Ecologia: due prospettive da conoscere

Ecologia: due prospettive da conoscere. L’ecologia è una scienza i cui obiettivi e indirizzi si sono grandemente evoluti e modificati nel tempo, passando da un approccio antropocentrico alla valorizzazione dei sistemi complessi che mettono in relazione tutti gli esseri viventi. Due prospettive in particolare hanno giocato un ruolo chiave in questo cambio di paradigma: la teoria di Gaia e la filosofia della Deep Ecology (in italiano Ecologia Profonda). Vediamole insieme.

  • Teoria di Gaia

Non è un caso che questa teoria riprenda il nome dalla Dea della primordialità dell’antica mitologia greca. La teoria di Gaia, infatti, sostiene l’esistenza di equilibri basati su un “metabolismo della vita”, capace di regolare e autoregolarsi.

Ecologia: due prospettive da conoscere. Secondo la teoria di Gaia la biosfera sarebbe regolata da un unico super organismo capace di autoregolarsi, modificando le condizioni ambientali in base alle necessità. Con il fine ultimo di sostenere la vita sul pianeta.

Questa rete di interazioni equilibratrici si sarebbe sviluppata in un aumento costante di complessità e di valore nell’arco di diverse ere. La vita e il pianeta terra si sarebbero dunque evoluti insieme.

In effetti, è l’interazione tra miliardi di microbi e esseri viventi ciò che consente il mantenimento dell’atmosfera così come la conosciamo. Le sue stesse regole sono frutto di milioni di anni di evoluzione, stravolgimenti geologici, aggiustamenti necessari nella chimica dell’atmosfera. Questi cambiamenti sono strettamente legati alle popolazioni di viventi che abitano la terra, al loro numero e alle loro dinamiche di sopravvivenza.

I batteri, in particolare, costituirebbero una garanzia di equilibrio a lungo termine: organismi dalla popolazione quasi illimitata, in grado di modificarsi rapidamente e di “aggiustare” situazioni apparentemente compromesse (persino in condizioni di inquinamento chimico o nucleare).

Ecologia: due prospettive da conoscere. Il suolo è una risorsa preziosa e non rinnovabile proprio in virtù dei complessi meccanismi che concorrono alla sua formazione. In questo processo, i batteri svolgono un ruolo fondamentale. La nostra catena alimentare, senza di loro, sarebbe irrimediabilmente compromessa.

I batteri sono organismi che, non dimentichiamolo, vivono e prosperano ovunque. Sono responsabili di meccanismi indispensabili per la nostra salute e per la salute del cibo che ingeriamo. Trasferiscono informazioni genetiche svolgendo un ruolo fondamentale nell’evoluzione. Riciclano i rifiuti di altri esseri viventi. Insomma, regolano i cicli globali da cui dipendono tutte le altre forme di vita, animale e vegetale.

La teoria di Gaia fu elaborata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979 ed è stata, da allora, ampiamente dibattuta e criticata.

Ora sembra trovare conferma nei più recenti studi sull’ecologia dei sistemi e, ancor di più, nelle ricerche sul ruolo del microbioma.

I batteri: alleati indispensabili anche per la salute umana.

Gli studi sul microbioma dimostrano che i batteri, in particolare quelli presenti nel nostro intestino, sulla superficie della nostra pelle e sulle mucose, influenzano non solo la nostra salute, aiutandoci a prevenire tumori e infezioni, ma persino la nostra psiche. In che modo? Modulando il sistema ormonale (alcuni batteri emettono “molecole segnale”, al pari di neurotrasmettitori e ormoni) e influenzando umore e pensieri. Essi svolgono, dunque, un ruolo regolatore ben più ampio di quanto in precedenza immaginato.

In quest’ottica, la Teoria di Gaia ha trovato nuova linfa vitale.

  • Ecologia profonda

L’ecologia profonda (in inglese deep ecology) è una filosofia che mette al centro la visione ecocentrica, facendo dell’etica ambientale il suo focus fondamentale. In netto contrasto, quindi, con una visione antropocentrica ed egocentrica, che ha sempre messo al centro i bisogni umani rispetto a quelli di altre specie e ha promosso un’idea di progresso basata sul dominio, anche a costo di compromettere la salute degli ecosistemi.

Il termine fu coniato dal filosofo norvegese Arne Næss nel 1973.

Ecologia: due prospettive da conoscere. La Deep Ecology si basa su una visione ecocentrica, rimette al centro delle discussioni sull’ambiente la natura stessa, unendo spiritualità, attivismo, promozione di obiettivi basati sulla qualità della vita e non sul PIL, con una forte critica al modello economico capitalista.

La deep ecology sostiene che la vita (umana e non-umana) abbia di per sé un valore intrinseco.

La biodiversità merita di essere difesa al di là delle logiche di convenienza e sfruttamento. Di fatto, l’attuale interferenza delle attività umane con il resto del mondo naturale si è spinta troppo in là.

Una transizione ecologica reale delle nostre economie dovrebbe perciò puntare su meccanismi virtuosi di decrescita, in netto contrasto con la concezione capitalista basata su bisogni indotti, progresso a tutti i costi e consumismo.

Poiché in natura tutto è collegato, non esiste possibilità di uno sviluppo infinito, squilibrato e incontrollato delle economie umane, se non a costo di una compromissione seria del sistema e delle nostre possibilità di sopravvivenza. Gli uomini, insomma, non hanno alcun diritto di impoverire la ricchezza del pianeta, al solo scopo di soddisfare i propri egoismi.

L’ecologia profonda domanda un ritorno ai bisogni reali dell’umanità: amore e affetti, senso di comunità, creazione artistica e ricerca spirituale. Spostando l’attenzione dai beni materiali alle relazioni.

Ecologia: due prospettive da conoscere. Per l’Ecologia Profonda la felicità è da ricercarsi al di fuori dagli schemi di competizione, sfruttamento, consumo e profitto.

La Deep Ecology promuove il minimalismo e una riduzione reale (lontana, perciò, dalla propaganda greenwashing dalla quale siamo invasi) del nostro impatto sul pianeta. Ci invita, insomma, a tornare a focalizzarci su un’autentica sostenibilità e sul benessere psicologico e sociale degli individui e delle comunità.

 

 

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Anna Stella Dolcetti si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School, specializzandosi in Green Marketing all’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali. Laureata in Lingue e Culture Orientali, è insegnante di Yoga certificata Yoga Alliance RYT-500

Che cos’è il Green Marketing?

Che cos’è il Green Marketing?

In molti lo confondono con il Greenwashing. Ignorando, invece, che il Green Marketing nasce grazie alle pressioni dei movimenti ambientalisti degli anni 70. Esso presenta caratteristiche e strumenti ben diversi da quelli utilizzati dal suo “gemello cattivo” greenwashing. Facciamo chiarezza. 

Dopo aver visto l’ultima campagna di una nota associazione ambientalista fare riferimento al Marketing Green come sinonimo di Greenwashing ho creduto necessario tornare sull’argomento. L’utilizzo improprio del termine è paradossale se si pensa che nella storia del Green Marketing figurano grandi nomi dell’ambientalismo mondiale, come Gro Harlem Brundtland (che oltretutto fu a lungo impegnata anche sul fronte femminista). Esso nasce, infatti, con la volontà di portare il dibattito etico all’interno delle strutture economiche capitaliste, fino ad allora votate soltanto alla crescita ad ogni costo. Ne avevo già parlato in un mio articolo del 2019, che trovate qui. 

Negli ultimi decenni il termine “Green Marketing” è stato spesso utilizzato in modo improprio. Un uso che ha contribuito a sminuire gli sforzi di chi ha fatto dell’impegno verso la sostenibilità una missione. Riappropriamoci, allora, del corretto utilizzo del termine e dei valori connessi alla fondazione di questa disciplina. Recuperando tutto quanto di buono e utile per il pianeta possiamo trarne. 

Che cos’è il Green Marketing? 

Green Marketing è un termine ombrello che abbraccia strategie e strumenti volti al design e alla promozione di prodotti sostenibili, sia a livello sociale che ambientale. La nascita di questa disciplina va a braccetto con l’avvento del concetto di “sviluppo sostenibile”. 

Green Marketing: John Grant è tra i maggiori esponenti della disciplina.

Che cos’è il Greenwashing?

Con Greenwashing si intende un insieme di tecniche volte a ingannare il consumatore, facendo percepire un determinato prodotto o servizio come sostenibile (o più sostenibile di quanto esso sia realmente). Propagandando, cioè, falsi vantaggi per la salute del pianeta, delle persone o delle società. In Italia per Green Washing un’azienda può finire in tribunale e essere condannata per pubblicità ingannevole (come accaduto a Gorizia, lo scorso Febbraio). 

In che cosa Green Marketing e Greenwashing sono diversi?

Il Green Marketing è una scienza sociale che ha come obiettivo quello di generare sostenibilità, conciliando gli obiettivi di crescita con il benessere delle persone e del pianeta. Se il Greenwashing si pone come obiettivo il mettere in piedi un inganno (e l’attenzione del green washer è dunque tutta puntata sul manipolare la mente del consumatore), il green marketer concentra invece i suoi sforzi virtuosi sulla creazione di prodotti e servizi il cui impatto sia ridotto o nullo, studiando a fondo materiali, strategie, opzioni e processi “verdi”, che facciano bene a chi consuma e a chi produce (curandosi, ad esempio, dei diritti dei lavoratori e delle comunità di produttori, riducendo gli sprechi, eliminando le materie plastiche dai packaging, mettendo in piedi strategie circolari).

Nel Green Marketing il design etico del prodotto, che deve essere sostenibile e a basso impatto lungo tutto il suo ciclo di vita, è punto di partenza e condizione imprescindibile. La comunicazione arriva dopo.

Nel Green Marketing il prodotto/servizio è “green by design”, ovvero verde per definizione – o verde o nullo. Intorno al prodotto o al servizio, che deve essere sostenibile, pulito, trasparente e dall’impatto positivo, ruotano tutte le attenzioni del marketer etico. 

A cosa serve il Green Marketing?

L’attenzione nei confronti delle tematiche legate alla sostenibilità è cresciuta negli ultimi decenni. La consapevolezza sull’impatto dei propri acquisti (unita alle eco-ansie) spinge sempre più persone a privilegiare prodotti “eco”, “green” o “naturali”.

Purtroppo, a servirsi di strategie di marketing pervasive sono soprattutto i grandi gruppi multinazionali. Il Greenwashing (ovvero strategie di Green Marketing “snaturate” in quanto prive dei fondamentali presupposti etici), è utilizzato come strumento per aumentare i profitti. E ottiene spesso grande successo nel confondere il consumatore.

Non a caso un recente sondaggio condotto nel Regno Unito, che ha coinvolto oltre mille persone, ha prodotto un curioso risultato: secondo il campione le aziende di retail più sostenibili sarebbero Amazon, H&M e Primark. Lasciamo al lettore le dovute conclusioni (qui come esempio un approfondimento del Guardian sull’impatto sociale e ambientale di Amazon nel 2022). Il dato, comunque, almeno sulla cecità dei consumatori, sembra parlare chiaro.

Tutto questo è avvenuto anche a causa di una “demonizzazione” del marketing in sé e per sé. Dobbiamo riappropriarcene come strumento di design e di comunicazione efficace.

È molto importante che i piccoli produttori, imprenditori e associazioni del mondo green sappiano come comunicare al meglio il proprio valore. Il Green Marketing si rivolge proprio a loro. 

Il marketing etico valorizza le persone e la natura dietro i prodotti.

Conoscere il Green Marketing, infine, come consumatori, ci aiuta a riconoscere i prodotti davvero etici e sostenibili, e ad arginare così il fenomeno del Green Washing, evitando di cadere in trappola.

Quali sono alcuni esempi di Green Marketing? 

I prodotti e le campagne delle imprese del biologico e del biodinamico, il design del merchandising delle associazioni ambientaliste e le loro campagne di raccolta fondi. I prodotti e le campagne dei consorzi equosolidali. La strategia social del turismo responsabile e solidale. Sono tutti esempi di messa a terra di strategie di Green Marketing. 

Le campagne del Green Marketing non si limitano a presentare il prodotto come sostenibile, bensì forniscono garanzie di conformità a standard di sostenibilità riconosciuti e affidabili.

Agiscono inoltre come vere e proprie campagne di  sensibilizzazione per il consumatore, che viene invitato a informarsi e a comprendere maggiormente cosa si celi dietro ogni acquisto, aiutandolo a evitare di cadere nei tranelli del Green Washing.

Un esempio di Green Marketing: Campagna pubblicitaria dei negozi NaturaSì.

Nel Green Marketing l’etica è il fondamento dell’azione e consumatore e produttore sono vicini, condividono gli stessi valori, che portano avanti producendo o acquistando prodotti e servizi sicuri e trasparenti. 

Non solo tutela dell’ambiente: anche i diritti dei lavoratori sono una tematica centrale nella campagne Green. Un prodotto è sano quando rispetta tutti.

Il Green Marketing è comune anche nelle medie e piccole imprese, dove l’artigianalità del prodotto e l’attenzione alla tutela dei territori e delle risorse è più forte. 

Come riconoscere il Green Washing?

La maggior parte delle campagne di prodotti “verdi” portate avanti da grandi gruppi multinazionali ricade nel greenwashing. Questo perché l’impatto di alcuni grandi gruppi sull’ambiente e sulle società è talmente grande da non poter essere compensato da piccole azioni, che oltre a essere gocce nel mare, vengono utilizzate come “scuse” per “vestirsi” di sostenibilità. I casi più eclatanti riguardano le aziende coinvolte nell’inquinamento da plastica (ad esempio i produttori di acqua o bibite in bottiglia).

Campagna di Greenpeace contro Coca Cola.

Anche i grandi gruppi di fast fashion ricorrono al greenwashing. Pur rappresentando la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella del petrolio e la seconda industria per impiego di schiavitù infantile e femminile nella produzione, si servono spesso di “capsule collection”, ovvero collezioni in edizione limitata, prodotte in cotone biologico o in plastica riciclata. Le campagne pubblicitarie dedicate sono spesso un trionfo di multiculturalità, empowerment femminile e bambini che giocano spensierati tra i prati. Il ritorno di immagine è alto, almeno nel consumatore poco attento. La spesa, per la grande azienda fashion, è minima. E può continuare a inquinare in pace. 

Il Greenwashing (e i suoi fratelli Pinkwashing e Socialwashing) spesso adottano strategie sottili e subdole, che rendono difficile anche al consumatore esperto e scaltro accorgersi dell’inganno.

Accade, ad esempio, quando i grandi gruppi progettano e mettono in vendita nuovi brand. Un processo che vede la fondazione di aziende ad hoc, senza che l’affiliazione alla multinazionale madre sia chiaramente esplicitata. E così, il principale produttore di plastica mondiale può mettersi a vendere succhi di frutta “naturali”, con un nuovo nome e una nuova veste grafica accattivante. L’ignaro consumatore li mette nel carrello, senza sapere che sta finanziando un’azienda che magari, su altri prodotti, boicotta. 

Come puntualizza Matt Palmer di Plastics Rebellion – Gruppo appartenente a XR UK (in questo articolo), “Il greenwashing […] è pericoloso: significa che le persone decidono volontariamente – e inconsapevolmente – di supportare il tuo progetto, nella convinzione errata di fare del bene al pianeta”.

 

Il Greenwashing è una “verniciata di verde”, che sotto la superficie si dimostra ben poco sostenibile.

 

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Anna Stella Dolcetti si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School, specializzandosi in Green Marketing presso l’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali. Laureata in Lingue e Culture Orientali, è insegnante di Yoga certificata Yoga Alliance RYT-500. 

Nello spazio e nel tempo

Nello spazio e nel tempo della scrittura tutto può e deve essere possibile.

Tutto e il contrario di tutto, se “tutto” indica sì una quantità non ben definita (o irrimediabilmente difficile da contenere nell’immaginazione) ma anche e soprattutto la profondità con cui questa dovrebbe essere raccontata.

Ma nella scrittura in cui ci si imbatte e con cui si è costretti a fare i conti da più di vent’anni, il dono dell’imprevisto, del “tutto” complesso e stilisticamente superiore, ha lasciato il posto a patetici tentativi d’opera.

A cominciare dalla gestione del tempo e dello spazio.

  • Gestione dello spazio

Nello spazio e nel tempo della scrittura non si ha l’obbligo dell’informazione certa.

La contestualizzazione spaziale dietro alla quale molti autori del mainstream si rifugiano per i loro apparenti non confessabili pensieri e comportamenti, si realizza sempre in luoghi fintamente umanizzati, ingenuamente “reali”, dotati di una quantificabile e determinata distanza relazionale (vicino, lontano, a due passi da, sopra, sotto…).

Questo li conforta e li tranquillizza, perché attraverso esperienze semplici e ben collocate in un preciso spazio d’azione, possono narrare la banalità dell’essere. Ovvero, possono descrivere quello che “tutti pensano e sentono”, senza mai scoprire le loro vere intenzioni (sempre che ne abbiano).

Non desiderano altro che compiacere a tutti i costi, evitando accuratamente di risultare “pesanti” e complessi nel lessico, asserviti a un mercato editoriale sempre meno esigente.

Fingono oppure una spregiudicatezza sessuale, cercando di risvegliare nel lettore quell’eccitazione da iniziazione adolescenziale che bene si confà a letture distratte in assolati momenti vacanzieri o in tediose domeniche invernali.

Ricordiamo che lo scrittore non è uno storico, a meno che non scriva esplicitamente di fatti e uomini più o meno lontani nel tempo (ma allora si tratta di un lavoro di attenta ricerca, spesso di accademia). Non è neanche un giornalista (mestiere diverso e mal conciliabile con l’autorale).

Nella scrittura di romanzi o racconti si seguono regole diverse rispetto a quelle imposte dalla scrittura scientifica o giornalistica.

Nello spazio e nel tempo della scrittura non si ha perciò l’obbligo dell’informazione certa. Lo scrittore ha dalla sua lo strumento della più libera interpretazione di ciò che vede e vive – compresa quella di gestire una punteggiatura e una struttura del periodare svincolata da regole imposte per convenzione, perché profondo conoscitore di tutti quei dettami che si accinge ad infrangere e a sovvertire -.

Cioè è libero da ogni legame. Non deve piacere a tutti i costi. Non deve essere politicamente corretto, non deve ammantarsi di infinita umanità per scrivere.

Uno scrittore deve scrivere perché ha l’esigenza di farlo e di farlo senza rispettare regole preconcette, senza essere ingabbiato in uno status, senza obblighi morali.

I buoni sentimenti a tutti i costi, quelli decomplessificati, pensierini da scuola elementare di certi scrittori e poeti contemporanei o il loro rozzo humor nero, dovrebbero essere lasciati ai giornalisti del caffè del mattino, a certe riviste patinate, a certi “strilloni” che fanno dell’insulto un comodo alibi per nascondere l’assoluta mancanza di pensiero.

Parole mainstream. Si soffre la mancanza di complessità e di profondità di pensiero.

Nel narrare un’azione, una storia o un singolo istante fatto di sensazioni o percezioni, gli scrittori cólti possono invece sottrarsi dall’obbligo di precisare il luogo in cui tutto si svolge.

Possono delinearne semplicemente i contorni, descriverne solo alcune caratteristiche o raccontare anche i più piccoli dettagli, senza però permettere il riconoscimento di un luogo preciso, che abbia nome e coordinate certe e, magari, instillare nel lettore il dubbio che si tratti di un sogno, di un’allucinazione, di una rêverie, insomma.

Il luogo deve suscitare curiosità e interesse nel lettore, senza però svelarsi troppo. Niente di più facile che risultare banali.

Anche quando uno scrittore cita il nome di un luogo e ne indica sezione e inquadramento, questo può risultare ineffabile, difficile da cogliere nella sua interezza.

Perché uno scrittore deve rispondere soprattutto a se stesso, alle sue intenzioni, alle sue sensazioni.

E queste mai saranno dirette verso spiegazioni pedisseque e non richieste, verso il tutto esplicitato, perché è il mistero del vero/non vero, che da sempre avvolge la finzione letteraria, a costituire l’unica e la sola regola dell’animo autoriale.

  • Gestione del tempo

Usciamo dalla linearità. Deformazioni nello spaziotempo.

Posso fare lo stesso con il tempo?

Apparentemente no, perché si suppone che, per convenzione, il tempo sia lineare o unidirezionale, una sorta di freccia lanciata verso un obiettivo che siamo certi possa trovarsi solo davanti a noi.

Ma se abbandonassimo le convenzioni per una moderna relatività, potremmo collocare ogni cosa all’interno di un momento che non avrebbe specifiche dettagliate.

Certo la difficoltà nel discorso narrativo sta nell’uso imprescindibile del tempo verbale, mi si potrà obiettare. Vero, ma se usassimo con attenta esperienza momenti verbali differenti, magari all’interno di un flusso di coscienza, allora sì che il tempo non avrebbe un periodo fisso e statico, preciso, ma tutto sarebbe insondabile, sospeso, ammantato di quel mistero che permette di essere lì dove si desidera essere, dove la nostra mente vuole abitare, visitando luoghi o persone del passato o del futuro, pur restando fisicamente ancorati a terra.

La finzione letteraria non può avere confini.

Nello spazio e nel tempo, la finzione letteraria non può avere confini.

Le strutture non possono più essere rigide, predeterminate, limitanti. Non si può più affermare con certezza che il mio atto narrativo debba imprescindibilmente essere raccontato solo utilizzando determinazioni temporali certe e assolute. Poiché nulla è più instabile e relativo del tempo.

E la scrittura, linguaggio e parodia di se stessa, per “arrivare” davvero e per fare a pezzi codici, significanti e significati, invenzioni verbali, dovrà sempre esplodere “in schegge di incandescente (espressionistica) espressività”, come scrisse Alberto Arbasino.

 

 

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

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Per approfondire la tematica Manifesto Decostruttivista

Manifesto Decostruttivista: Intervista a Claudio Simoncini 

Manifesto Decostruttivista: Intervista a Claudio Simoncini. Neuroscienziato, romanziere e artista, autore del Manifesto Decostruttivista edito nella nostra Collana Prospettive Alt(r)e. Abbiamo raggiunto telefonicamente il nostro autore, che da molti anni vive a Marsiglia, per svelarvi il suo mondo in nove domande. A partire dal rapporto con la scrittura.

Claudio, raccontaci cos’è per te la Scrittura. 

Innanzitutto, per me la scrittura è essenzialmente tempo e spazio. Questo perché le dedico, ed essa stessa mi richiede, gran parte della mia esistenza. Sicuramente non scrivo per comunicare il mio pensiero, né scrivo per spiegare quello che ho dentro, perché, se volessi farlo, utilizzerei metodi, frasi, parole, costruzioni verbali e lessicali molto più semplici. Scrivo piuttosto perché sono l’unica persona che può dire e di conseguenza mettere nero su bianco quello che vorrei ma non posso leggere, perché non è pubblicato.

Paradossalmente, nel momento in cui penso questo, mi siedo alla scrivania e le frasi vengono da sé, automaticamente, una dopo l’altra, come si capisce, in maniera chiara, leggendo le cose che scrivo.

Non credo sia un processo molto diverso da quello che guida qualsiasi altro artista, a prescindere dal metodo scelto per comunicare, per questo mi piace essere identificato più come tale, che come scrittore. Ci tengo a dire che scrivere, per me, non è affatto una cosa piacevole.

Non ci trovo nulla di piacevole a star seduto davanti a una scrivania, solo, in una stanza, al chiuso, nel silenzio, per ore. Perdonatemi se non vedo in tutto ciò quel fascino che molti scorgono nella figura dello scrittore. Perdonatemi se detesto l’odore della carta e dell’inchiostro, il cattivo odore che si diffonde nel mio studio, dopo ore di lavoro, porte e finestre chiuse per lasciar fuori il rumore che disturba i pensieri.

Tuttavia, quel foglio bianco davanti ai miei occhi, rappresenta, come ho detto prima, il mio tempo, il mio spazio. Rappresenta la più grande libertà che io conosca, le infinite possibilità non ancora esplorate e l’infinito universo, all’interno del quale dormono tutti gli scrittori, i filosofi, i pensatori che ho letto, tutti gli artisti che ho incontrato sul mio cammino, persone che mi fanno tanta compagnia. Mi piace esistere con loro, nella loro libertà, per questo scrivo. 

Cosa rende la tua scrittura innovativa?

Non credo che la mia scrittura, in quanto tale, sia davvero innovativa. Mi ispiro a persone che sono esistite e che hanno fatto questo prima di me. La mia, semmai, è un’innovazione necessaria a scardinare una tendenza che ultimamente si è sviluppata nella scrittura e nella letteratura: una certa banalità, un certo modo di narrare e vedere le cose che spesso sfiora la sterilità. La mia è un’innovazione al contrario. Un ritorno al passato. Prendo quello che è stato fatto e lo rielaboro in funzione della nostra epoca.

Se davvero vogliamo parlare di innovazione, allora possiamo farlo in relazione ai contenuti, che sono originali, perché nessuno ha vissuto la mia vita o pensa come me. Noi tutti siamo esseri unici, e come tali, possiamo comunicare sempre, se lo vogliamo, qualcosa di innovativo e nuovo.

Tu sei un neuroscienziato, con esperienza accademica nel campo della percezione visiva, maturata tra Marsiglia e Chicago. Quanto di questo bagaglio scientifico hai portato con te nella scrittura?

Ho svolto ricerca accademica come neuroscienziato per una decina di anni, ma sono anche stato un cameriere, un pizzaiolo, un lavapiatti, un meccanico, un militare, un pasticcere, uno studente, dentro la scrittura ci finisce tutto.

Tutto quello che ho vissuto, e non ho vissuto, il mio essere figlio, padre, marito, amante, fidanzato, amico, la musica che ho ascoltato, i libri che ho letto, le opere d’arte che ho visto, la mia memoria, insomma, rinasce nella mia scrittura, a volte volontariamente, altre volte inconsciamente.

L’esperienza come scienziato e nello specifico come neuroscienziato mi ha comunque permesso di approfondire le mie conoscenze sul metodo scientifico, di sviluppare ampie capacità analitiche e critiche. Tutte cose che ritengo importantissime, soprattutto per vivere nella nostra società odierna, ma anche per essere un bravo artista. D’altronde sono nato a qualche chilometro da Vinci, non posso pensarla diversamente. 

Nei tuoi scritti però parli spesso di tempo, spazio, sogno, realtà. Le Neuroscienze hanno un ruolo in tutto questo?

Indubbiamente le conoscenze acquisite nel corso degli anni su come il cervello costruisce la realtà che abbiamo intorno, mi hanno portato a riflettere su molte tematiche interessanti. Come per esempio il concetto di “realtà”, cosa sia vero o falso, e su cosa siano realmente il tempo e lo spazio, e più in là, la coscienza stessa. Tutti elementi che entrano in maniera dirompente in quello che faccio, e di riflesso, in quello che scrivo. 

Cos’è per te il Decostruttivismo e come nasce l’idea del “Manifesto Decostruttivista”?

Il Decostruttivismo sposa perfettamente con l’idea che amo di più, il fatto che non esista una sola realtà, la realtà esterna a noi. Esistono centinaia di realtà differenti, tante quante sono le persone presenti sulla Terra, più le diverse sfaccettature delle differenti società. Chi può dire quante realtà esistano davvero? 

Spiegati meglio…

Il Decostruttivismo, che non vuol dire: “fare a pezzi”, bensì accettare che alcuni concetti, come per esempio la “realtà”, siano impossibili da definire, è qualcosa che mi è utile per riuscire, prima di tutto, a identificare l’incertezza del mondo al di fuori di me. Perché per me la realtà ha una precisa “faccia” ed è quella che io le do, e che è differente da quella di chiunque altro.

Non solo. Il Decostruttivismo mi permette di esistere all’interno del mio mondo in quanto artista e scrittore, l’unico mondo all’interno del quale io possa “essere davvero”. La società è talmente alienante oggigiorno, riconoscermi in essa non soddisfa la mia esistenza, casomai ribadisce la mia appartenenza a un gruppo, ma non posso considerarla esistenza. Nell’ultimo istante della mia vita, la società non verrà a rendermi merito, forse quando sarò morto, dopo che i miei parenti avranno pagato circa diecimila euro per seppellirmi.

Sento di esistere soltanto all’interno del mio mondo e il Decostruttivismo mi permette di superare lo stress psicologico relativo allo scontrarsi della mia realtà con quella degli altri e con la realtà che la società, in cui vivo, mi impone. 

E il Manifesto?

Pura e innocente provocazione: perché se esistono tante realtà, perché dobbiamo sorbirci tanta banalità? 

Manifesto Decostruttivista

Il tuo è il primo romanzo in assoluto pubblicato da Kressida Editore. Come sono i rapporti con una casa editrice indipendente?

Non so come sia lavorare con una Casa Editrice indipendente, perché conosco solo la realtà in cui mi trovo, quindi la mia collaborazione con Kressida editore.

Posso dire che per me, un editore che ti comprende, capisce quello che fai, non prende il tuo manoscritto e lo smembra affidandolo a editor o ad altre figure dell’editoria, che ti lascia la tua Voce insomma, e che allo stesso tempo ti stimola, ti aiuta, ti inserisce al centro del suo mondo, perché sa di esistere anche grazie a te, è un ottimo editore.Un ottimo punto di partenza per future realtà editoriali, molto più centrate verso l’artista che non verso il mercato o chi usufruisce dell’opera.

Quindi, in questa realtà io mi trovo molto bene, perché mi dà ampio spazio di libertà e io ho bisogno della libertà per poter lavorare e scrivere in maniera ottimale. Kressida ha pubblicato il mio lavoro senza chiedermi soldi, senza domandarmi di acquistare copie del libro, e ha fatto un lavoro eccellente. Non conosco altre case editrici indipendenti, ma se sono così, ben vengano sempre di più!

Progetti futuri?

Progetti futuri: sono talmente tanti! Perché privare i lettori del gusto della sorpresa? Posso solo dire che ce ne sono e stanno evolvendo molto rapidamente. A breve, quindi, grandi novità. 

 

 

 

Il Blog di Claudio Simoncini: Deconstructing Claudio

La storia delle donne

Natalie Zemon Davis è stata la prima studiosa a occuparsi della storia delle donne, rivoluzionando l’approccio alla storiografia e promuovendo una visione inclusiva.

La storiografia tradizionale ha per secoli ignorato il ruolo femminile negli eventi storici. La “storia delle donne” è esistita, eppure non è stata sufficientemente raccontata. Ma il fiorire degli “Women’s Study” come disciplina accademica, negli ultimi decenni, ha contribuito a rinnovare il metodo dell’indagine storica e a rivelare nuovi sentieri dell’esperienza femminile.

Nel 1976 la storica e antropologa Natalie Zemon Davis pubblica sulla rivista Feminist Studies un articolo dal titolo “Women’s History in Transition”.

L’obiettivo è rispondere a una domanda semplice quanto rivoluzionaria – ancor più nello scenario accademico americano degli anni ’70 (la Zemon Davis era docente a Princeton) – : Esiste una storia delle donne?

La storia delle donne – La storica e antropologa Natalie Zemon Davis è la prima a interrogarsi sulla sua esistenza

Per rispondere a questa domanda la studiosa si avvale di un gran numero di fonti, concentrandosi in particolare sulla storia moderna e su come la storiografia a essa collegata rappresenti il femminile. Dalla sua ricerca conclude che la storiografia esistente non rende giustizia alle storie delle tante donne che nei secoli hanno vissuto e plasmato il tessuto economico e sociale. Occorre allora ricostruirne il ruolo, approcciando le fonti con sguardo nuovo.

Riscoprire la storia delle donne significa allontanare le loro soggettività da stereotipi e fissità.

La storiografia tradizionale ha ignorato il ruolo delle donne all’interno del grande fiume della storia. Iscrivendole in una dimensione strettamente biologica e immutabile. Chiudendole in immaginari, fissità e stereotipi che, come gabbie, hanno reso impossibile a priori che si raccontasse il loro ruolo attivo nel forgiare epoche e modelli.

Vergine, concubina, moglie, madre o strega: nella storiografia tradizionale le donne non agiscono mai fuori dagli schemi.

La storia delle donne è stata rappresentata per secoli attraverso l’utilizzo di poche categorie fisse. Incisione di J. van de Velde, “La Strega” (1626)

La Zemon Davis è la prima a invocare una visione “pluridimensionale” dell’indagine storica.

La storia delle donne non si oppone alla “storia generale”, né deve essere considerata una “storia particolare” o alternativa.

Essa è piuttosto una storia di relazioni. E si rivela intrinsecamente legata al significato che ogni cultura – e ogni epoca – attribuisce all’individuo sulla base del suo “genere” (termine che Zemon Davis non utilizza ma che diverrà popolare con l’avvento degli studi dedicati a questa tematica).

Conoscere la storia delle donne significa valorizzare tutti soggetti e gli attori della storia. Riconoscendo che ognuno di essi deve essere indagato in virtù dei suoi legami con la cultura nella quale è immerso.

Gli studi sulla storia delle donne “fanno bene” anche agli uomini: da queste ricerche, infatti, nasce una nuova attenzione verso il mondo maschile, non più spersonalizzato e ridotto a uno standard. L’uomo non è più inteso come categoria “generale”, ma diviene categoria di genere, che deve essere indagata e compresa nei suoi meccanismi fondanti, nelle sue sfumature e relazioni.

Indagare la storia in maniera inclusiva è un processo profondo, che genera scompiglio. Si arriva a “sparigliare le cronologie”.

La definizione è di un’altra importante studiosa del settore, Joan Kelly Gadol, storica del tardo medioevo e del rinascimento.

Sparigliare le cronologie” significa riconoscere che alcune categorie assurte a generali non sono applicabili in egual misura alla storia di uomini e donne.

L’esempio classico? il Rinascimento: per le donne non fu epoca in cui fiorire, vivere di arte e di scienza, realizzare gli ideali dell’umanesimo. Eppure anche le donne ebbero il loro Rinascimento: è il periodo della poesia trobadorica e dell’amor cortese, in cui espressero ed esercitarono forme di potere.

 

Amor cortese.

L’analisi dell’esperienza femminile attraverso i secoli ha portato alla luce saperi, storie, percorsi e tesori inaspettati. Ricerche che vanno di pari passo con la rivendicazione di pari opportunità e diritti, di un “potere” femminile a lungo nascosto e negato.

Per una storia più inclusiva e più giusta.

Le Grandi Dimissioni. Alla ricerca di una vita sostenibile

Il tema della sostenibilità investe ogni aspetto della nostra vita. Anche quello lavorativo. Il fenomeno delle Grandi Dimissioni ha portato alla luce quanto la ricerca di una vita rispettosa delle nostre emozioni possa spingerci ad affrontare l’incertezza e condurci lontano.  

“Sostenibile” significa “Che può essere affrontato”.  

Ragionando sul concetto di sostenibilità mi sono imbattuta in articoli, podcast, blog, libri, conferenze che negli ultimi mesi hanno popolato social e rubriche. Ad oggi possiamo attingere a una grande quantità di informazioni e nozioni sul tema della sostenibilità.

Ma cosa si intende per sostenibilità?

“Sostenibile” significa “che può essere affrontato”. – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Stando al vocabolario, sostenibilità significa “La possibilità di essere sopportato, spec. dal punto di vista ecologico e sociale.”


La definizione di sviluppo sostenibile secondo la Commissione delle Nazioni Unite è “lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri”. La sostenibilità è legata al processo di cambiamento, dove lo sfruttamento delle risorse, gli investimenti e l’integrazione tecnologica lavorano assieme per valorizzare non solo il potenziale attuale, ma anche quello futuro. I pilastri sui cui si fonda sono, convenzionalmente, tre: economico, ambientale e sociale. Se interconnessi e adeguatamente comunicanti, possono dar vita a sistemi e società virtuose e rispettose degli ambienti socio-culturali nelle quali sono inserite. 

Oltre le convenzioni, però, ci siamo noi, che abitiamo e viviamo questi contesti socio-culturali con le nostre quotidianità, i nostri desideri, i nostri sogni, facendo del nostro meglio per vivere in “maniera sostenibile”. 

Ognuno di noi agisce con la sua matrice e la sua motivazione personale che lo spinge a differenziare i rifiuti, a scegliere la bicicletta al posto dell’automobile, a chiudere il rubinetto mentre ci si spazzola i denti, a coltivare l’orto condominiale condiviso, a scegliere lo scambio di abiti usati piuttosto che acquistarne di nuovi. Potrei citare tanti esempi virtuosi, facilmente scovabili nel mondo del web. Ma io vorrei uscirne, oggi, e vedere cosa succederebbe se alla parola sostenibilità affiancassimo un quarto pilastro: l’emotività. 

Vivo da due anni in una regione montana del nord Italia perché nel settembre 2020, in piena pandemia, quando iniziavano ad aprirsi primi spiragli di libertà rivelatesi poi essere solo momentanei, ho lasciato tutto quello che avevo costruito in ventotto anni tra le risaie della pianura padana e i navigli milanesi. Col senno di poi, ho scoperto di non essere stata l’unica, ma anzi, che come me stava facendo circa l’85% in più di lavoratori rispetto all’anno precedente la pandemia (fonte: Ministero del Lavoro, Banca d’Italia e ANPAL).

Tutto questo sarebbe diventato un vero e proprio fenomeno, chiamato “le Grandi Dimissioni”.

L’ho fatto perché una spinta dentro di me mi diceva che quella vita non era quella che volevo. Che dovevo cercare altro, o altrove, una vita che mi rendesse serena e in equilibrio. Si è trattato, in verità, di una scelta di pancia, che devo ammettere di aver fatto nel pieno delle mie possibilità di quel momento, nonché nel pieno di tutte le mie paure. Ho pensato “Se non ora, quando?” con tutta la spontaneità, la semplicità (e l’ingenuità) che chi mi conosce sa bene che spesso mi contraddistinguono.

Ho lasciato un lavoro da Art Director in un’agenzia pubblicitaria di Milano, dove avevo un contratto a tempo indeterminato e un’infelicità a tempo illimitato che mi garantivano uno stipendio fisso alla fine del mese.

Le Dimissioni come strumento di libertà: alla ricerca di una vita emotivamente sostenibile. “Avevo un contratto a tempo indeterminato e un’infelicità a tempo illimitato” – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Non sopportavo il peso della contraddizione che in quegli ambienti regna sovrana: si organizzano teambuilding per creare affiatamento tra colleghi ma poi, di contro, non viene persa occasione per fare nascere competizione e gelosie interne. La vita privata sembra non essere importante ma, anzi, completamente ignorabile. Ciò che conta è dimostrare di lavorare sempre di più e sempre meglio.

Ho abbracciato l’incertezza e me ne rendo conto solo adesso, abbandonando quell’illusione di felicità ovattata che ti porta, di contro, la certezza.

Se lo chiedeste ai miei genitori probabilmente non sarebbero d’accordo con me. Tutt’oggi si chiedono come abbia fatto, con uno sguardo nei miei confronti sempre a cavallo tra l’affascinato, l’ammirato e il preoccupato. Ho abbandonato la certezza, per quanto mi riguarda, non solamente dal punto di vista lavorativo e professionale ma anche personale, avendo lanciato alle ortiche solo poche settimane prima il mio matrimonio, già organizzato e fissato. Insomma, nel giro di un paio di mesi la mia vita si è totalmente ribaltata. Se qualche anno fa mi avessero raccontato cosa sarei riuscita a ricostruire e come sarei riuscita a ricostruirmi non ci avrei mai creduto. Qui dove vivo ho trovato una nuova dimensione. Certamente non è quella di un lavoro fisso, ma mi dà l’opportunità di vivere a pieno le mie giornate, libera delle mie decisioni e padrona del mio lavoro da Art Director e illustratrice Freelance.

Vivo finalmente a contatto con la Natura, perché la vicinanza con la terra è molto più sentita. E anche se si sta per due settimane senza uscire per fare trekking, si vive a contatto con l’ambiente, con la montagna, con il lago, con le vigne e gli uliveti.

Qui la pioggia è semplicemente pioggia, non un peso che intensifica il traffico del lunedì mattina. La neve è semplicemente neve, non un imprevisto che sporca le strade. Le persone sono semplicemente persone, e spesso non una fonte di guadagno o un numero seriale del badge di lavoro. 

“Vivo finalmente a contatto con la Natura. Cambia il paradigma, cambia la scala di valori, cambiano gli occhi con cui si guarda il mondo”. – Illustrazione di Tiziana Pesenti

Con questo non voglio rinnegare quello che è stata la mia “vita precedente” – e la chiamo così volontariamente, perché adesso mi sembra di viverne un’altra totalmente nuova. Vorrei solo scrivere di come ho dovuto, nella mia piccola esperienza, valutare quanto fosse emotivamente sostenibile una scelta piuttosto che un’altra, quando, di contro, l’altra scelta era anche solo restare ferma dove mi trovavo, nella vita che conoscevo e che avevo imparato ad apprezzare con gli anni.

Se il concetto di sostenibilità è strettamente legato al concetto di cambiamento e di sguardo al futuro è facile capire come adattarlo alle nostre vite e come fare dei ragionamenti soggettivi che possano aiutarci a “sfruttare” a pieno le nostre risorse personali per inseguire la felicità, o qualcosa che le si avvicini il più possibile. 

Rispettando noi stessi, i nostri desideri, le nostre paure, i nostri passati traumatici, i nostri ricordi felici, i nostri passi falsi e i nostri difetti più profondi, senza giudicarci, possiamo arrivare a capire quanto una scelta sia da noi sostenibile nel lungo periodo. Rientra nella nostra necessità di essere umani e di tutelare noi stessi in un momento storico che sembra non vedere mai luce. È adesso, quando tutto intorno a noi sembra crollare e tornare ad essere precario, che dobbiamo prendere il coraggio di ascoltare. Seguendo quella voce interna che troppo spesso mettiamo a tacere. 

A Milano si parla di lavoro prima ancora di sapere il nome dell’interlocutore. Adesso, qui in Trentino, mi rendo conto di avere intere conversazioni senza che l’argomento lavoro venga nemmeno sfiorato.

Cambia il paradigma, cambia la scala di valori, cambiano gli occhi con cui si guarda il mondo. Tutto sta nell’essere pronti ad accogliere il cambiamento. E, a lungo termine, a sostenerlo con tutti i nostri mezzi e il nostro bagaglio emotivo. Presto potremo accorgerci che avremmo dovuto rischiare prima, perché eravamo pronti da molto più tempo di quanto pensavamo.

 

Testo e illustrazioni di Tiziana Pesenti (Illustratrice e Art Director, specializzata in Branding e Green Design, Tiziana è tra i docenti della nostra Summer School in Green Marketing