La natura che è divinità in ogni sua espressione, fonte di pace. Storie e immagini, oralità e poesia del corpo.

La gentilezza come Via: Aine E.Nakamura.
Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura. La gentilezza come Via. Credit: Aine E.Nakamura

È impossibile non vedere la delicatezza del Giappone in Aine E.Nakamura. Ma non fermiamoci alla superficie: sotto c’è molto di più. Aine E. Nakamura è giapponese e statunitense. Ma queste due coordinate si dissolvono nel messaggio di comunione con il mondo intero, di cui si fa portavoce. Oltre l’orientalismo, ci sono emozioni universali.

C’è la gentilezza, rivoluzionaria misura contro un modo maleducato, rude, indifferente, scostante e freddo. La delicatezza dell’animo che fluendo scalfisce anche la roccia più dura. La gentilezza si trasforma in resilienza, in strumento di riscatto, di cambiamento e di gioia. Contro ogni sopruso, ogni razzismo. L’Arte, come la natura, è un luogo d’amore in cui ritrovarsi.

“Sono un essere che occupa uno spazio artistico e intellettuale, che non può essere rinchiuso in nessuna cornice disciplinare o culturale”. 

E questo spazio artistico e intellettuale è ricco di pace, consapevolezza e meraviglia. 

L’Arte come speranza e crescita. Prendersi cura del proprio sé interiore, rivendicare il tempo, lo spazio, viverli e occuparli. Respirare. Connettersi con un’energia interiore sopita, ascoltando la natura intorno a sé. Percepire e percepirsi.

La gentilezza come Via: Aine E.Nakamura.
Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura. Credit: Same Pulse

Un luogo senza frontiere, muri, gerarchie, discriminazioni. La poesia del prendersi cura. 

Interiorità, dolore, malattia, sogno sono ingredienti di un’arte performativa in evoluzione, che è specchio di un’anima che non si arrende alla bruttezza ma che celebra un rapporto con la natura e con le persone fatto di purezza, rispetto e fiducia.

Domande soffici come neve, che divengono messaggi contro la violenza: come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura è poetica della pace e della vulnerabilità, che sfida il modello di potere basato sull’esercizio della forza.

La gentilezza come Via: Aine E.Nakamura.
Come vede la guerra un fiore? L’Arte di Aine E.Nakamura. “Sotto un fiore senza nome”. Credit: Aine E.Nakamura

Arte come strumento di catarsi e (auto)guarigione. È quasi un’iniziazione misterica al supremo atto di amarsi, riconoscendo ciò che di divino è nascosto in noi e intorno a noi. Partendo dal dolore, per iniziare a conoscersi e comprendersi. Guarire dall’odio e abbracciare la pace. La via è tracciata: un percorso di ascolto cosmico, un cerchio che si chiude sulla fragilità dell’esistenza e sull’esigenza di stringere relazioni e connessioni positive, ricche di significato. 

“Piantiamo semi nella primavera delle montagne”.

Siamo solo noi a poter scegliere di nutrire l’amore. Spetta a ognuno di noi. 

Sigrid Undset: contro il nazismo, la forza delle parole

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole 

Una perla rara dimenticata. Sigrid Undset è stata tra le poche donne (in tutto sedici) ad aver vinto il premio Nobel per la Letteratura. Una scrittrice norvegese che si oppose strenuamente al nazismo. Una voce da conoscere e amare. 

Nata il 20 Maggio del 1882, Sigrid proveniva da una antica famiglia di proprietari terrieri, gli Halvorsen, che nella prima metà del ‘700 si era insediata nella valle del fiume Atna, dove oggi sorge il meraviglioso Parco Nazionale di Rondane. 

Era stato il nonno di Sigrid, un sottufficiale, a muoversi per primo verso nord accettando una mansione in una workhouse. Le “case lavoro” erano istituzioni basate su una legge norvegese che autorizzava la polizia a trattenere poveri e vagabondi fino a un massimo di sei mesi, impiegandoli in diversi tipi di lavori “socialmente utili”, diremmo oggi. Chissà cosa l’avrà spinto tanto lontano, a vivere in un contesto tanto ingrato. Sappiamo che fu un cambiamento radicale: il nonno di Sigrid cambiò il cognome nome in Undset, ispirandosi a un luogo di cui la nonna gli aveva narrato. Un uomo duro ma anche volubile, testardo e inquieto, una figura che risalterà per contrasto con quella intellettuale e rassicurante del padre di Sigrid.

Ingvald Undset, il padre di Sigrid.

Ingvald è colto, curioso, aperto a nuovi stimoli e amante dei viaggi in Europa. Si laurea e poi conclude un dottorato in archeologia, divenendo un nome nel campo. Nonostante la morte prematura, ad appena 40 anni, la sua passione e le sue competenze nell’ambito della storia vichinga avranno una grande influenza su Sigrid e costituiranno terreno fertile per lo sviluppo del suo pensiero e dei suoi scritti. 

Sigrid somigliava al padre: cresciuta in un ambiente di liberi pensatori, era abituata a mettere sempre tutto in discussione. Mostra sin da bambina una personalità originale e anticonformista: non le piaceva la scuola, proprio come più tardi, da adulta, non imparò mai ad amare il suo lavoro da impiegata. A 27 anni, si dimetterà, per iniziare una nuova vita.

Introversa, solitaria e riflessiva, la sua vita è sempre stata nei libri. 

Capita che a molti venga dato ciò che era in origine destinato ad altri, ma nessun uomo può ricevere in dono un destino che non sia il proprio.

La sua vicenda personale è costellata di colpi di scena e di testa: come il matrimonio con il pittore Anders Castus Svarstad, con il quale aveva intrapreso una relazione “illecita” (Svarstad era sposato e aveva tre figli) tre anni prima. Svarstad era un uomo brillante e amante dei viaggi (il viaggio, un tema ricorrente nella vita e nell’opera di Sigrid), famoso soprattutto per la pennellate vivida e suggestive con cui ritraeva ora Chicago ora Londra, ora Bruges, Parigi, Roma e Napoli.

Un dipinto di Svarstad che ritrae Via Bocca di Leone, a Roma.

Lascia la prima moglie per Sigrid nel 1912 ma 7 anni dopo il matrimonio è già incrinato. I due avevano avuto tre figli, uno dei quali gravemente malato.

Sono anni difficili, in cui Sigrid trova rifugio nella scrittura.

Il matrimonio non funziona: il marito le tarpa le ali, anteponendo la propria carriera artistica a quella di Sigrid. Lei inizia a interessarsi alla questione femminile, indaga modelli e proposte, scrive di emancipazione, si trova a polemizzare con alcune posizioni del movimento femminista. Parallelamente, coltiva un suo percorso spirituale, studia e svolge ricerche sulle religioni scandinave. Scrive romanzi storici, raccolte di leggende, diviene un’autorità nel campo degli studi medioevali. 

Sigrid legge moltissimo anche opere a lei vicine. Traduce dall’inglese al norvegese, arrivando inoltre a elaborare critiche complesse e profonde su autori come le sorelle Brontë e David Herbert Lawrence. 

Il suo primo romanzo, nel frattempo, ha già dato scandalo, affrontando un tema delicato come quello dell’adulterio, da un punto di vista tutto femminile.

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole. Sigrid è giovanissima quando decide di inviare il suo primo manoscritto a una casa editrice. Il testo viene rigettato: è tutto da rifare. Lei non si abbatte, utilizza le critiche per correggere il tiro, rivedere lo stile, crescere nella scrittura. Il manoscritto successivo è un successo (e sarà la stessa casa editrice che aveva rifiutato la prima proposta a pubblicarlo).

A seguire ci saranno una serie di scritti in cui il tema dell’amore infelice ricorrerà come leitmotiv, sullo sfondo di ambientazioni ora moderne ora medievali. Gli orrori della prima guerra mondiale e i tormenti personali però la segneranno profondamente. La ricerca spirituale la porterà in quegli anni a scoprire il cattolicesimo, al quale si converte nel 1924.

A quel punto il matrimonio con Svarstad, secondo la legge cattolica, è nullo. E lei è una donna libera.

Nel 1928 la sua carriera è all’apice: vince il premio Nobel per la letteratura. Il cristianesimo entra nei suoi scritti in modo sempre più evidente, nonostante la conversione, in Norvegia – nazione quasi esclusivamente luterana -, sia vista con enorme sospetto. La sua morale è forte e peculiare ma continua a essere apprezzata anche da chi non ne condivide la spiritualità.

I suoi sono libri che spronano a occuparsi e preoccuparsi del prossimo, a vivere con responsabilità, a rispettare la vita e la natura intorno a noi. 

I suoi interessi investono pian piano anche la politica: Sigrid ricerca e scrive sulla filosofia del nascente partito nazista. Si dichiara acerrima avversaria del regime sin dai primordi, scorgendo dal 1933 in poi, nella figura di Adolf Hitler, l’incarnazione di un male feroce e aberrante che, come una profezia, esploderà di lì a qualche anno.

Nella Germania nazista le sue parole vengono bollate come pericolose, i suoi libri messi all’indice. Il suo nome entra presto nella lista nera della Gestapo. 

Sigrid Undset: contro il Nazismo, la forza delle parole. Nel 1933, in Germania, gli studenti nazisti di più di 30 università saccheggiano le biblioteche in cerca di libri considerati una minaccia per la nazione tedesca. Tra gli scritti letterari e politici che vengono dati alle fiamme ci sono anche le opere di Sigrid Undset. (Credit: United States Holocaust Memorial Museum, Washington).

Quando Bjerkebæk viene occupata dalle truppe tedesche è costretta a fuggire. Due dei tre figli sono già morti, una di malattia, l’altro in battaglia. Nel 1940, insieme al figlio minore, si unisce al movimento di resistenza per poter attraversare la Norvegia e mettersi in salvo in Svezia, oltrepassando la città bombardata di Åndalsnes e la contea di Nordland. Dalla Svezia decide poi di salpare per gli Stati Uniti, dove per tutta la durata della guerra continua a scrivere e a tenere conferenze per la pace e contro l’ideologia nazista.

Riuscirà a rientrare in patria solo a guerra finita, ricevendo dal governo norvegese onorificenze e premi per l’impegno a favore della liberazione. Dalla guerra però non si riprenderà mai. Vivrà pochi anni nel totale silenzio, per infine spegnersi e essere sepolta accanto al figlio e alla figlia: un tumulo con tre semplici croci di legno scuro, nel piccolo villaggio di Mesnali. 

Sigrid Undset

 

 

 

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