Nel delirio della Bellezza

Nel delirio della Bellezza

Perché leggere Mishima oggi? Perché scrivere un Cahier che parla di uno scrittore così estremo nelle sue scelte, apparentemente anacronistico (o forse no, in un’epoca in cui, specie sui social, si dà sfogo a ogni tipo di narcisismo) nella volontà di esaltare nei suoi personaggi la bellezza fisica assoluta (oscurata però da quella morale) e confrontarlo con un visionario, fantastico e modernissimo come Murakami?

Per amore delle sfide, perché se si vuole davvero conoscere la visione degli altri, occorre studiare, analizzare, cercare di capire quello che più è lontano da noi, per ideologia, valori, attenzione. Aprire le porte alla comprensione di ciò che meno ci appartiene.

Perché Mishima è stato tutto e il contrario di tutto. Ha ricercato la perfezione nell’errore e l’ossessione dell’imperfezione.

Ha scelto di vivere rispettando e curando il proprio corpo come un tempio, per poi martorizzarlo sul palcoscenico di una morte in diretta.

Sono gli anni del delirante sperimentalismo della lingua come sperimentalismo del pensiero che secondo Mishima conduce a una manipolatoria semplicità di opinione, come se tutto potesse essere affidato alla comicità di un linguaggio basso, come strada più semplice per arrivare a spiegare il reale (e qui davvero la sua critica non ci appare lontana dalla considerazione di certe opere che oggi il mainstream ci propone).

E questo Mishima non lo accetta: per lui purezza di pensiero è purezza di linguaggio e di scrittura. Il disordine programmato, il ribaltamento dei valori, la coscienza dell’imperfezione sono un gioco degli estremi e lui sa, meglio di chiunque altro, che valore dare a questo “gioco”, al momento ultimo.

La sua poetica della “contraddizione” è il suo personale cammino spirituale, di cui traccerà le linee in una splendida intervista rilasciata a uno degli esponenti più in vista della critica letteraria giapponese, Kobayashi Hideo, e che permetterà agli studiosi e al pubblico di tracciare insieme la sua “via del guerriero”.

Sul concetto di Assoluto:

Esiste un contrasto profondo nella bellezza delle cose, una sorta di deformazione della forma stessa della bellezza. E non si tratta solo della distorsione della semplice atmosfera che egli fa respirare nelle sue opere, ma di una vera e propria imperfezione nella perfezione. Dal suo bisogno di disumanizzazione, alla ricerca dell’Assoluto, ha reso sempre viva quell’ossessione latente che lo ha spinto fino alla lacerazione.

Perché non si può scrivere senza vedere e non si può scrivere senza sentire.

“Io sono uno scrittore che ha una grandissima passione e un fortissimo interesse per la forma ma non so quanto la prosa convenzionale, incentrata com’è solo sulla forma, sia un modello di letteratura attuale”.

E la necessità di vivere controcorrente, sempre. Questo viene richiesto allo scrittore.

“Secondo me un grande scrittore non può scegliere come tema della sua arte un grande problema. Deve c’è arte non c’è un grande problema, in senso giornalistico. Tutte quelle cose di cui parla la massa”.

Ed essere controcorrente implica anche il senso della morte, perché si deve essere capaci di vivere fino in fondo anche la propria morte.

“È la natura umana. Non credo che a questo mondo esista qualcuno che non tenga alla propria vita. Ma un uomo deve essere in grado di liberarsi da questo attaccamento e avere il coraggio di morire”.

E ricercando l’unicità dell’Assoluto Mishima rivela la duplicità della sua visione: forse la vita così come la concepiamo o la conosciamo è la continua ricerca di quell’Assoluto che solo la morte può dare?

Assoluto è l’idea che ogni cosa possa essere vista come azione da compiere, perché solo questo ci rende davvero liberi?

La liberazione totale è però impossibile perché essa può essere realizzata solo in ambito relativo. Niente può dirsi davvero Assoluto finché “qualcuno dirigerà la vita sociale di altri” e quindi non sarà mai lecito “l’omicidio di piacere. Se non ci sono comandamenti o proibizioni da rispettare, non si potrà mai raggiungere l’Assoluto”.

Proprio sulla Bellezza:

Per un nichilista anarchico come Mishima la bellezza non è e non può essere bella in assoluto. Così la sua prosa mescola contenuti, impressioni, delusioni che si ingigantiscono e assalgono i protagonisti dei suoi romanzi come in un sogno che ha però contorni definiti, schematizzati e per questo rincorribili.

Nell’intervista rilasciata a Kobayashi Hideo, sulla “Forma della bellezza”, Mishima espone la sua visione estetica che si spinge alla descrizione dei luoghi: “il fiume Yurakawa (descritto in vari punti del Padiglione d’oro con una bellezza lirica che emoziona) è un luogo triste e d’estate si trasforma in un posto volgare, pieno di bagnanti, ma negli altri periodi è silenzioso e solitario…” fino al significato soggettivo della confessione che sembra essere uno dei motivi ricorrenti nella sua opera.

Una confessione mai oggettiva, mai strillata ma ripetuta costantemente dentro se stessi, nel turbinio delle emozioni, nell’incalzante incedere delle azioni, nelle continue relazioni con gli altri.

È qui che il dramma della dualità della sua visione si manifesta in tutta la sua violenza: il fluire senza sosta delle immagini in cui la bellezza è continuamente lordata da sentimenti che di realismo non hanno nulla “perché i naturalisti scrivevano romanzi dove i protagonisti erano ossessionati dalla bruttezza”, lui, al contrario, parte da posizioni opposte, dalla bellezza in quanto emblema dell’artista, una bellezza che è però ossessione, turbamento, oscurità.

Sul linguaggio:

Riflettendo sul ruolo del linguaggio dei romanzi, Mishima attacca l’uso che si fa delle parole che sembrano avere la tendenza a non maturare nel tempo, allontanando dal senso stesso della forma che si vuole tentare di descrivere.

Tutti tendono a linguaggi semplici, alla esemplificazione risultando così estranei, incapaci a descrivere la complessità delle sensazioni.

Le parole sono morte. Le parole, più si cerca di avvicinarle al linguaggio quotidiano, più perdono vita. E il linguaggio del cinema è ancora peggiore. […] Così non è più lingua giapponese: si cambiano le parole, si inseriscono frasi relative in modo del tutto innaturale …

 

Yukio Mishima con il premio Nobel Yasunari Kawabata

Mishima e il suo mondo, alla ricerca dell’unicità nella rivelazione della dualità. Lungo il cammino del suo tormentato Bushidō.

Per approfondire: Mishima versus Murakami, Bushidō di due moderni samurai

 

di Mariaclara Menenti Savelli 

Cahier “Fellini versus Allen”: percezioni d’autore

Cahier Fellini versus Allen: percezioni d’autore. Che cosa si prova sfogliando il nostro Cahier? La parola allo scrittore. 

Apro il Cahier Fellini versus Allen, lo sfoglio, realtà, verità, sogno, finzione, parole, immagini che si mescolano ai ricordi, pensieri sconnessi, episodi di esistenza, passato, presente e futuro inesistenti, un unico tempo, molteplici visioni, vissuto soggettivo che si espande, ovunque, da nessuna parte, universo, esistenza, disgregazione, linearità che svanisce, coerenza che si frantuma, finzione, sogno, verità, realtà, dove sono?

In quale tempo? In quale spazio? mente che mi trascina altrove, al di là del mio corpo, smaterializzazioni, materia che cambia conformazione, e poi, sofferenza, inadeguatezza, grandi domande, chi sono?

Da dove vengo? Dove vado? Esisto? Non esisto? Infinite realtà, infinite verità, domande, domande, domande, risposte incerte, spesso insoddisfacenti, frustrazioni di un’esistenza senza senso, frustrazioni di un’infinita ricerca dello stesso, fotogrammi, fotogrammi, fotogrammi, ricordi, ricordi, ricordi, momenti, chi sono?

Cahier “Fellini versus Allen”: percezioni d’autore. Federico Fellini

Da dove vengo? Dove vado? Esisto? Non esisto? Ti chiedo, mi chiedo, ci chiedo, realtà, verità, sogno, finzione, punti di vista come universi, mondi paralleli che si scontrano attimo dopo attimo, big bang del pensiero, immagini come meteore, si allontanano nello spazio, nessuna luce, luce ovunque, fluttuano, si allontanano, coscienza che si espande, finzione, sogno, verità, realtà, concetti impossibili da delineare, le nostre esistenze a ruotarci intorno, vortici di senso senza senso, vertigini, mi perdo, ti perdi, scontro tra realtà, scontro tra verità, punti di vista differenti, visioni differenti, le mie, le tue, visioni differenti, punti di vista differenti, le tue, le mie, respiri, respiro, molteplici visioni, memorie, passato, presente e futuro che implodono, un unico tempo, un unico spazio, big bang del pensiero, molteplici visioni, le mie, le tue, punti di vista, realtà, verità, sogno, finzione, parole, immagini, fotogrammi, fotogrammi, fotogrammi, chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Esistiamo? Non esistiamo?

Cahier “Fellini versus Allen”: percezioni d’autore. Woody Allen

Chiudo il Cahier Fellini vs Allen, e me lo chiedo, sì, me lo chiedo, potrai mai comprendere completamente la mia realtà? Oppure dovrò rassegnarmi ad esistere nel mio eterno sogno, senza tempo, senza spazio?

Universo che implode, big bang del pensiero, passi, passi, passi, non sto camminando, ma mi sto già dirigendo altrove, o da nessuna parte, attimi di senso senza senso, chiudo gli occhi, mi addormento, mi rassegno, esisto solo nella mia realtà, nella mia finzione, nella mia verità, nei miei sogni, non svegliatemi, vi prego, non svegliatemi.

di Claudio Simoncini 

 

Per approfondire: Cahier n.2 “Fellini versus Allen”

Che cos’è la giustizia ambientale?

Che cos’è la giustizia ambientale? Trattiamo oggi uno degli argomenti più importanti del nuovo paradigma etico.

La giustizia ambientale è innanzitutto un movimento sociale che si preoccupa di comprendere il ruolo che lo sfruttamento delle risorse naturali può giocare nell’aumento o nella riduzione delle disparità sociali e di proporre ove necessario azioni e contromisure. Ma anche di indagare come l’ambiente possa, invece, divenire strumento di equità e giustizia. Il concetto così come lo conosciamo nasce negli Stati Uniti, negli anni ’80 del secolo scorso. Nell’epoca del boom economico emerge una concezione complessa della relazione tra ambiente e essere umano, che ingloba aspetti economici, sociali e di ecologia.

L’ambientalismo occidentale aveva, infatti, mosso i suoi primi passi all’interno di un contesto privilegiato: quello delle colte e relativamente benestanti comunità statunitensi ed europee.

Le prime associazioni per la tutela della natura, nate alle fine del 1800, si ponevano come obiettivo principale la salvaguardia di ambienti selvaggi e il più possibile incontaminati.

Questi costituivano fonte di ispirazioni per le arti, rifugio da una vita industrializzata già allora troppo invadente, diletto per lo spirito e il corpo. Il movimento ambientalista si occupava, dunque, di preservare la natura limitandone l’accesso all’uomo, “chiudendola” nella gabbia d’oro di riserve e parchi nazionali.

A partire dagli anni ’60 del ‘900 lo scenario si è fatto più complesso. E il pensiero molto più consapevole dei legami tra ambiente e società, tra sfruttamento e ingiustizia, tra modelli economici e inquinamento. Inoltre, le comunità indigene hanno gradualmente conquistato un peso e una rilevanza maggiore anche all’interno delle grandi organizzazioni internazionali.

La giustizia ambientale non può realizzarsi senza consapevolezza dei legami tra noi, la natura e gli altri. Essa si manifesta lontano dalle logiche di sfruttamento e profitto.

Perché parlare di giustizia ambientale?

L’ecologia non può più limitarsi a guardare alla tutela di spazi dedicati alla natura. Pensare di costruire oasi felici di biodiversità per arginare il disastro ambientale è un piano incompleto. Servono modelli diversi, che prevedano maggiore integrazione tra comunità umane e natura e visioni a lungo termine. Ogni volta che un’area selvaggia viene “invasa dallo sviluppo”, infatti, gli habitat prima a disposizione di molte specie vengono compromessi o distrutti. Ogni volta che un’innovazione produce un aumento della domanda di materie prime la cui estrazione, lavorazione o smaltimento produce un impatto (come nel caso delle miniere di cobalto, rame e coltan in Congo, indispensabili per la produzione di dispositivi elettronici) meccanismi complessi si mettono in moto. Con effetti a catena per l’ambiente, ma anche per il tessuto sociale (guerre) – che non riusciamo neppure a prevedere. E ripercussioni etiche che dovremmo affrontare.

La distruzione degli ecosistemi può in particolare impattare il diritto alla salute e allo sviluppo delle generazioni presenti e future.

L’inquinamento da plastica colpisce in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili e le donne, che risentono maggiormente degli squilibri ormonali causati dalle microplastiche.

In questa ottica le comunità indigene sono diventate modelli di riferimento per la loro capacità di sopravvivere e di far fronte ai loro bisogni essenziali e persino di prosperare, senza tuttavia intaccare la qualità degli ambienti.

L’attenzione nei confronti di questi saperi e la ricerca di una valorizzazione di questo bagaglio culturale prezioso per l’umanità, al fine di diffondere sistemi virtuosi, si scontra però con gli interessi rapaci di big player mondiali e spesso degli stessi governi, che “svendono” i territori e le foreste per trarne profitti. Accade così che l’Amazzonia divenga un pascolo per le grandi catene di fast food, i boschi della popolazione Sami si trasformino in autostrade, le foreste pluviali degli aborigeni australiani si mutino in stalle, allevamenti e miniere.

In virtù della loro esperienza e delle tradizioni tramandate di generazione in generazione, i popoli indigeni sono spesso i migliori conservazionisti. Poiché la loro vicinanza alla natura è maggiore e non filtrata, la consapevolezza dell’impatto che ogni azione ha sull’ambiente è maggiore.

La giustizia ambientale è un concetto sfaccettato, che abbraccia le modalità con cui le popolazioni si rapportano all’ambiente, i benefici che da esso traggono e come questa ricchezza viene gestita e ridistribuita.

Ma anche il modo in cui i modelli economici impattano sugli equilibri naturali, distruggendo la possibilità, per le generazioni future, di fruire di servizi ecosistemici puliti e sicuri. O anche solo di godere della bellezza della natura.

Poter godere di un ambiente sano e di una natura pulita, le cui forze rigenerative siano intatte e che produca servizi ecosistemici essenziali accessibili (cibo, acqua, risorse) – nel rispetto dei suoi tempi, è parte del diritto alla salute, un diritto inalienabile di ogni essere umano.

I costi dello sfruttamento e del degrado ambientale – nonché dei cambiamenti climatici – ricadono soprattutto sulle popolazioni più povere. Innescando fenomeni migratori, impattando sulla possibilità di costruire una vita sui propri territori e di agire per invertire la tendenza. Provocando spesso alienazione e frustrazione che si trascinano per intere generazioni.

Eppure la sofferenza di questi popoli che per primi si trovano a dover affrontare le conseguenze di inquinamento e cambiamenti climatici ci riguarda da vicino. Non solo perché se non cambiamo paradigma risentiremo presto anche noi gli effetti di questo uragano. Ma anche perché per la natura non esistono confini.

I problemi ambientali non possono essere arginati da muri e frontiere. 

la cura delle natura deve occupare un ruolo centrale nella cultura e nello stile di vita.

La salute del pianeta riguarda tutti. 

 

 

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