• ECOLOGIA • ECONOMIA & SOCIETà • SCIENZE & NATURA 9 MARZO 2022
All’umanità serve un nuovo patto di pace. Con l’ambiente e con l’Altro
di Anna Stella Dolcetti
La guerra in Ucraina ha risvegliato terrori dimenticati. Tra i tanti che affollano la nostra mente anche lo spettro di un conflitto nucleare. Una paura che ci riporta all’essenziale e all’umano, rimettendo in discussione ogni idea preconcetta. Una spinta a riflettere su un terribile “avvenire possibile”: uno scenario in cui la natura, senza di noi, continui […]

La guerra in Ucraina ha risvegliato terrori dimenticati. Tra i tanti che affollano la nostra mente anche lo spettro di un conflitto nucleare. Una paura che ci riporta all’essenziale e all’umano, rimettendo in discussione ogni idea preconcetta. Una spinta a riflettere su un terribile “avvenire possibile”: uno scenario in cui la natura, senza di noi, continui a vivere.
Una prospettiva che è già realtà in luoghi più o meno dimenticati del nostro pianeta.
In ogni parte del mondo esistono paesaggi in cui le architetture in rovina mostrano ancora l’eco di una presenza umana, ma come fosse la citazione di un passato destinato a non ripetersi.
Testimonianze di civiltà perdute, a cui fa da contrasto una natura lussureggiante, un ambiente ricco di movimento e colore, che si riappropria dei suoi spazi.

È un’immagine che ci genera nostalgia, ci rende fragili e ci provoca, al tempo stesso, un annichilente senso di disorientamento. Ma che è anche opportunità di porsi dinanzi a dilemmi importanti: quale ruolo vogliamo giocare, come esseri umani, nel rapporto con l’ambiente? Quali relazioni di pace e di supporto tra i popoli dobbiamo intessere perché si eviti la catastrofe?
Lo sappiamo: la nostra sopravvivenza dipende strettamente dalla disponibilità di servizi ecosistemici essenziali. A contare è anche loro qualità: acqua, aria, suolo (e quindi cibo) “puliti” ma anche materie prime fondamentali per le nostre economie, per la produzione di beni e di energia.

I servizi ecosistemici sono risorse che dobbiamo governare con saggezza e umanità, tenendo conto dell’impatto che le manovre economiche attorno ad essi esercitano sulle persone e sulle comunità.
Si tratta di ricchezze indispensabili che, come stiamo vedendo in questi giorni, si “muovono” con il mutare degli equilibri mondiali. Mentre nei Paesi a più alta dipendenza dal gas russo si parla di riaprire le centrali a carbone in caso di crisi energetica, alcuni governi europei, tra cui quello tedesco, hanno dichiarato una virata senza precedenti verso le rinnovabili. Nel caso della Germania, queste costituiranno il 100% delle fonti di approvvigionamento energetico entro il 2035. Con risvolti anche ideologici. Christian Lindner, Ministro delle Finanze della Germania, ha dichiarato che le energie rinnovabili sono, di fatto, “energie di libertà”.
Non possiamo fare a meno di richiedere a gran voce scelte sensate e politiche oculate su questi beni essenziali. Basti pensare che i servizi ecosistemici valgono il doppio del PIL globale, ovvero due volte la somma dell’intera ricchezza prodotta sul pianeta. Una frattura netta tra noi e l’ambiente e spirali di (auto)distruzione possono condannarci rapidamente a un’illusione, anch’essa di breve durata: credere di poter vivere due destini paralleli (quello dell’umanità e quello della natura), ove invece essi sono indissolubilmente legati. Legati ma, attenzione, disgiunti nei possibili esiti: se è vero che noi non possiamo sopravvivere senza la natura, la natura sembra poter sopravvivere benissimo senza di noi.
Le rovine di civiltà passate avvolte dalla vegetazione non sono una rarità, alcune sono persino divenute spettacolari mete di turismo (pensiamo al celebre sito archeologico di Angkor, in Cambogia, dove la giungla “abbraccia” le antiche costruzioni Khmer) ma hanno il sapore delle cose passate. Come dire, ci fanno pensare: “a noi non succederà”.

Ma esistono già eccellenti eccezioni contemporanee. Guardiamo ad esempio alla prefettura di Fukushima: le immagini pubblicate da National Geographic la scorsa primavera ci narrano della potenza della natura nel trasformare scenari che avevamo imparato a conoscere come luoghi di morte, destinati a un destino di infinita desolazione. Nella prefettura giapponese investita dal terribile tsunami del 2011 e dal disastro nucleare che ne è seguito, la fauna selvatica è invece sempre più numerosa. Nonostante crisi e mutazioni dovute all’alto livello di radiazioni (celebri furono le alterazioni morfologiche nella popolazione di Zizeeria maha, la “farfalla senza ali”, a cui fu dedicato uno studio pubblicato su Nature nel 2012), la natura ha mostrato la sua resilienza ed è tornata a fiorire. La biodiversità è in costante aumento e distese infinite di verde coprono i villaggi una volta brulicanti di uomini, donne e bambini (nell’area di Fukushima, grande quanto la città di New York, prima del disastro vivevano circa 160.000 persone).
Tra piccoli asili nido, i cui giochi dai colori sbiaditi punteggiano il verde e il giallo di erba e spighe, i claustrofobici uffici dalle pareti piegate e dalle finestre rotte e gli inquietanti impianti dismessi della centrale, sfilano e zampettano indisturbati un gran numero di piccoli e grandi animali.
Volpi rosse, lepri, procioni, macachi, cinghiali, cervi, scoiattoli giapponesi, gatti selvatici e civette, solo per citarne alcuni.
James Beasley, ricercatore della University of Georgia, ha utilizzato una rete di oltre 100 telecamere per monitorare la fauna selvatica della zona nell’arco di 4 mesi, compiendo inoltre ricerche sulle abitudini degli animali. Senza riscontrare, peraltro, gravi variazioni nei parametri comportamentali (i risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Frontiers in Ecology and the Environment).
Uno scenario simile a quello di un’altra area duramente colpita dalle radiazioni: quella di Chernobyl. Nelle foreste ucraine la fauna si è adattata e prolifica dove persino l’uomo, a 35 anni dal disastro, non è riuscito a ricostruire. Le Nazioni Unite l’hanno definita “un inaspettato paradiso per la biodiversità” e Tim Christophersen, coordinatore UNEP, solo pochi mesi fa aggiungeva che si tratta di “un esempio affascinante di come la natura sia in grado di risorgere dal degrado”.
La natura, dunque, è incredibilmente resiliente.
E il processo è affascinante nei suoi effetti, quanto rapido. Ce lo dimostra la vicenda dei delfini tornati a nuotare nel Golfo di Trieste, nella primavera del 2020, mentre l’intera Italia era chiusa in casa per il lockdown. Abbiamo toccato con mano quanto velocemente le specie animali possano riappropriarsi degli spazi “lasciati liberi” dalla mano dell’uomo, tanto che gli scienziati hanno persino coniato un termine per lo stand by da pandemia che ha generato effetti positivi sull’ambiente: “antropausa”. Una pausa che la natura si è presa dall’essere umano.
Siamo costantemente posti di fronte alla possibilità di un futuro, più o meno lontano, nel quale le nostre opere potrebbero comparire sullo sfondo. Cambiare le regole del gioco, per imprimere una svolta diversa, è una questione che scuote le fondamenta del nostro rapporto con l’ambiente e con l’Altro.
All’umanità serve un nuovo patto di pace – con l’ambiente e con l’Altro. Un ritorno all’essenziale e all’umano.
(Lettura consigliata -> leggi la seconda parte dell’articolo: “Rewilding: ridisegnare il rapporto uomo-natura”.