• ECOLOGIA • ECONOMIA & SOCIETà 5 GIUGNO 2022
Che cos’è la giustizia ambientale?
Team Kressida
Prendersi cura dell’ambiente vuol dire prendersi cura delle persone.

Che cos’è la giustizia ambientale? Trattiamo oggi uno degli argomenti più importanti del nuovo paradigma etico.
La giustizia ambientale è innanzitutto un movimento sociale che si preoccupa di comprendere il ruolo che lo sfruttamento delle risorse naturali può giocare nell’aumento o nella riduzione delle disparità sociali e di proporre ove necessario azioni e contromisure. Ma anche di indagare come l’ambiente possa, invece, divenire strumento di equità e giustizia. Il concetto così come lo conosciamo nasce negli Stati Uniti, negli anni ’80 del secolo scorso. Nell’epoca del boom economico emerge una concezione complessa della relazione tra ambiente e essere umano, che ingloba aspetti economici, sociali e di ecologia.
L’ambientalismo occidentale aveva, infatti, mosso i suoi primi passi all’interno di un contesto privilegiato: quello delle colte e relativamente benestanti comunità statunitensi ed europee.
Le prime associazioni per la tutela della natura, nate alle fine del 1800, si ponevano come obiettivo principale la salvaguardia di ambienti selvaggi e il più possibile incontaminati.
Questi costituivano fonte di ispirazioni per le arti, rifugio da una vita industrializzata già allora troppo invadente, diletto per lo spirito e il corpo. Il movimento ambientalista si occupava, dunque, di preservare la natura limitandone l’accesso all’uomo, “chiudendola” nella gabbia d’oro di riserve e parchi nazionali.
A partire dagli anni ’60 del ‘900 lo scenario si è fatto più complesso. E il pensiero molto più consapevole dei legami tra ambiente e società, tra sfruttamento e ingiustizia, tra modelli economici e inquinamento. Inoltre, le comunità indigene hanno gradualmente conquistato un peso e una rilevanza maggiore anche all’interno delle grandi organizzazioni internazionali.

Perché parlare di giustizia ambientale?
L’ecologia non può più limitarsi a guardare alla tutela di spazi dedicati alla natura. Pensare di costruire oasi felici di biodiversità per arginare il disastro ambientale è un piano incompleto. Servono modelli diversi, che prevedano maggiore integrazione tra comunità umane e natura e visioni a lungo termine. Ogni volta che un’area selvaggia viene “invasa dallo sviluppo”, infatti, gli habitat prima a disposizione di molte specie vengono compromessi o distrutti. Ogni volta che un’innovazione produce un aumento della domanda di materie prime la cui estrazione, lavorazione o smaltimento produce un impatto (come nel caso delle miniere di cobalto, rame e coltan in Congo, indispensabili per la produzione di dispositivi elettronici) meccanismi complessi si mettono in moto. Con effetti a catena per l’ambiente, ma anche per il tessuto sociale (guerre) – che non riusciamo neppure a prevedere. E ripercussioni etiche che dovremmo affrontare.
La distruzione degli ecosistemi può in particolare impattare il diritto alla salute e allo sviluppo delle generazioni presenti e future.

In questa ottica le comunità indigene sono diventate modelli di riferimento per la loro capacità di sopravvivere e di far fronte ai loro bisogni essenziali e persino di prosperare, senza tuttavia intaccare la qualità degli ambienti.
L’attenzione nei confronti di questi saperi e la ricerca di una valorizzazione di questo bagaglio culturale prezioso per l’umanità, al fine di diffondere sistemi virtuosi, si scontra però con gli interessi rapaci di big player mondiali e spesso degli stessi governi, che “svendono” i territori e le foreste per trarne profitti. Accade così che l’Amazzonia divenga un pascolo per le grandi catene di fast food, i boschi della popolazione Sami si trasformino in autostrade, le foreste pluviali degli aborigeni australiani si mutino in stalle, allevamenti e miniere.

La giustizia ambientale è un concetto sfaccettato, che abbraccia le modalità con cui le popolazioni si rapportano all’ambiente, i benefici che da esso traggono e come questa ricchezza viene gestita e ridistribuita.
Ma anche il modo in cui i modelli economici impattano sugli equilibri naturali, distruggendo la possibilità, per le generazioni future, di fruire di servizi ecosistemici puliti e sicuri. O anche solo di godere della bellezza della natura.

I costi dello sfruttamento e del degrado ambientale – nonché dei cambiamenti climatici – ricadono soprattutto sulle popolazioni più povere. Innescando fenomeni migratori, impattando sulla possibilità di costruire una vita sui propri territori e di agire per invertire la tendenza. Provocando spesso alienazione e frustrazione che si trascinano per intere generazioni.
Eppure la sofferenza di questi popoli che per primi si trovano a dover affrontare le conseguenze di inquinamento e cambiamenti climatici ci riguarda da vicino. Non solo perché se non cambiamo paradigma risentiremo presto anche noi gli effetti di questo uragano. Ma anche perché per la natura non esistono confini.
I problemi ambientali non possono essere arginati da muri e frontiere.

La salute del pianeta riguarda tutti.
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