Il Bello Odoroso Preraffaellita

Alchimie odorose e percezioni sensoriali: è il Bello Odoroso Preraffaellita, che coniuga naturalismo e simbolismo.

La “Confraternita dei Preraffaelliti” nasce nel 1848, in piena età vittoriana, con lo scopo di combattere contro l’arte dell’Accademia e riportare in auge i grandi artisti del Tre-Quattrocento, quelli “prima” di Raffaello.

I preraffaelliti sono artisti in cui fiori e piante divengono simboli che richiamano antiche e oscure arti alchemiche. Ma anche percezioni sensoriali: è il “bello odoroso” preraffaellita.

Un gruppo di giovani che dipinge utilizzando la “facture”, cioè la pennellata ben visibile, tracciata sulla tela per dare consistenza e fondere in modo euritmico gli elementi dell’immagine riprodotta. Le loro opere vogliono essere un ritorno all’arte primitiva, quella dalle linee semplici e armoniose, per riprodurre del vero ogni sfumatura, anche quella odorosa.

Così Dante Gabriel Rossetti, John Everett Millais, Edward Burne-Jones, William Holman Hunt e John William Waterhouse (solo per citarne alcuni) fecero delle loro opere un vero e proprio campo di sperimentazione estetica e sensoriale.

Quella dei pre-raffaelliti è una pittura di stampo letterario-simbolista, come nella famosa opera Ophelia di John Everett Millais.

Il dipinto riproduce la morte di Ofelia (uno dei momenti più toccanti dell’Amleto di Shakespeare), un istante prima di annegare.

Ophelia
Il bello odoroso preraffaellita. Mentre Ophelia lascia la vita, intorno piante e i fiori appaiono ricche di colori e brillantezza.

Nell’Ophelia tutti i fiori rappresentati sono simbolici: c’è il rosmarino e ci sono viole del pensiero che alludono al ricordo e alla memoria; c’è la pianta del finocchio selvatico che allude all’adulazione, la ruta che simboleggia il pentimento, le margherite, segno di innocenza e purezza; ci sono i papaveri rossi simbolo di sonno e di morte.

“Il bello odoroso” preraffaellita coniuga così il naturalismo con la condivisione di turbamenti simbolisti. In una continua ricerca verso l’estetismo tout court, che ogni pittore interpreta secondo la propria personale sensibilità artistica.

Dante Gabriel Rossetti, ossessionato dall’immagine della moglie Elisabeth Siddal, sua Musa, morta in giovane età per un’eccessiva quantità di laudano, la riproduce idealizzandola e rappresentandola in moltissimi dei suoi quadri. La dipinge come la Beata Beatrix (riferimento alla Vita Nova, lui conoscitore dell’opera dantesca fin dalla giovane età): ‘Quella beata Beatrice che gloriosamente mira alla faccia di colui qui est per omnia soecula benedictus”, o come Pia de’ Tolomei, ricercando in lei quella donna angelicata, pura ed eterna.

E sempre la simbologia floreale che tutto racchiude in sé come nella Venere Verticordia, dipinta nel 1868, circondata da gigli simbolo di castità e le rose simbolo di eterna ma fugace bellezza, di passione e tormento.

Una donna che nasconde in sé due “volti”: ha i capelli rossi, quindi simbolo e richiamo diretto alla stregoneria, ma ha anche l’aureola a cingerle il capo, rappresentazione simbolica del sincretismo pagano – cristiano.

Il bello odoroso preraffaellita. Venere Verticordia, una donna che nasconde in sé due “volti”

Il bello odoroso diviene così vero e proprio oggetto di contemplazione, sottoposto al giudizio dello spirito e del proprio naso. Perché l’immagine sia vocazione alla contemplazione e rievocazione del mondo dello spirito, stimolo alla produzione artistica.

 

Il bello odoroso preraffaellita. «Per certi profumi, violenti, ogni materia è porosa. Filtrano, si direbbe, attraverso il vetro o la tela» (C. Baudelaire, Les fleurs du mal).

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

Onozukara 自ずから- Vivere naturalmente

Onozukara 自ずから: “vivere naturalmente”. Una parola che pare contenere l’universo. Con questo approfondimento vi conduciamo alla scoperta della libertà naturale, vista attraverso il pensiero non dualistico della filosofia giapponese. 

Esiste un senso di libertà che spesso viene dato per scontato ed è quello che ci permette di vivere in accordo con noi stessi e con i cicli della natura.

Per molte persone non è immediato afferrare questo principio apparentemente semplicistico ma profondamente istintivo. Il mondo attuale ci ha abituati alla separazione e alla disgregazione delle parti in nome di una imprescindibile categorizzazione del tutto. Senza di essa sentiremmo di non avere gli strumenti necessari per comprendere ciò che ci circonda. Pare quindi necessario, per poter funzionare correttamente in questo sistema a compartimenti stagni, sottoscrivere tacitamente il frazionamento del proprio essere in mente, corpo e spirito. Separando così ciò che era originariamente unito.

Questa divisione affonda le sue radici in un tempo ormai lontano. Per questo non dovrebbe sorprenderci il nostro modo di vivere nella continua percezione di trovarci in un ecosistema a sé stante, distinto dal macrocosmo della natura ed indipendente nelle sue forme di pensiero più evolute ed organizzate.

In questa visione riduzionista, la “naturalezza” è stata allontanata dal concetto stesso di natura, asservendo ogni movimento del cosmo a leggi costruite dall’uomo secondo un’osservazione soggettiva e duale dell’universo. Restituendoci un mondo basato sullo sfruttamento e sulla superiorità antropocentrica. 

Per comprendere al meglio il concetto di “naturalezza” è utile rivolgere la nostra attenzione a una visione più olistica e comprensiva. Come quella suggerita dalla filosofia giapponese, per la quale la natura non è mero oggetto di studio, ma un modo di vivere con presenza e consapevolezza.

L’analisi etimologica dei termini utilizzati per trattare questo tema è un ottimo punto di partenza per aprirsi a una percezione più inclusiva. Iniziamo con la parola giapponese che modernamente traduce “natura”, ovvero shizen 自然.

Originariamente shizen veniva utilizzata sia sotto forma di aggettivo (“naturale”), che di avverbio (“naturalmente”). Essa era così più legata alla concezione del muoversi in accordo con l’universo, rispetto a una definizione, quella attuale, piuttosto restrittiva.

Nachisan, Nachikatsuura, Japan
“Vivere naturalmente” in accordo con noi stessi e con i cicli della natura, dona un senso di libertà.    Via del pellegrinaggio sacro Kumano Kodo a Nachisan, Nachikatsuura

 

 

Interessante notare come il radicale (l’unità di base dei caratteri giapponesi) che troviamo in shizen 自, sia lo stesso che compone la parola “libertàjiyū 自由

È presente anche nel termine onozukara 自ずから, il cui significato letterale descrive “ciò che è, così com’è”. Questo conferisce a tutti questi concetti un’immediatezza simbolica che si rivela solo in accordo con la comprensione profonda di shizen nella sua definizione originale: “tutto ciò che occorre con naturalezza”.

A una prima lettura, il significato di onozukara può apparire complesso e a tratti sfuggente, soprattutto se tentiamo di interiorizzarlo attraverso il ragionamento schematico del pensiero occidentale. Occorre aprirsi a una visione non duale del concetto di libertà e natura. Cercando tra le righe quegli spazi di accettazione e consapevolezza che spesso si nascondono in ciò che preferiremmo fosse immutabile e perfettamente definito.

È così che un principio all’apparenza indecifrabile si rivela un assioma essenziale: trovando il nostro posto nella natura, siamo naturalmente liberi.

Foresta di bambù di Arashiyama, Kyoto
Onozukara 自ずから- Occorre aprirsi a una visione non duale del concetto di libertà e natura. Foresta di bambù di Arashiyama, Kyoto

In un mondo sempre più in rapida trasformazione, dove riconoscere la propria dimensione sembra ogni giorno più difficile, questo tipo di emancipazione spirituale e personale può derivare solo da un’autentica comprensione del mondo naturale. Da un ritorno all’apprendimento esperienziale, facendo riferimento alle nostre radici più profonde e ancestrali.

La sapienza orientale da millenni ci suggerisce come l’essere umano sia in grado di riprodurre nel suo microcosmo, costituito dalla totalità della persona, quanto accade nel macrocosmo che lo circonda, mettendolo nella posizione di assumersi le sue responsabilità rispetto al suo rapporto con sé stesso e la natura.

Effettivamente, questi due regni hanno in comune molto più di alcune riflessioni filosofiche. Secondo la visione creazionista orientale entrambi sono stati generati partendo da una stessa fonte originaria e da sempre sono animati dalla medesima energia vitale chiamata ki (o qi), responsabile del loro sostentamento e della loro trasformazione.

Lo Shintō, la religione autoctona del Giappone, riconosce l’essenza del divino (kami) in tutto ciò che potenzialmente è in grado di manifestare questo flusso energetico: un fiume, una pianta, un animale, una foresta. Per questo, nei secoli, ha sviluppato una sincera forma di rispetto e cooperazione con la natura. 

Cervo sacro a Nara
Onozukara 自ずから”Vivere naturalmente” – Nei secoli la cultura giapponese ha sviluppato una sincera forma di rispetto e cooperazione con la natura. Cervo sacro nel santuario Shintō di Kasuga, a Nara

L’essere umano, secondo questa lettura, non solo è parte di un sistema armoniosamente perfetto, ma ne trae ispirazione per la sua vita quotidiana e per tutte quelle discipline volte alla crescita e al miglioramento.

Con il passare del tempo, questo legame indissolubile ha cambiato forma, lasciando spazio al desiderio di dominio antropocentrico. E portandoci ad un disastro ecologico del quale vivremo le conseguenze per lungo tempo.

Riconquistare la naturalezza, in questa particolare visione orientale, non è più solo un atto mentale, ma è soprattutto una liberazione, che si realizza con la morte dell’ego e un ritorno al sentire più autentico.

Quando la coscienza viene ricondotta al principio, alla radice, allora realizza che è sempre stata interconnessa alla natura. E questo rapporto non si basa solo sul comprendere il mondo per ciò che ci può offrire in termini di produzione e sostentamento. Si tratta altresì di un desiderio benevolo e altruistico nei confronti di tutti gli esseri senzienti e dei fenomeni che animano l’universo.

Un percorso di consapevolezza può condurci a capire che il nostro frenetico desiderio di agire sui flussi naturali, modificandone il corso, è solo l’illusione di una visione duale che vorrebbe farci credere di poter controllare il ritmo della natura secondo i nostri bisogni.

Quello che ci aspetta non è un sentiero facile. Ma è assolutamente necessario per poter riconquistare non solo la nostra libertà naturale, ma anche la possibilità di creare un futuro di convivenza armoniosa con tutto ciò che ci circonda e ci appartiene. Tanto quanto apparteniamo a noi stessi.

Onozukara 自ずから è un termine che ci insegna a “vivere naturalmente”. Apprezzando la spontaneità della natura e accettando l’impermanenza come forza creativa. Liberandoci da una gabbia ideologica.

È tra le sfumature di una parola che pare contenere l’universo, che potremmo trovare la via per ritornare ad una saggezza pratica. Una saggezza che ci rimetta in accordo con il nostro ambiente e ci insegni il rispetto e la meraviglia per “ciò che è, così com’è”.

 

 

 

di Veronica N.M. Green (autrice, insegnante di Tai Chi e Qi Gong, appassionata di studi orientali, si è laureata in Economia e Diritto con una tesi incentrata sul miracolo economico giapponese del secondo dopoguerra) 

Introduzione al concetto di Entropia in Scrittura

L’Entropia (dal greco. ἐν «dentro» e -tropie «-tropia» volgere, quindi tendenza a rivolgere l’attenzione in varie direzioni) è un concetto scientifico che misura il grado di equilibrio raggiunto da un sistema in un determinato momento. Ma può divenire strumento per lo scrittore. Vediamo quindi un’introduzione al concetto di Entropia in Scrittura. 

La II Legge della Termodinamica afferma che l’energia termica (il calore) fluisce sempre da un corpo più caldo a uno meno caldo e mai in direzione contraria. Se concepiamo il tempo come lineare, allora possiamo affermare che tutto ciò sia assolutamente vero, poiché prima si nasce e poi si muore e mai viceversa.

Ma il tempo è davvero lineare?

Il concetto di Entropia in Scrittura potrebbe riassumersi come l’ordine nel disordine o viceversa, poiché il tempo non è una lunga linea unidirezionale e quindi non possiamo distinguere tra passato e futuro.

La scrittura usa l’entropia come energia interiore, da impiegare per analizzare, descrivere, precisare, trasformandola così in uno strumento, in un pensiero, coniugando lo spirito scientifico con la sottile sensibilità lirica.

Ma come appropriarsi di un concetto scientifico e farne uno strumento di scrittura?

Le strade possono essere molteplici. Calvino utilizza, ad esempio, il concetto di entropia per il superamento del contrasto tra pensiero scientifico e pensiero umanistico, quindi tra sperimentazione e attività conoscitiva.

Italo Calvino
Entropia in scrittura. Italo Calvino

Ma vediamo altri esempi pratici di scrittura entropica:

Gli operai ricurvi ci demoralizzano […] invece di finirla con quell’odore di olio. Ci si arrende all’odore e al rumore come ci si arrende alla guerra e per notti intere quel rumore d’olio proprio come se mi avessero messo un naso nuovo, un cervello nuovo per sempre

Céline,Viaggio al termine della notte

Louis Ferdinand Céline
Louis Ferdinand Céline

Sensazioni immediate che si percepiscono nelle solitarie passeggiate, il soffocante tanfo di sudore che si mescola al profumo di cibo e al fumo e al vapore liberato dall’acqua […] e al rinfrescante crepuscolo e al mio appartamento odoroso di calce fresca

Tadeusz Borowski, Il mondo di pietra

Tadeusz Borowski
Tadeusz Borowski

Abade: metà francese e metà annamita, viveva sul suo pianeta strano e solitario […] dove le nuvole, l’odore delle poincine le giungevano come una musica che emergeva a intervalli da un’oscurità urlante di discordanze

Thomas Pynchon, Entropia

L'edizione americana di "Entropia"
L’edizione americana di “Entropia”

 

Articolo di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

 

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Un “futurare” completo e ossessivo

Un “futurare” completo e ossessivo. Nell’inverno del 1930 l’Aeropoeta Futurista Filippo Tommaso Marinetti pronuncia un “gastro-guerresco” discorso dopo un pranzo presso il Ristorante PENNA D’OCA di Milano.

Discorso, proclama o dichiarazione d’intento futurista, secondo quel dualismo programmatico teorizzato nei Manifesti degli anni Dieci e Venti del Novecento.

Ed è ancora una parola-chiave verso quei modelli d’azione espressiva che, a trent’anni dal primo colpo “sparato” dal Figaro il 20 febbraio 1909, esplodono in un nuovo fronte d’avanguardia, in nuovi modelli formativi, per il superamento della dimensione reale ed esistenziale, attraverso le sfide lanciate durante gli aerobanchetti “suggestivi e determinanti”.

Un manifesto di poetica feconda, disseminata di artefizi smisurati e di sintonia amicale, quella che porta Marinetti, il 28 dicembre 1930, a pubblicare sulla Gazzetta del Popolo di Torino il “Manifesto della cucina futurista”.

Vi annuncio il prossimo lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano. […] La cucina futurista sarà liberata dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi principi, l’abolizione della pastasciutta”.

Due anni più tardi, in collaborazione con l’aeropittore Fillìa, presenta “La cucina futurista”, testo che utilizzando con spregiudicatezza i codici e i riferimenti della “trama alimentare”, fino al punto di parodiarli e rovesciarli, riporta il significativo sottotitolo “Un pranzo che evitò un suicidio”.

Un “futurare” completo e ossessivo. Cucina futurista

È il testo della “prima cucina umana”, dell’ottimismo a tavola, tra controretorica e innovazione, tra giochi culinari che rappresentano vere e proprie rivendicazioni culturali-estetiche e il culto della velocità.

La teorizzazione del “nuovo ordine a tavola” si apre con un “tragicomico poetico antefatto” infarcito di intrepidezza e gastro-sessualità: il salvataggio di un amico in pericolo, in un dannunziano abbandono dei sensi alla ricerca “dell’eterno femminino fuggente imprigionato nello stomaco”.

Il 1 maggio del 1930 Marinetti parte per il Lago Trasimeno dopo un preoccupante annuncio di morte da parte del suo amico Giulio Onesti che, dopo la tragica perdita della donna amata e l’arrivo di “quella che le rassomiglia troppo ma non abbastanza”, ancora avvezzo a nutrimenti passatisti e a borghese fedeltà, “si prepara al suicidio”.

Insieme a Marinetti, alla ricerca di una soluzione a questo delicato problema, Enrico Trampolini e Fillìa, i due “geniali aeropittori”.

Evitare un suicidio si può, improvvisando arte in cucina, trasformandola in una fucina di idee e ideazioni con pentole enormi come piedistalli, quantità indeterminate di polveri colorate tramutate in montagne, cambiando forma e consistenza alle cose per un “aerocomplesso plastico di farina di castagne, uova, latte e cacao”.

La cucina diviene luogo dell’improvvisazione e della sorpresa, una sottile forma di irriverenza verso la tradizione e il passatismo, in cui il rifiuto per l’elaborato-ricetta si esprime nella manipolazione del cibo e dei materiali, nell’accettazione di “sorprese” organolettiche, nella determinazione di momenti “stimogastrici” in cui il cibo si mastica con la vista e si digerisce con l’olfatto.

Ed ecco apparire Lei, il “misterioso soave tremendo complesso plastico di lei. Mangiabile”.

Sogno di una femminilità finalmente (e solo così) afferrabile nelle geometriche forme e lasciva a zuccherine carezze. Forme sinuose e colori abbaglianti, massa dinamica di zucchero filato che si fonde con la pasta frolla ancora morbida e friabile.

Un fluttuare di mani ispirate e di sensi eccitati, e poi nel forno “la passione delle bionde” che si colora di sole, dando risalto a bocca e ventre.

Nasce poi la “snella velocità”, lunga fune di pasta frolla e la “leggerezza di volo” con 29 caviglie di donna modellate con pasta lievitata e poggiate fra “mozzi di ruote e d’ali d’eliche”.

L’inquietudine e il turbamento scombinano “la serenità” futurista dei cervelli a lavoro.

Così al tramonto è uno schioccare di lingue, fremiti di narici, connessioni nervose fra sensi. Il capolavoro è davanti ai loro occhi, dotato di curve molli e di nascosti segreti dolcemente zuccherosi.

Scultura plastica meccanica. Perfetta. A mezzanotte si attende il padrone di casa per il primo succulento assaggio dei “22 complessi plastici mangiabili”.

L’arte “mangiabile” suscita sapori nuovi, golosità ancestrali mai sopite, respiri infarciti di sentimenti erotici. Sensualità carnale e ossessivo disfacimento sono le strategie comunicative e di nutrimento, per anime “eversive” in formazione. È così che si cerca di creare e demolire.

Santopalato
Un “futurare” completo e ossessivo. Taverna futurista del Santopalato

È così che si modellano strutture ardite e audaci mentre si rompono regole e declinazioni di forme e tutto per una nuova rivoluzione estetica e sensoriale, per una moderna cucina antipopolare.

Nella brezza notturna e nell’oscurità le immagini si fanno più fioche e le voci più sommesse fino a scomparire. Solo Giulio è sveglio, vogliosamente sveglio. Certo che nessuno possa disturbarlo, si inginocchia davanti all’alto complesso plastico e divora, morde, “assalta” le parti di più morbide e soffici, schiacciando fra i denti il palmeto zuccherino del suo ventre e il “soave piedino pattinatore di nuvole”.

Senza fine, “godente e goduto. Possessore e posseduto. Unico e totale.”

Così si chiude il sogno ideale di un marziale e dinamico Marinetti che nelle pagine successive darà voce alla sua battaglia contro il cibo passatista e l’amidacea pastasciutta, aprendo il dibattito sulla innovativa cucina futurista, per rinate fantasie culinarie e stimolanti suggerimenti in banchetti futuristi assoluti. Sbalordire per irridere la cultura borghese. E se l’uomo è ciò che mangia, la cucina futurista vuole un uomo nuovo, modernissimo, meccanizzato, pioniere di nuovi territori organolettici e domini gastrico-sensuali: “Mani ispirate. [E] Nari aperte per dirigere l’unghia e il dente”.

Per un “futurare” completo e ossessivo, in cui anche il cibo diventa guerra, desiderio di gastro-scontro tattile-labiale, perché tutto sia “rinnovato” nella distruzione, per un’azione totalizzante di folle controllo che investirà anche il galateo a tavola. 

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, storico dell’Arte e Critico Letterario).

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Earth Day 2022 – Salviamo la Terra in Tre Passi

Earth Day 2022: da oltre mezzo secolo un’occasione per attivarsi a favore del pianeta. Ma tra eco-ansie e insicurezze, non è sempre facile far risuonare la sostenibilità nelle nostre vite. Occorrono percorsi trasformativi per interiorizzare il concetto di cura e ritrovare una connessione emotiva con noi stessi, con la Natura e con gli altri. Oggi ve ne proponiamo uno, in tre passi.

Il movimento ecologista nasce molto prima che il deteriorarsi dell’ambiente e delle qualità di vita ponessero una questione di sopravvivenza. La necessità di tutelare gli equilibri naturali sembra essere un istinto che nasce ai primi sintomi di alienazione.

Alexander Von Humboldt
Alexander Von Humboldt, scienziato ottocentesco considerato tra i primi ambientalisti della storia europea

La ricerca di un nuovo patto di pace con l’ambiente si sviluppa dal vivere immersi in una società “sconnessa” e frammentata, e ciò avviene sin dalle prime avvisaglie di questa tendenza, le quali, secondo la scienza, causano un malessere simile a quello sperimentato da un animale in cattività.

La necessità nasce dunque dalla sensazione che, innovazione dopo innovazione, si stiano perdendo pezzi importanti del nostro essere umani. Eppure, dopo decenni, fatichiamo ancora ad attuare azioni concrete per invertire la rotta del disastro ambientale. E non c’è solo la logica del profitto dietro: nel nostro piccolo ci sono l’attaccamento alle abitudini, il senso di disconnessione e di fatalità, le eco-ansie. E, più di tutti, l’individualismo esasperato, che ha creato una frattura tra il nostro sentire e gli altri, il pianeta, la società. Anche quando ci mostriamo sensibili, restiamo spesso chiusi in una bolla. 

Il filosofo francese Antoine Garapon, sostiene che il senso diffuso di insicurezza, precarietà e vulnerabilità emanato dal mondo – che, visto con le lenti del nostro individualismo, ci appare sempre più oscuro e terribile – ci porti a considerare di maggiore importanza problemi che minacciano la nostra vita a livello personale, in modo esplicito e diretto e sempre meno quelli che minacciano la società, le future generazioni e qualunque aspetto della “vita degli altri”, percepito come lontano ed estraneo al nostro vissuto.

Sfortunatamente per noi, i problemi ambientali rientrano in questa seconda categoria: immersi nel nostro benessere (seppur precario) fatichiamo a immaginare l’impatto che avranno nei prossimi anni, così come non riusciamo a calarci nei panni delle comunità indigene che vivono il degrado degli ecosistemi come minaccia diretta alla propria sopravvivenza. Fortunatamente, le soluzioni a questo bias esistono e partono da noi.

Cambiare noi stessi e il nostro approccio al mondo può fare davvero la differenza, ora più che mai.  In tre passi:

1) Insieme per l’ambiente

L’Earth Day 2022 è l’occasione per ricordare a noi stessi che siamo parte di un tutto. Nella nostra società, come afferma Bauman in “la solitudine del cittadino globale”, gli alieni diventano vicini e i vicini diventano alieni. In un raffreddamento e in una superficialità che si riflette nelle relazioni in ogni ambito della vita. “Sono fredde le persone che hanno dimenticato da molto tempo quanto calore possa trasmettere la solidarietà; quanta consolazione, quanta serenità, quanto incoraggiamento e quanto piacere possano derivare dal condividere lo stesso destino e le proprie speranze con gli altri”. 

solidarietà
Guardare gli altri, supportarli, condividere un “sogno di felicità” può guidarci nella costruzione di una nuova armonia tra noi e l‘ambiente, moltiplicando i nostri risultati alla ricerca di una società più equa.

 Sviluppiamo l’empatia verso le persone e verso gli esseri animali e vegetali che con noi condividono la vita sul pianeta. Creiamo coinvolgimento e calore intorno alle nostre azioni.

Per combattere l’eco-ansia occorre unirsi a difesa dell’ambiente. 

2) Re-innamorarsi della Terra

L’Earth Day 2022 ci invita a fare esperienza della natura.

Uomo e natura
“Nessuno protegge ciò di cui non gli importa e a nessuno importa di ciò di cui non ha esperienza”. Sir David Attenborough

Quando è stata l’ultima volta che hai camminato a piedi nudi sull’erba o hai osservato delle formiche operose intente a costruire un formicaio? 

Vivere la natura solo attraverso i documentari o le immagini online ci allontana dalla sua vera essenza.

Le esperienze dei sensi – odori, sensazioni tattili, colori, suoni e schemi – vissute attraverso bagni di foresta, escursioni e gite in natura, plasmano le nostre emozioni, aiutandoci a costruire un rapporto autentico e profondo con piante e animali, imparando a percepire le similitudini e le connessioni presenti sulla terra.

L’empatia nasce dall’esperienza diretta: non possiamo amare ciò che non conosciamo e da cui sentiamo, erroneamente, di essere separati. 

Richard Lindroth, docente di ecologia all’università del Wisconsin, sostiene che anche “piccole pratiche” possano letteralmente riconfigurare la nostra struttura cerebrale.

Il contatto con la natura “allena” il nostro cervello, permettendoci di sviluppare consapevolezza, intuito ed empatia

Una semplice attività di connessione con la natura, come osservare una foglia o il cielo stellato, per appena 30 secondi genera un sentimento di amore e gratitudine per la Terra capace di provocare nel cervello reazioni simili a quelle che si riscontrano guardando la persona della quale siamo innamorati. 

 3) Mettersi in gioco

L’Earth Day 2022 ci ricorda la nostra fragilità.

Tutti abbiamo paura di soffrire. Il nostro cervello ne ha talmente tanto terrore che spesso, invece di suggerirci di lavorare alle soluzioni, preferisce bloccare ogni nostra reazione al problema. Se, in più, il problema ci sembra complesso e le soluzioni al di fuori della nostra portata, nel cervello scattano altri meccanismi di difesa e semplificazione.

Ma le neuroscienze confermano: la neuroplasticità è nostra alleata, ad ogni età, nel modificare preconcetti e abitudini.

Per “riprogrammare” questo sistema, possiamo decidere di metterci in gioco con piccoli cambiamenti che ci rendano felici e facciano bene all’ambiente, un passo alla volta. Un’alimentazione più sana a base vegetale, ripulire una spiaggia, rinunciare al packaging in plastica, sono piccole azioni dal grande impatto.  

Coltivare la speranza ed essere quindi più felici e sicuri del proprio ruolo nel mondo richiede indagine, studio e comprensione delle dinamiche di cui siamo attori (e lo siamo in ogni caso, consapevoli o inconsapevoli). Non possiamo, insomma, pensare di cambiare le regole del gioco senza conoscerle. Questo comporta processi complessi di revisione interna ed esterna, che potrebbero rimettere in discussione le nostre credenze, i nostri stili di vita, le nostre posizioni. Ma che sono anche la chiave della fiducia nel potere di cambiare le cose. Rassegnarsi invece equivale, in termini di risultati, a negare che esista un problema del quale occuparsi. 

Mettiamoci in gioco: faremo la differenza nella qualità delle nostre relazioni, nella conoscenza di noi stessi e nel nostro rapporto con l’ambiente.

 

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Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere

Scrivere poesie, quali sono i concetti base da conoscere? Scrivere poesie è un’arte che richiede studio e attenzione, oltre a una sensibilità spiccata che si esprime attraverso l’uso degli strumenti propri della lirica. Ecco tre concetti base che ogni poeta deve conoscere. 

1) La Metrica:

costituisce la forma della poesia, e dà significato e compiutezza al testo lirico.

È la regola, la base e la sua conoscenza è indispensabile per chi voglia fare poesia.

La metrica organizza il tempo della lirica e i suoni dei segni linguistici, mettendoli in relazione tra loro.

E fin dall’antichità i testi organizzati in versi erano anche testi per la musica, pensiamo ai testi trobadorici o ai sonetti dei poeti della Scuola Siciliana. Qui Jacopo da Lentini:

Andando, ad ogni passo
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c’a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare
.

Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere. Jacopo da lentini è stato tra i più importanti esponenti della Scuola poetica siciliana

Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere.

2) La Rima:

è l’identità di suono tra la parte finale di uno o più versi a partire dall’ultima vocale tonica. 

La rima è tecnica, visione formale del testo lirico e, come tale, complessa.

Esistono rime perfette e imperfette, baciate, alternate, incrociate, incatenate…Uno dei “modi” più semplici è quello di abbinare a due a due i versi da rimare:

 

Meriggiare pallido e assorto

Presso un rovente muro d’orto

Ascoltare tra i pruni e gli sterpi

Schiocchi di merli

Fruscii di sterpi

 

Ancora Montale ma stavolta una rima “incrociata”:

 

Spesso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l’accartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

 Un grande poeta conosce perfettamente le regole metriche e gestisce l’andare a capo in modo magistrale.

Eugenio Montale
Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere. Eugenio Montale, poeta del male di vivere

Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere.

3 – Il Verso Libero:

Quando si parla di verso libero, si affronta l’inevitabile tema dell’evoluzione della forma lirica in molti suoi aspetti. Spesso si ritiene che il verso libero sia soltanto una prosa lirica e non un verso misurato.

Ma nei Petits poèmes en prose di Baudelaire ci si trova davanti a un vero e proprio linguaggio poetico, anche se manca il verso vero e proprio. Stessa cosa in “Foglie d’erba” di Walt Whitman e nel famoso “Capitano! Mio capitano!”.

Capitano! Mio Capitano!
il nostro duro viaggio è finito,
la nave ha scapolato ogni tempesta,
il premio che cercavamo ottenuto, il porto è vicino,
sento le campane,
la gente esulta, mentre gli occhi seguono la solida chiglia, il vascello severo e audace:
ma, o cuore,
cuore,
cuore!
gocce rosse di sangue dove sul ponte il mio Capitano giace caduto freddo morto.

Walt Whitman
Scrivere poesie: tre concetti base da conoscere. Walt Whitman, cantore della libertà nella sua più alta espressione

Il verso libero significa sì rifiuto della tradizione metrica e poetica, ma ricordiamo che questo è possibile solo attraverso una profonda conoscenza della metrica classica, tanto profonda da poterla rovesciare e riscrivere.

 

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Mahler e il linguaggio odoroso dell’amore nei Lieder

Mahler e il linguaggio odoroso dell’amore nei Lieder. Gustav Mahler mette in musica sei lied, tra il 1901 e il 1904, tratte da una raccolta di ben 448 liriche, composte tra 1833 e il 1834 dal poeta Friedrich Rüchert.

Il lied (dal tedesco lieder, vicino al latino lauda) è un componimento vocale con testo strofico spesso di natura popolare, cioè poesia in musica.

Mahler e il linguaggio odoroso dell’amore nei Lieder – le tematiche dei lieder sono tipicamente romantiche

Genere tipicamente legato al Romanticismo per le tematiche trattate (amore, dolore, perdita, abbandono) permane fin oltre il 1800, nella rivalutazione di una poesia più intimista e personale. La linea melodica, facilmente cantabile, rispecchia la regolarità dello schema metrico del testo, espressione di sentimenti ed emotività.

Tra i più conosciuti i Lieder di Schumann, Mendelssohn, Beethoven, Brahms, e soprattutto di Schubert.

Mahler e il linguaggio odoroso dell’amore nei Lieder – Tra i più conosciuti autori del genere ci sono Schumann, Mendelssohn, Beethoven, Brahms, e soprattutto Schubert. I lieder di Mahler mostrano però caratteristiche uniche.

Il ciclo liederistico composto da Mahler, invece, costituisce un unicum nella sua vasta produzione musicale.

Io respiravo un dolce profumo
C’era nella stanza un ramo di tiglio,
un dono di mano amata.
Com’era soave il profumo di tiglio,
com’è soave il profumo di tiglio,
il rametto di tiglio che, gentile, mi hai dato.
Respiro piano nel profumo di tiglio,
dell’amore il dolce profumo.

Ich atmet’ einen linden Duft (Respiravo un dolce profumo) è quasi l’epifania del tragico evento che colpirà Mahler anni dopo (sua figlia primogenita morirà per scarlattina) in una Natura ancora benigna, in cui si odono e si respirano piccole sensazioni, ed emozioni.

Protagonista un ramo di tiglio, simbolo del sogno e dell’eternità, di cui si coglie l’essenza attraverso un profumo tenue e delicato, che si trasforma nella fragranza toccante dell’amore, tra suoni di arpa, corni e dolci virtuosismi dei violini.

Mahler e il linguaggio odoroso dell’amore nei Lieder: una parola poetica che attraverso la sonorità dei versi svela il mistero degli odori e delle piccole cose della Natura. E la sensazione olfattiva diventa informazione, tra sogno e realtà.

Mahler e il linguaggio odoroso dell’amore nei Lieder – il potere evocativo dell’olfatto 

L’anima la riceve, la confronta con le sensazioni passate, la mescola ai ricordi, aprendo la visione del presente. E quale suggestione ha un potere più evocativo e al contempo più misterioso delle parole dell’olfatto?

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (II parte)

“A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (II parte)” è il proseguo del nostro viaggio attraverso la scrittura. Arte e pratica, percezione di noi stessi e del mondo, talento e scoperta del nostro Io più intimo. Dal III secolo a oggi, per un percorso che vedrà protagonisti scrittori, poeti, critici, filosofi e che ci permetterà di esplorare angoli nascosti e prospettive inedite. Oggi parliamo di: ispirazione, terrore, conclusione.

Leggi qui la prima parte

“L’arte della scrittura” è un’opera del III d. C. del poeta cinese Lu Ji, funzionario di corte. Risulta un testo quanto mai attuale.
  • Ispirazione

Riflessioni sull’ “Arte della scrittura”  del poeta cinese Lu Ji, III secolo d. C.

Sull’ispirazione

Giunge il momento in cui le emozioni

Ci soffocano, anche se ogni stimolo

 richiede risposte;

ci sono le volte in cui

lo spirito si paralizza.

Lo scrittore si sente come morto

[…] Come il letto di un fiume in totale siccità.

Spesso ci si domanda: cos’è l’ispirazione e come può permettere di respirare a pieni polmoni o soffocare anche il più intraprendente, vigoroso, temerario spirito che a lei sola si affida?

L’ispirazione (dal latino tardo inspiratio, da inspirare) può essere ricondotta all’idea di un intervento divino che permetta l’azione del pensare, in modo da rivelare la verità nascosta delle cose.

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (II parte) – L’ispirazione è un insieme di elementi, tutti necessari e che hanno bisogno di unirsi, incastrarsi, trovare una dimensione e uno spazio spirituale idoneo per mostrarsi.

L’ispirazione è talento, curiosità, vocazione, esperienza, tecnica.

Occorre così sondare il nostro spirito, la nostra anima, sprofondare nel più oscuro degli abissi per poter riemerge e portare alla luce quei pensieri più difficili da accettare, quelli più delicati, prepotenti, ingombranti, quelli che si trasformeranno in parola scritta.

L’ispirazione è cercare la verità che è dentro di noi e darle voce, in un percorso continuo, giornaliero, incessante, perché lo scrittore senta di nuovo, sotto i suoi piedi, scorrere le acque tempestose di un fiume in piena.

  • Terrore

Temo che il mio calamaio

possa asciugarsi

che le parole giuste

siano quelle introvabili.

Voglio rispondere all’ispirazione

di ogni momento.

Quale è la cosa che fa più paura a chi si avventura lungo il cammino della scrittura? Pensare di non avere più nulla da dire.

Cosa fare quando manca l’ispirazione? incalzare le emozioni è un errore che induce errore, dice Lu Ji.

Che la mente diventi all’improvviso un campo sterile, un deserto di sassi arrotondati dal vento, senza più punte aguzze, asperità, sorprese. Che svegliandosi una mattina ci si accorga che quella scintilla che bruciava dentro, si sia improvvisamente e irrimediabilmente spenta e che le parole, da strumenti pronti a incidere, sia siano trasformate in materia molle, deformabile, inefficace, non più capaci di uscire allo scoperto.

“E incalzare le emozioni è un errore che induce errore” ribadisce Lu Ji.

Ma come fare se il terrore ci assale? Se l’angoscia di non riuscire più a dare forza ai propri pensieri diventasse abitudine? Forse tornare a penetrare il mistero che unisce noi alla scrittura, che tiene saldamente avvinghiati intelletto e animo, quello che ci permette ogni giorno di attraversare la soglia che separa i nostri pensieri più veri dalle nostre parole.

  • Conclusione

L’uso della scrittura è base di ogni principio

Essa percorre distanze infinite

E nulla al mondo può fermarla.

Scende come pioggia dalle nuvole

[…]

Canta nel flauto e nelle corde

E ogni giorno ne esce rinnovata.

La scrittura: dal latino scriptūra, part. pass. del verbo scribĕre, che anticamente indicava il segnare lettere e parole con lo stilo su tavolette di cera, è diventata l’attività o l’arte dell’esprimersi, fino ad appropriarsi dell’abilità giocolieristica di giudicare le realtà e gli altri, in un divertimento fatto di rimandi, sottintesi, retoriche adulazioni.

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (II parte) – l’arte dello scrivere racchiude noi stessi.

La scrittura è un’arte e come tutte le arti non conosce se stessa mai fino in fondo.

Spesso si decontestualizza e diviene narrazione forzatamente oggettiva ma profondamente distaccata, o si fa partecipe, alludendo a sentimenti e a sensazioni che si confidano come condivise, o si frammenta, si spezzetta, si frantuma per raccontare realtà, un altrove soggettivo e prepotentemente evocativo.

La scrittura è farsa del quotidiano, finzione ed enfasi, piacere puro, virginale o contaminazione di idee volutamente provocatorie o è delicatamente attenta, sottile, persuasiva.

La scrittura, l’arte dello scrivere, comunque si esprima, racchiude noi stessi, a volte poco, a volte interamente ma, ricordiamolo, mostra sempre chi siamo, racchiusi dentro un lungo e complesso flusso di coscienza o in un piccolo, breve ed emozionante haiku.

 

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

Nuovi modelli etici per l’economia del futuro

La ricerca di modelli etici e sostenibili per l’economia del futuro è un processo che ci riguarda da vicino.

Non esiste attualmente un codice etico per gli economisti…ma dovrebbe esistere”. David Colander, Economista 

Tutto è collegato a tutto. Mai come in questo periodo storico è evidente, anche ai non addetti ai lavori, che le attività economiche si inseriscono nei contesti più ampi dei modelli di governo e della società, della cultura e dell’ecologia, plasmandone indirizzi e visioni, almeno quanto ne sono a loro volta plasmate. A loro spetta oggi il compito di riscoprire il ruolo tradizionale a servizio del soddisfacimento dei bisogni fondamentali e della realizzazione dei valori, per la costruzione di nuovi modelli etici per l’economia del futuro. 

Di fronte a problemi globali scottanti è quanto mai necessaria una visione interdisciplinare e olistica di tutte le parti dell’insieme

afferma Christian Felber, storico e fondatore di “Economy for the Common Good” (il termine “economia del bene comune”, che indica un modello economico etico fondato sulla collaborazione, è di sua invenzione).

Christian Felber
Christian Felber, teorico dell’economia del benessere

Occorre innanzitutto ritornare alla radice del termine economia, ovvero oikonomia, “governo della casa”. Le risorse economiche come mezzo per il benessere: un modello in cui il profitto è solo una parte di un quadro complessivo più ampio.

cartelli
Nuovi modelli etici per l’economia del futuro – Manifestazioni del movimento Friday for Future. I movimenti per il clima chiedono a gran voce la transizione verso modelli economici etici, che pongano il benessere del pianeta in primo piano rispetto al profitto.

Il denaro non più fine a se stesso, bensì ponte, materiale da costruzione. Economia trasformativa, molto più che semplicemente “sostenibile”. 

Che la qualità della vita non derivi soltanto dal soddisfacimento dei bisogni materiali o mediati dal mercato è abbastanza evidente. Anzi, il soddisfacimento di questi bisogni può entrare facilmente in conflitto con bisogni immateriali ben più importanti: un ambiente sano e una società giusta. 

Ed ecco che il mercato si ripiega su se stesso, in una sorta di masochismo di cui ormai abbiamo persino piena consapevolezza (e per il quale sembriamo, dunque, avere sempre meno scuse). Un “diniego feticista”, secondo la definizione di Mannoni, una sorta di je sais bien mais quand-même (sì, lo so bene, ma in ogni caso…). Sappiamo ciò che stiamo facendo – a noi stessi e all’ambiente – ma lo facciamo comunque. 

C’è chi sostiene che non si possa fare nulla per cambiare le cose e c’è chi ritiene che sia troppo tardi. Ma il potere trasformativo della cultura è immenso e parte da noi. I nuovi modelli etici necessari all’economia del futuro non possono attuarsi senza un cambio di paradigma.

Calcolo costante, mistificazione del profitto personale, materialismo e competitività sfrenata fanno parte delle nostre vite e sono diventati elementi fondanti delle nostre culture. Ridefiniscono il nostro successo. Ciascuno di noi, in diversi contesti, si trova schiacciato dal peso di queste dinamiche.  

Secondo Felber, questi falsi valori si comportano come veri e propri veleni sociali, intaccando lentamente la dignità umana, la solidarietà, la giustizia e la libertà derivante dalla responsabilità.

ridefinire il nostro successo attraverso il denaro
Fare della massimizzazione del profitto la bilancia del nostro successo è un vero e proprio veleno sociale.

La divulgazione di questa concezione dell’uomo ha conseguenze a lungo termine: si diffondono comportamenti privi di scrupoli e antisociali, le comunità e le relazioni diventano non vincolanti e fragili; persone egoiste e prive di empatia raggiungono più facilmente ruoli di potere e ne abusano. Ma non deve andare per forza cosi.

Il nostro esempio, anche nei più piccoli contesti e gli insegnamenti che prestiamo agli altri hanno un ruolo chiave. 

Il filosofo Richard David Precht, tra gli altri, sostiene che “La spietatezza e l’avidità” non siano affatto “le principali forze motrici dell’essere umano”, bensì un risultato culturalmente appreso. E persino John Maynard Keynes sosteneva che il problema economico sarebbe stato prima o poi “relegato nelle retrovie, nel luogo che gli è consono”. Cuore e testa degli uomini avrebbero ripreso allora a dedicarsi “ai veri problemi: le domande sulla vita e le relazioni umane”. 

John Maynard Keynes
John Maynard Keynes è stato il più influente economista del XX secolo

L’economia mainstream è solo un frammento di ciò che il nostro sistema è e può essere. Possiamo aggiungere altri pezzi per formare un insieme significativo. La società democratica permette e garantisce allo stesso modo libertà di impresa e libertà economica, ma in cambio deve tornare ad esigere responsabilità etica e visioni umane.

La creazione di nuovi modelli etici per l’economia del futuro parte da qui.

 

di Anna Stella Dolcetti (CEO di Kressida, si è formata in Economia e Management presso la Luiss Business School e l’Imperial College di Londra. Scrive di ambiente, economia e sostenibilità per riviste e quotidiani nazionali ed è esperta in Culture e Filosofie Orientali). 

 

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A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (I parte)

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (I parte): partiamo per un viaggio alla ricerca delle emozioni della scrittura.

“L’arte della scrittura”, opera del III d. C. del poeta cinese Lu Ji, funzionario di corte, risulta un testo quanto mai attuale. Dopo averlo letto e interiorizzato, mi sono chiesta come mai la scrittura, da sempre considerata pratica sacra, valore da proteggere, in cui contenuti ed estetica dovrebbero unirsi al rigore e all’onestà intellettuale, sia stata vista invece, in certa letteratura odierna, come una pratica inutile a cui applicarsi, un mero passatempo in cui trastullarsi.

A occhi chiusi ascoltiamo la musica interiore (I parte) – La scrittura è pratica sacra, in cui contenuti ed estetica dovrebbero unirsi al rigore e all’onestà intellettuale.

Il mondo ha bisogno di riscoprire nella scrittura una guida anagogica, una maestra di vita e di necessità intellettuale e sì, anche fisica, carnale, capace di occupare lo spazio e il tempo senza limiti e barriere.

Lu Ji traccia una strada, una linea di pensiero che potrà sembrarci anacronistica e che potrebbe anche risultare estranea a una prima lettura, ma che ci permette di guardare oltre il tempo e noi stessi.

Dobbiamo riappropriarci di bellezza, contemplazione e azione, abbandonando banalità e cliché

Pensare che quelle parole, pronunciate nel III secolo d.C., siano talmente radicate in noi, può allarmarci, disorientarci, ma anche permetterci di riflettere sul come riappropriarci di tanta bellezza, contemplazione e azione, abbandonando banalità, cliché e ritrovando il desiderio, il piacere della scoperta, della curiosità, dell’emozione.

Sull’inizio:

       A occhi chiusi ascoltiamo

       la musica interiore,

       smarriti tra domande e pensieri.

      […]

     Mettiamo immagini e parole

     tra quelle non raccolte

    dalle generazioni precedenti. 

L’inizio, l’incipit, il principio. Quando inizi a raccogliere i pensieri per trasformarli in parole, è come quando cerchi i suoni, la tattilità di emozioni non raccontate prima. La scrittura è una eco profonda tra spiritualità e materialità, contatto con noi stessi e con la realtà che percepiamo. Musica interiore che si fa parola, risonanza di immagini che nella nostra mente si saziano di desideri e di profondità.

L’inizio è tutto. È il modo in cui mostriamo come vogliamo essere, cosa vogliamo mostrare di noi e del nostro sentire.

L’inizio riporta il tutto a una rete di simboli e valori.

È il pensiero racchiuso in una parola, attimo che si fa tempo indefinito e che riporta il tutto a una rete di simboli e di valori. L’inizio è ciò che ci distingue, è la soggettività, l’unicità, l’essenza stessa del percepire e del percepirci.

Sullo scegliere le parole:

    Il poeta fa luce nell’oscurità profonda, 

    che questo voglia dire rende facile il difficile,

    o difficile il facile

Scegli, seleziona, ragiona sulle parole da unire ad altre parole, in un incedere a volte leggero, a volte faticoso, come quando inizi un viaggio, sapendo che la strada che hai scelto ti porterà là dove hai deciso di andare o dove la scrittura decide di condurti.

La scrittura è spirito vivo e sostanza immateriale che fin quando rimane dentro di noi è immersa nel disordine rimbombante dei pensieri.

Ma quando è pronta a staccarsi, a uscire fuori e possiamo farne corpo vivo e suggestione, allora desideriamo di assaporarne ogni singola vibrazione, ogni più piccolo momento.

Ma quanto è difficile scegliere le parole giuste?

Quanto ci costa enumerare, arricchire, sfamare i nostri pensieri con parole a più alto valore nutritivo, per far germogliare i nostri sentimenti? Siamo davvero noi a decidere sempre quali espressioni scegliere per descrivere ciò che proviamo o è la scrittura che, come un fuoco ardente, semina scintille e accende tutto ciò su cui si posa?

  Continua… Leggi qui la seconda parte

 

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, storica dell’Arte e critico letterario)

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A causa della meraviglia

Se volessimo intraprendere un’analisi delle imprese umane da dove potremmo iniziare? Dall’evoluzione? Dalla storia? Forse dal pensiero scientifico? E perché non dalle esplorazioni oppure dalle guerre?

Potremmo trovare innumerevoli origini, molteplici prospettive, tutte egualmente valide, tutte assolutamente significative. Ma se volessimo trovare un singolo principio, un punto di partenza dal quale l’esperienza umana è sorta e si è poi sviluppata, dovremmo rivolgerci ad una idea, ad un concetto, che potrebbe essere determinato con la necessità di sapere, di comprendere, in una parola con la conoscenza.

C’è un modo per definire la conoscenza? Tentare di comprendere cosa sia la conoscenza non è certo cosa da poco. Provare a delimitarne i confini o, anche solo approssimativamente la fisionomia, è un’impresa che sembra destinata invariabilmente alla frantumazione, alla dispersione in innumerevoli nozioni, ognuna delle quali pone un nuovo interrogativo. 

A causa della meraviglia – da dove iniziare un’analisi delle imprese umane?

Come dobbiamo considerare il ragionamento, l’informazione e l’esperienza? Che relazioni hanno tra loro l’analisi e la sintesi, l’innato e l’appreso? Esistono la coscienza e la mente? L’intuizione e il pensiero, la verità e la fede possono convivere insieme? E come si situano nei confronti delle scienze?

Se dovessimo immaginare la conoscenza, potremmo rappresentarla come una costruzione simile ad una sfera con il centro ovunque (ogni elemento pur essendo legato agli altri rimane comunque indipendente) e con i limiti in nessun luogo (nessun elemento è definibile in sé, né in connessione con altri). 

Noi allora quotidianamente “capiamo”, ma capiamo cosa vuol dire capire? Pensiamo, ma sappiamo pensare cosa vuol dire pensare? 

La nostra conoscenza diviene estranea non appena tentiamo di “conoscerla”: dobbiamo quindi abbandonare l’illusione di poterne disporre facilmente e pensarla piuttosto in una visione di molteplicità.

La conoscenza non può essere ridotta a una sola nozione, bisogna invece concepire più livelli ciascuno dei quali appartiene poi ad una area ancora più vasta, punto di vista particolare della conoscenza generale.

A causa della meraviglia – La conoscenza non può essere ridotta a una sola nozione, bisogna invece concepire più livelli

La conoscenza risulta essere un effetto di una causa che ancora dobbiamo comprendere.

Prima della conoscenza, prima della sistematizzazione di ciò che sappiamo cosa possiamo trovare? Qual è il principio?

Ancora una volta sono gli antichi maestri ad indicarci la via: Platone nel Teeteto fa dire a Socrate

Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia; ne altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumante non sbagliò, mi sembra, nella genealogia (Teet., 55d).

Il principio del sapere è identificato nella meraviglia, Iride (messaggera tra gli Dei e gli uomini) è la Filosofia ed è figlia di Taumante, il cui nome in greco richiama il verbo “meravigliarsi” (Thaumazein).

Prima di ogni categorizzazione e sistematizzazione, antecedente ad ogni razionalizzazione c’è un sentimento, uno stato d’animo, una pacata esaltazione che ci riempie gli occhi di sorpresa e l’animo di un tremendo sgomento. Possiamo immaginare dei primi uomini pervasi dalla meraviglia. Possiamo tentare di narrare un episodio in cui questa emozione è sorta solo in alcuni individui, ed ha anticipato e poi guidato il pensiero momentaneo ed utilitaristico.

Pensiamo al fuoco. Immaginiamo il momento in cui si crea il fuoco da una fiamma spontanea causata forse da un fulmine oppure da una combustione naturale. Uno sparuto gruppo di esseri protoumani, ancora non dotati di un linguaggio strutturato, si avvicina con timore e curiosità a quella manifestazione colorata e violenta. 

La meraviglia è il principio che andavamo cercando. Ed è a causa della meraviglia se il sapere, la scienza e la tecnica hanno potuto avere inizio e svilupparsi.

 

Sin dagli albori della civiltà, l’uomo è pervaso dalla meraviglia.

Quindi, l’analisi delle imprese umane è strettamente legata ad una trepidazione, ad una perdita della razionalità che permette di poter intuire, in un singolo momento, di essere contenuti all’interno di una gabbia, di una scatola di regole e convenzioni. Nel medesimo tempo la stessa trepidazione dà l’impulso di trasformare ciò che è contenuto in qualcosa di più grande del contenitore stesso, abbattendo le mura e guardando verso l’infinito.

I limiti allora si sposteranno, la gabbia diventerà più grande e sui nuovi confini si costruiranno altre credenze e quindi nuove demarcazioni, nuove consuetudini, che solo la meraviglia potrà poi spostare ancora più in là.

A causa della meraviglia: la meraviglia è una mistica confusione, una perdita temporanea del senno, un’ascesi che ci permette di poter avere prospettive inusuali, luci inconsuete, intuizioni formidabili.

Un sentimento raro, prezioso e senza fine, così come è infinita la tensione verso la sapienza.

 

 

Articolo di Stefano Brega (filosofo, specializzato in Filosofia del Linguaggio e teorie della Conoscenza)