• LETTERATURA • SCUOLA DI SCRITTURA 9 MAGGIO 2022
Nello spazio e nel tempo
di Mariaclara Menenti Savelli
Nello spazio e nel tempo della scrittura tutto può e deve essere possibile.

Nello spazio e nel tempo della scrittura tutto può e deve essere possibile.
Tutto e il contrario di tutto, se “tutto” indica sì una quantità non ben definita (o irrimediabilmente difficile da contenere nell’immaginazione) ma anche e soprattutto la profondità con cui questa dovrebbe essere raccontata.
Ma nella scrittura in cui ci si imbatte e con cui si è costretti a fare i conti da più di vent’anni, il dono dell’imprevisto, del “tutto” complesso e stilisticamente superiore, ha lasciato il posto a patetici tentativi d’opera.
A cominciare dalla gestione del tempo e dello spazio.
Gestione dello spazio

La contestualizzazione spaziale dietro alla quale molti autori del mainstream si rifugiano per i loro apparenti non confessabili pensieri e comportamenti, si realizza sempre in luoghi fintamente umanizzati, ingenuamente “reali”, dotati di una quantificabile e determinata distanza relazionale (vicino, lontano, a due passi da, sopra, sotto…).
Questo li conforta e li tranquillizza, perché attraverso esperienze semplici e ben collocate in un preciso spazio d’azione, possono narrare la banalità dell’essere. Ovvero, possono descrivere quello che “tutti pensano e sentono”, senza mai scoprire le loro vere intenzioni (sempre che ne abbiano).
Non desiderano altro che compiacere a tutti i costi, evitando accuratamente di risultare “pesanti” e complessi nel lessico, asserviti a un mercato editoriale sempre meno esigente.
Fingono oppure una spregiudicatezza sessuale, cercando di risvegliare nel lettore quell’eccitazione da iniziazione adolescenziale che bene si confà a letture distratte in assolati momenti vacanzieri o in tediose domeniche invernali.
Ricordiamo che lo scrittore non è uno storico, a meno che non scriva esplicitamente di fatti e uomini più o meno lontani nel tempo (ma allora si tratta di un lavoro di attenta ricerca, spesso di accademia). Non è neanche un giornalista (mestiere diverso e mal conciliabile con l’autorale).

Nello spazio e nel tempo della scrittura non si ha perciò l’obbligo dell’informazione certa. Lo scrittore ha dalla sua lo strumento della più libera interpretazione di ciò che vede e vive – compresa quella di gestire una punteggiatura e una struttura del periodare svincolata da regole imposte per convenzione, perché profondo conoscitore di tutti quei dettami che si accinge ad infrangere e a sovvertire -.
Cioè è libero da ogni legame. Non deve piacere a tutti i costi. Non deve essere politicamente corretto, non deve ammantarsi di infinita umanità per scrivere.
Uno scrittore deve scrivere perché ha l’esigenza di farlo e di farlo senza rispettare regole preconcette, senza essere ingabbiato in uno status, senza obblighi morali.
I buoni sentimenti a tutti i costi, quelli decomplessificati, pensierini da scuola elementare di certi scrittori e poeti contemporanei o il loro rozzo humor nero, dovrebbero essere lasciati ai giornalisti del caffè del mattino, a certe riviste patinate, a certi “strilloni” che fanno dell’insulto un comodo alibi per nascondere l’assoluta mancanza di pensiero.

Nel narrare un’azione, una storia o un singolo istante fatto di sensazioni o percezioni, gli scrittori cólti possono invece sottrarsi dall’obbligo di precisare il luogo in cui tutto si svolge.
Possono delinearne semplicemente i contorni, descriverne solo alcune caratteristiche o raccontare anche i più piccoli dettagli, senza però permettere il riconoscimento di un luogo preciso, che abbia nome e coordinate certe e, magari, instillare nel lettore il dubbio che si tratti di un sogno, di un’allucinazione, di una rêverie, insomma.

Anche quando uno scrittore cita il nome di un luogo e ne indica sezione e inquadramento, questo può risultare ineffabile, difficile da cogliere nella sua interezza.
Perché uno scrittore deve rispondere soprattutto a se stesso, alle sue intenzioni, alle sue sensazioni.
E queste mai saranno dirette verso spiegazioni pedisseque e non richieste, verso il tutto esplicitato, perché è il mistero del vero/non vero, che da sempre avvolge la finzione letteraria, a costituire l’unica e la sola regola dell’animo autoriale.
Gestione del tempo

Posso fare lo stesso con il tempo?
Apparentemente no, perché si suppone che, per convenzione, il tempo sia lineare o unidirezionale, una sorta di freccia lanciata verso un obiettivo che siamo certi possa trovarsi solo davanti a noi.
Ma se abbandonassimo le convenzioni per una moderna relatività, potremmo collocare ogni cosa all’interno di un momento che non avrebbe specifiche dettagliate.
Certo la difficoltà nel discorso narrativo sta nell’uso imprescindibile del tempo verbale, mi si potrà obiettare. Vero, ma se usassimo con attenta esperienza momenti verbali differenti, magari all’interno di un flusso di coscienza, allora sì che il tempo non avrebbe un periodo fisso e statico, preciso, ma tutto sarebbe insondabile, sospeso, ammantato di quel mistero che permette di essere lì dove si desidera essere, dove la nostra mente vuole abitare, visitando luoghi o persone del passato o del futuro, pur restando fisicamente ancorati a terra.
La finzione letteraria non può avere confini.

Le strutture non possono più essere rigide, predeterminate, limitanti. Non si può più affermare con certezza che il mio atto narrativo debba imprescindibilmente essere raccontato solo utilizzando determinazioni temporali certe e assolute. Poiché nulla è più instabile e relativo del tempo.
E la scrittura, linguaggio e parodia di se stessa, per “arrivare” davvero e per fare a pezzi codici, significanti e significati, invenzioni verbali, dovrà sempre esplodere “in schegge di incandescente (espressionistica) espressività”, come scrisse Alberto Arbasino.
di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)
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