“Abbassare le stelle al mio livello”.

“Abbassare le stelle al mio livello”: il magico perduto di Dylan Thomas.

Dylan Thomas è stato un artista nel senso più completo e assoluto. Poeta maledetto, gallese di nascita, alcolista per vocazione, inesauribile scrittore, letterato, pensatore libero, animo straziato da un dolore costante, solo a tratti punteggiato da un “umano” esasperato, ha fatto di sé una lirica vivente.

Gli artisti, si sono accinti, sebbene inconsciamente, a dimostrare una di due cose: o che sono pazzi in un mondo sano di mente, o che sono sani di mente in un mondo pazzo. A pochi è stato concesso di pervenire a una fusione perfetta tra follia e sanità mentale, e tutto è sano di mente tranne ciò che noi facciamo pazzo, e tutto è pazzo tranne ciò che noi facciamo sano di mente.

Dylan Thomas nasce a Swansea nel 1914 e inizia da giovanissimo, malgrado l’adesione al “nuovo romanticismo”, a praticare una poesia che reca evidenti influssi di Hopkins e Joyce. Twenty-five poems e The map of love, e A portrait of the artist as a young dog, poesie legate ai ricordi dell’infanzia, gli garantiscono buoni riconoscimenti.

“Abbassare le stelle al mio livello”: il magico perduto di Dylan Thomas.

Il suo stile è complesso e ricco di ambigue oscurità, come l’estetica geometrica con cui disegna e delinea, a volte, i limiti delle parole.

L’apparente rigore si fonde con una ricerca spasmodica di musicalità in uno sviluppo progressivo che tende verso inconsuete traiettorie, tutte oppositive:

E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce
.

E i pensieri del poeta suonano come una eco nelle lettere che continua a scrivere, a rivedere, a tracciare come un cammino che conduce sempre verso segmenti di contrasto, inevitabili scontri emotivi.

Il magico perduto di Dylan Thomas. Musicalità e traiettorie oppositive.

La poesia dovrebbe essere, in primo luogo, un documento o una narrazione, di tutti gli eventi emotivi tra il venire e l’andare, il formarsi e il dileguarsi, della gelosia, gelosia scaturita dall’orgoglio e uccisa dall’orgoglio, tra l’assenza e il ritorno del personaggio cruciale della narrazione, tra la guerra della sua assenza e l’armistizio della sua presenza.

Una lirica tormentata e a tratti ironica, volutamente offuscata da ricordi e allucinazioni:

A volte scrivo da sobrio e correggo da ubriaco, a volte scrivo da ubriaco e correggo da sobrio”, paradossi e ossimori “Dopo la prima morte non ve ne sono altre.

La categoria dell’enigma è sempre in agguato. Lo svelare sentimenti e situazioni non appartiene al suo sentire, perché nella forza della sua lingua scritta si innestano ricorsività mentali e, come un giocatore esperto, Thomas sa che ogni codice scritto rappresenta la spina dorsale dell’interpretazione e dovrà essere il lettore a svelarlo, a interpretarlo secondo le proprie conoscenze e abilità. Meccanismo potente, che lega parole comuni a situazioni non convenzionali, combinazioni di parole nuove con concetti solo potenzialmente etichettabili.

Il magico perduto di Dylan Thomas. Parole come enigmi.

Non si abbassa al gioco del semplice, non si rifugia nelle spiegazioni (sarebbe impossibile per lui) ma usa mezzi espressivi che riproducono antagonismo di sensazioni ed emozioni, lucidità e apparente tenebra:

 E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.

Dylan Thomas è l’umanità condensata in un’abilità linguistica che è conoscenza condivisa, che produce forme e contenuti che ci rendono sensibili, anche al di là della loro comprensione:

Si tratta, lo ammetto, di cose poco attraenti, con le loro immagini quasi totalmente anatomiche. Ma difendo lo stile, il susseguirsi forse tedioso di sangue e ossa, gli inesauribili paragoni tra le correnti nelle vene e le luci negli occhi, […] e mi rendo conto come mi sia impossibile sollevarmi all’altezza delle stelle, e come sia costretto, per conseguenza, ad abbassare le stelle al mio livello e ad includerle nel mio universo materiale.

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

Il dolore nudo di Francis Bacon

Il dolore nudo di Francis Bacon. Bacon nasce a Dublino, il 28 ottobre del 1909 e muore improvvisamente a Madrid il 28 aprile 1992.

Artista controverso, spesso difficile, crudo, provocatorio, dolente. Anima inquieta, innova la pittura figurativa e ne fa la pittura “della figura”.

Il dolore nudo di Francis Bacon

Appartenente, secondo molti critici, alla corrente del neoromanticismo, al margine del surrealismo, ha stravolto e sconvolto il panorama artistico del suo tempo, con quelle figure umane distorte, frammentate, isolate, contorte in un dolore che accende le tinte e trafigge lo sguardo.

Ciò che voglio fare è distorcere la cosa molto al di là dell’apparenza, ma nella distorsione stessa portarla a una registrazione dell’apparenza.

Nel 1933 dipinge “Crucifixion”, una delle prime opere a essere intercettata dalla critica e che gli permetterà, l’anno dopo, di allestire una Mostra personale che però non riceverà alcuna attenzione.

Crucifixion, 1933

La delusione sarà talmente forte che Bacon deciderà di distruggere gran parte dei dipinti realizzati negli anni giovanili.

Questo segnerà una svolta nel suo modo di far “sentire l’arte”: figure e sfondo che coincidono su uno stesso piano, immagini isolate, scarnificate, capaci di mostrare scheletro e ossa, visi deformati, figure antropomorfe, strani esseri provenienti da un qualche orrore interiore.

È del 1944 “Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion”, una delle sue opere più conosciute, e che meglio ci fa comprendere il rapporto di Bacon con la letteratura e la poesia. I soggetti dei Tre Studi si ispirano infatti alle Furie dell’Orestea di Eschilo e, come nel primo stasimo della tragedia eschilea in cui Le Erinni avviano un terribile canto di morte danzando selvaggiamente attorno a Oreste, così le figure nel trittico di Bacon appaiono parti anatomiche umane o disumane, in preda a una forza distruttrice che sa di selvaggio e antico.

Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion, 1944

Deformazioni di parti anatomiche, schiene sformate fino a mostrare i contorni ossei, colli allungati che terminano con un solo occhio, bocche animalesche che chiedono violenza e terrore.

Stesso tema che verrà ripreso nel 1981 proprio con il Triptych Inspired by the Oresteia of Aeschylus.

Triptych Inspired by the Oresteia of Aeschylus, 1981

Le figure diventano insetti ronzanti, destrutturati scheletri, piedi che si allungano come fossero pinne.

Penso che l’arte sia un’ossessione per la vita e, dato che siamo esseri umani, la nostra più grande ossessione è quella per noi stessi. Secondariamente ci sono gli animali, poi i paesaggi”.

Ma l’opera che sicuramente ha destato maggiore scalpore e indignazione nella critica dell’epoca e nel pubblico, è stata “Head VI” ispirata al Ritratto di papa Innocenzo X di Velázquez – opera che da sempre lo aveva ossessionato – e che rappresentava l’ultimo di sei pannelli che facevano parte della serie Head 1949.

“Head VI”

Pennellate forti, stese con una potenza espressiva impressionante e al centro la figura di un uomo, chiuso, intrappolato in una gabbia trasparente, senza aria, dalla quale sa di non poter uscire e il suo urlo è straziante, atroce, furioso.

Il colore cola dal volto, lo sguardo è sciolto, tumefatto, perso. Solo orbite nere, grigiore, paura che si diffonde attorno. Il dolore che scoppia dall’interno e che esplode con un grido sordo, è tutto interiore, e non può essere placato, perché nessuno può conoscerne i motivi. Se confrontiamo “Head IV” con “Pope” del 1958, notiamo i tentativi di Bacon nel ricercare diverse soluzioni stilistiche per descrivere la medesima figura.

“Pope”, 1958

Qui l’immagine sembra tracciata come base di riproduzione, tentativo di abbozzare una figura umana, prova di mimetismo con una realtà che appartiene solo al suo sentire esterno e che non è stata ancora interiorizzata. Anche la scelta del colore sembra seguire il suo bisogno di normalizzazione, di avvicinamento alla percezione stessa dell’opera di Velasquez, anche se la postura della figura è già distorta, obliqua rispetto al piano visivo, tutta proiettata a una chiusura verso l’esterno.

L’impatto che si riceve guardando l’opera Head IV è brutale e si avverte decisa la sensazione di soffocamento, e di impotenza. Ci si sente aggrediti e violati in qualche modo.

La veste viola, stropicciata, che ricopre la parte del corpo dipinta, sembra un velo sepolcrale, macchiato di colore marrone, di terra, di putrefazione, di morte. Spinto oltre l’esistenza, la figura sembra desiderare spargersi oltre lo spazio consentito.

È carne viva, pulsante, che diventa tutt’uno con il suo grido, uno straziante bisogno di far uscire il corpo dalla bocca e dagli occhi. La sofferenza di essere umani, lo strazio della condizione di essere umani.

Penso che sia il lieve distacco dal reale, che mi rituffa con maggior violenza nel reale stesso. Attraverso lʹimmagine fotografica mi ritrovo a vagare dentro lʹimmagine e a estrarne quella che ritengo sia la sua realtà più di quanto mi sia possibile semplicemente guardando a quella realtà. E le fotografie non sono solo punti di riferimento; spesso funzionano come detonatori di idee.

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

Io e Athena ci siamo incontrati in una libreria

Io e Athena ci siamo incontrati in una libreria è il racconto del mio primo incontro con la Filosofia (permettetemi, almeno in questo inizio, di scriverla con la lettera maiuscola). Un incontro che fu talmente improvviso e inaspettato da costituire una memoria indelebile.

Da quel giorno molti fatti sono trascorsi. Altrettanti ricordi sono sbiaditi o si sono cancellati. Ma non la vicenda che determinò l’inizio del viaggio, non il suo principio.

Avevo circa 20 anni e come spesso succede non avevo reali convinzioni di cosa volessi essere nella vita.

 

Avevo confusamente scelto all’università Scienze Naturali e bighellonavo materialmente e mentalmente in attesa di svolgere il servizio militare (allora ancora obbligatorio). Nessun desiderio particolare, nessuna prospettiva illuminava la mia idea di futuro. Fu proprio durante uno di questi vagabondaggi che mi imbattei nella disciplina di Athena.

Ero con un mio amico e come eravamo soliti fare camminavamo senza meta per le vie del centro cittadino, dividendo le nostre discussioni tra un generalizzato e assolutamente non motivato rifiuto della società e cialtronerie boccaccesche.

Nonostante questo, avevamo entrambi anche una parte nobile: l’amore per la lettura e di conseguenza per i libri. Eravamo interessati soprattutto ai libri storici e di divulgazione scientifica. Proprio in virtù di questo interesse, quel giorno entrammo in una libreria (non una di quelle che frequentavamo abitualmente) e incominciammo anche qui a bighellonare tra gli scaffali, leggendo i titoli, sfogliando i libri che ci sembravano interessanti ed esecrando platealmente altri che non ci sembravano assolutamente degni di nota.

Quando ecco che il mio amico si dirige verso una sezione che non eravamo usi frequentare, ovviamente la sezione di filosofia.

Ricordo perfettamente la sensazione di quasi disagio che provai nel leggere i vari titoli sulle costine. Alcuni autori mi erano ovviamente noti, di altri non avevo mai sentito parlare. Io avevo fatto un istituto tecnico e la filosofia non era contemplata in alcun modo nel piano degli studi.

Alla sensazione di disagio subentrò una bizzarra sensazione di straniamento, come se non riuscissi in quel preciso momento a mantenere l’equilibrio di me stesso e come se mi fossi reso conto che il centro su cui poggiava la mia esistenza fosse solo un ciondolare.

Una sensazione rapidissima ma incisiva che stava per farmi allontanare dagli scaffali, quando il mio amico scuotendo leggermente la testa come per annuire, allungò una mano e prese un libro di Nietzsche e più precisamente “Al di là del bene e del male”, lo soppesò per un momento e poi mi annunciò che lo avrebbe acquistato.

Disagio e straniamento furono spazzati via dalla sorpresa e dal senso della sfida.

Allungai una mano anche io verso lo scaffale e simulando sicurezza scelsi un’altra opera di Nietzsche, “L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo”. Perché proprio quest’opera? Perché mi sembrava breve e perché tra le cialtronerie di rifiuto dell’epoca c’era anche una confusa avversione verso il cattolicesimo.

Se di questo episodio riesco a ricordare vividamente i suoni, i colori e persino gli odori, di quello che avvenne immediatamente dopo non ho alcuna memoria. Naturalmente avrò pagato il libro che sarà finito dentro una busta e mi avrà accompagnato per il resto della passeggiata.

La memoria torna vivida se ripenso al momento, al primissimo momento, in cui a casa aprii il libro con l’intenzione di provare a leggerlo.

Le prime frasi della prefazione furono simili ad un colpo fortissimo.

Questo libro si conviene ai pochissimi. Forse di questi non ne vive ancora neppure uno.

Era come se sentissi Nietzsche parlarmi direttamente, con un tono di voce roboante, come se avesse iniziato a indicare una via invitandomi a prenderla ma nello stesso tempo avvertendomi che si trattava di una via pericolosa, irta di problemi e angosce, ma il suo avvertimento aveva totalmente il suono della sfida, una sfida da cui fui irrimediabilmente attratto e che ancora oggi condiziona ogni mia singola giornata.

Divorai il libro, leggendo e rileggendo i vari enunciati, scrivendo le frasi per me maggiormente significative e prendendo la decisione irrevocabile di abbandonare la facoltà che stavo facendo e di iscrivermi al Corso di Laurea in filosofia, sorprendendo tutti coloro che mi conoscevano (in primis i familiari) che si diedero subito da fare per persuadermi a rinunciare e a “smettere di vivere tra le nuvole, perché con la filosofia non troverai mai lavoro”.

Naturalmente nella mia prima lettura di Nietzsche non avevo in realtà compreso quasi nulla. Era una lettura guidata solo dalla sensazione, senza alcuna base che mi permettesse di definire il contesto, la storia, e il senso di quelle affermazioni. Avrei acquisito queste conoscenze solo dopo, approfondendo gli studi, e vedendo sotto un’altra luce quelle frasi che mi erano sembrate pura esaltazione e potere.

Ma non si incomincia ad ardere per una passione in nessun altro modo. Solo con una folgore imprevedibile è possibile accendere un fuoco che non si conosce, dopo si potrà imparare a controllarlo, a riprodurlo, a definirne la potenza.

Ma la folgore iniziale resterà per sempre. E nei momenti più bui sarà possibile accedervi di nuovo per avvertire ancora la meraviglia.

 

di Stefano Brega, filosofo.

L’autore dentro il libro

L’autore dentro il libro.

Ci sono libri e autori di cui si parla con passione e spesso con un vero e proprio sentimento di amore. Ci si lascia avvolgere, soffocare, accarezzare come se fossero amanti, amici, complici. Esistono poi autori e libri di cui si parla perché hanno rappresentato il momento topico di una qualche generazione o hanno raccontato di mondi alterati e di falsi miti.

Ci sono autori e libri che raccontano se stessi, che si autorizzano a essere capolavori, che creano dipendenza, rancore, frustrazione, eccitazione.

Autori di cui temi il giudizio mentre leggi voracemente parole pensate e spesso non pronunciate:

Eppure tu… avrai tenuto tra le braccia, come adesso tieni me, chissà quante donne. […] Certo sono tua moglie ma vorrei anche un poco essere la tua amante.

Arthur Schnitzler pubblica questo piccolo spregiudicato capolavoro teatrale, intitolato Reigen (Girotondo), nel 1900. A causa di problemi giudiziari legati ad accuse di pornografia, verrà messo in scena soltanto nel 1920 al Kleines Schauspielhaus di Berlino con la regia di Max Reinhardt.

Un’opera audace, scomoda, intensa, che porta alla luce le ipocrisie delle regole sociali e morali del tempo, imponendo all’amore e al sesso una diversa dimensione, più leggera, effimera, coinvolgente. E Schnitzler lo troviamo lì, dentro la sua opera, dentro tutte le sue opere. Autore dentro il libro. 

L’autore dentro il libro. Arthur Schnitzler

Le guarda nascere. Si avventura in esse, nei rapporti umani, nella frammentazione dei sentimenti, in un continuo susseguirsi di emozioni, nella bellezza delle parole in cui tutto si cela o si svela.

Tutto in lui è creazione di sogni e suoni.

I suoi scritti sono universi di emozioni e fraintendimenti che si dispiegano sulla tela dell’egoismo umano, della difficoltà dei rapporti, della sovrapposizione dei desideri:

Godimento… estasi… benissimo, non c’è nulla da dire… è qualcosa di certo. In questo momento io godo…d’accordo, lo so, godo. Oppure sono in estasi, va bene. Anche questo è certo. E quando è passato, è passato e basta. Ma appena… come devo dire.. appena non ci si abbandona al momento, e si pensa al prima o al poi… be’, allora è finita: il prima è incerto… il poi è triste… insomma, ci si sente turbati e basta. Non ho ragione?.

Una verità o una parvenza di verità nascosta in un girotondo di parole, araldo di sensazioni dissimulate, in cui il rapporto tra due persone è destinato a perdersi, a dissolversi nell’istante della conoscenza reciproca.

Tutto appare finzione, realtà e finzione, una percezione del mondo che è ricerca estenuante di sentimenti possibili, di interiorità, di percezioni avvolte in belle frasi e che frammentano il reale in minuscole particelle che girano e si disperdono nel vento della quotidianità: “Ma la felicità non esiste. In genere, proprio le cose di cui più si parla non esistono… per esempio l’amore. È esattamente lo stesso”.

Cosa gli si oppone oggi? Di quali arditi sentimenti ci facciamo complici?

Il mainstream e la moderna letteratura o lirica da esposizione in autogrill, magari promossa sul palco di uno spettacolo domenicale, ha deteriorato in questi ultimi anni il rapporto costruttivo tra autore e lettore, riducendolo a un sistema unidirezionale, dove l’autore cita, autocitandosi, sentenze e aforismi, mentre il lettore fa sue e “spara” sul web citazioni delle autocitazioni, convincendosi di sentirle proprie solo perché poco impegnative e facili da interpretare.

Storie di maschietti assaliti da turbinose informazioni sessuali, di loro pensieri che generano ridicoli incontri con le voglie stringenti e passeggere, solo a guardare i lati più in vista di cameriere che vorrebbero soltanto tornare a casa dopo dieci ore di lavoro; di donne con emozioni e appetiti sessuali bloccati, che decidono che sia arte la mancanza di controllo, per poi rimuginare per ore sul perché.

Siamo invasi da “poesiucolaggini” che di impegnato hanno solo la scarsa conoscenza dell’ortografia di una lingua che si dichiara come propria: scalcinati, zoppicanti pensieri ammantati con vesti stropicciate e maleodoranti, da chiacchiere infruttuose sul cambio del tempo, il costo del sacchetto della frutta e i “progressi muscolari” fatti a Zumba.

E tutto è accompagnato da una scrittura che di misterioso e visionario non ha nulla.

Pagine e pagine imbrattate di banalità, infarcite di pedanterie, ricche di “sentito dire”, che viaggiano negli autobus caldi di sudore e svogliatezza, che respirano creme solari al cocco, che puzzano di liquame di sigarette elettroniche, che sono sporchi di sabbia e di noia.

Dove è finito l’autore dentro il libro? Dove troviamo il piacere di essere fragili, vulnerabili, instabili, incoerenti? 

Il dolore, come qualsiasi altro sentire, non è qualcosa che accade semplicemente. Non è universale né pretende di esserlo. È relativo, soggettivo, spesso arbitrario, ma mai banale:

E alla fine rimane un rettangolo vuoto, una finestra, una stella dietro una finestra, un lenzuolo steso alla finestra… o forse anche questo è un grande gigantesco incubo (Roberto Bolaño, I detective selvaggi). 

E eccolo, Bolaño è lì, dentro il suo libro.

Roberto Bolaño Ávalos – autore dentro ogni suo libro

È per questo che dobbiamo tornare a credere che la vera letteratura, la scrittura incorruttibile, visionaria, destabilizzante, esista ancora ed esista nei nuovi scrittori, nei talenti emergenti, nel coraggio del loro sentire, negli artisti a tutto tondo, che scrivono senza aspettarsi like distratti, senza attendere ricompense immediate, che donano la loro scrittura a chi vuole accoglierla e amarla.

In tutti gli scrittori, artisti, autori alla ricerca di sogni e di suoni, che sanno trasformare la loro scrittura in parola artistica che si svela, io credo fermamente e per loro mi batto, perché ogni opera d’arte sia davvero un avvenimento indicibile.

 

di Mariaclara Menenti Savelli (Editore di Kressida, Storico dell’Arte e Critico Letterario)

All’umanità serve un nuovo patto di pace. Con l’ambiente e con l’Altro

La guerra in Ucraina ha risvegliato terrori dimenticati. Tra i tanti che affollano la nostra mente anche lo spettro di un conflitto nucleare. Una paura che ci riporta all’essenziale e all’umano, rimettendo in discussione ogni idea preconcetta. Una spinta a riflettere su un terribile “avvenire possibile”: uno scenario in cui la natura, senza di noi, continui a vivere.

Una prospettiva che è già realtà in luoghi più o meno dimenticati del nostro pianeta.

In ogni parte del mondo esistono paesaggi in cui le architetture in rovina mostrano ancora l’eco di una presenza umana, ma come fosse la citazione di un passato destinato a non ripetersi.

Testimonianze di civiltà perdute, a cui fa da contrasto una natura lussureggiante, un ambiente ricco di movimento e colore, che si riappropria dei suoi spazi.

Sito archeologico di Palenque, in Messico. Un tempo cuore splendente della civiltà Maya.

È un’immagine che ci genera nostalgia, ci rende fragili e ci provoca, al tempo stesso, un annichilente senso di disorientamento. Ma che è anche opportunità di porsi dinanzi a dilemmi importanti: quale ruolo vogliamo giocare, come esseri umani, nel rapporto con l’ambiente? Quali relazioni di pace e di supporto tra i popoli dobbiamo intessere perché si eviti la catastrofe?

Lo sappiamo: la nostra sopravvivenza dipende strettamente dalla disponibilità di servizi ecosistemici essenziali. A contare è anche loro qualità: acqua, aria, suolo (e quindi cibo) “puliti” ma anche materie prime fondamentali per le nostre economie, per la produzione di beni e di energia.

L’acqua è tra i servizi ecosistemici più preziosi

I servizi ecosistemici sono risorse che dobbiamo governare con saggezza e umanità, tenendo conto dell’impatto che le manovre economiche attorno ad essi esercitano sulle persone e sulle comunità.

Si tratta di ricchezze indispensabili che, come stiamo vedendo in questi giorni, si “muovono” con il mutare degli equilibri mondiali. Mentre nei Paesi a più alta dipendenza dal gas russo si parla di riaprire le centrali a carbone in caso di crisi energetica, alcuni governi europei, tra cui quello tedesco, hanno dichiarato una virata senza precedenti verso le rinnovabili. Nel caso della Germania, queste costituiranno il 100% delle fonti di approvvigionamento energetico entro il 2035. Con risvolti anche ideologici. Christian Lindner, Ministro delle Finanze della Germania, ha dichiarato che le energie rinnovabili sono, di fatto, “energie di libertà”.

Non possiamo fare a meno di richiedere a gran voce scelte sensate e politiche oculate su questi beni essenziali. Basti pensare che i servizi ecosistemici valgono il doppio del PIL globale, ovvero due volte la somma dell’intera ricchezza prodotta sul pianeta. Una frattura netta tra noi e l’ambiente e spirali di (auto)distruzione possono condannarci rapidamente a un’illusione, anch’essa di breve durata: credere di poter vivere due destini paralleli (quello dell’umanità e quello della natura), ove invece essi sono indissolubilmente legati. Legati ma, attenzione, disgiunti nei possibili esiti: se è vero che noi non possiamo sopravvivere senza la natura, la natura sembra poter sopravvivere benissimo senza di noi.

Le rovine di civiltà passate avvolte dalla vegetazione non sono una rarità, alcune sono persino divenute spettacolari mete di turismo (pensiamo al celebre sito archeologico di Angkor, in Cambogia, dove la giungla “abbraccia” le antiche costruzioni Khmer) ma hanno il sapore delle cose passate. Come dire, ci fanno pensare: “a noi non succederà”.

Lo spettacolare sito archeologico di Angkor, in Cambogia.

Ma esistono già eccellenti eccezioni contemporanee. Guardiamo ad esempio alla prefettura di Fukushima: le immagini pubblicate da National Geographic la scorsa primavera ci narrano della potenza della natura nel trasformare scenari che avevamo imparato a conoscere come luoghi di morte, destinati a un destino di infinita desolazione. Nella prefettura giapponese investita dal terribile tsunami del 2011 e dal disastro nucleare che ne è seguito, la fauna selvatica è invece sempre più numerosa. Nonostante crisi e mutazioni dovute all’alto livello di radiazioni (celebri furono le alterazioni morfologiche nella popolazione di Zizeeria maha, la “farfalla senza ali”, a cui fu dedicato uno studio pubblicato su Nature nel 2012), la natura ha mostrato la sua resilienza ed è tornata a fiorire. La biodiversità è in costante aumento e distese infinite di verde coprono i villaggi una volta brulicanti di uomini, donne e bambini (nell’area di Fukushima, grande quanto la città di New York, prima del disastro vivevano circa 160.000 persone).

Tra piccoli asili nido, i cui giochi dai colori sbiaditi punteggiano il verde e il giallo di erba e spighe, i claustrofobici uffici dalle pareti piegate e dalle finestre rotte e gli inquietanti impianti dismessi della centrale, sfilano e zampettano indisturbati un gran numero di piccoli e grandi animali.

 

Volpi rosse, lepri, procioni, macachi, cinghiali, cervi, scoiattoli giapponesi, gatti selvatici e civette, solo per citarne alcuni.

James Beasley, ricercatore della University of Georgia, ha utilizzato una rete di oltre 100 telecamere per monitorare la fauna selvatica della zona nell’arco di 4 mesi, compiendo inoltre ricerche sulle abitudini degli animali. Senza riscontrare, peraltro, gravi variazioni nei parametri comportamentali (i risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Frontiers in Ecology and the Environment).

Uno scenario simile a quello di un’altra area duramente colpita dalle radiazioni: quella di Chernobyl. Nelle foreste ucraine la fauna si è adattata e prolifica dove persino l’uomo, a 35 anni dal disastro, non è riuscito a ricostruire. Le Nazioni Unite l’hanno definita “un inaspettato paradiso per la biodiversità” e Tim Christophersen, coordinatore UNEP, solo pochi mesi fa aggiungeva che si tratta di “un esempio affascinante di come la natura sia in grado di risorgere dal degrado”.

La natura, dunque, è incredibilmente resiliente.

E il processo è affascinante nei suoi effetti, quanto rapido. Ce lo dimostra la vicenda dei delfini tornati a nuotare nel Golfo di Trieste, nella primavera del 2020, mentre l’intera Italia era chiusa in casa per il lockdown. Abbiamo toccato con mano quanto velocemente le specie animali possano riappropriarsi degli spazi “lasciati liberi” dalla mano dell’uomo, tanto che gli scienziati hanno persino coniato un termine per lo stand by da pandemia che ha generato effetti positivi sull’ambiente: “antropausa”. Una pausa che la natura si è presa dall’essere umano.

Siamo costantemente posti di fronte alla possibilità di un futuro, più o meno lontano, nel quale le nostre opere potrebbero comparire sullo sfondo. Cambiare le regole del gioco, per imprimere una svolta diversa, è una questione che scuote le fondamenta del nostro rapporto con l’ambiente e con l’Altro.

All’umanità serve un nuovo patto di pace – con l’ambiente e con l’Altro. Un ritorno all’essenziale e all’umano.

 

(Lettura consigliata -> leggi la seconda parte dell’articolo: “Rewilding: ridisegnare il rapporto uomo-natura”. 

 

Affogando in un bicchiere di Tom Waits

Affogando in un bicchiere di Tom Waits. Il rumore del sughero a contatto col vetro, tappo che gira, bottiglia aperta, liquido ambrato che scivola giù a riempire un bicchiere, Bourbon, l’ennesimo Bourbon, e nell’aria, uno dei pezzi più belli mai realizzati, “Kentucky Avenue”, vinile che gira, chi non conosce Tom Waits?

Un genio vivente, settantadue anni di vita, ventidue album all’attivo, e poi, collaborazioni, cinema, quanto altro?

Chilometri e chilometri, sulla Route 66, Pomona, Pomona potrebbe essere ovunque, o da nessuna parte, chilometri e chilometri, la Beat Generation costruì un muro, e se c’è qualcuno che quel muro l’ha sfondato ed è andato oltre, quello è proprio Tom Waits, ma io, come posso descrivervelo questo mostro di bravura?

Alla cerimonia per la sua introduzione nella “Rock and Roll Hall Fame”, Neil Young lo presentò dicendo: “Sono qui per descrivere un uomo che è indescrivibile…”, d’accordo, nessun essere umano è descrivibile, ma Tom Waits, non sembra nemmeno un essere umano, o forse, sembra tutti gli esseri umani del mondo, racchiusi in un corpo solo, la sua composizione chimica?

Tom Waits.

Tutto: jazz, blues, rock, country, classica, una storia musicale che lo vede cominciare con ballate melodiche, per trasformarsi in qualcosa di indefinibile, va ascoltato, per capire di cosa sto parlando, per capire la sua assurda evoluzione, bisogna partire dal primo album e arrivare fino all’ultimo, attraversando le storie della vecchia America, piene di ubriaconi, accattoni, matrimoni falliti, dispersi, militari, derelitti, e la poesia?

La poesia è ovunque

in un cielo stellato come nel rumore del motore di un vecchio trattore, e lo sfasciacarrozze, lo sfasciacarrozze è il paradiso, tanto Dio è partito, è fuori per affari, e no, non risponde al telefono, appoggio la cornetta sul tavolo, un bicchiere di Bourbon, l’ennesimo, “Tom Traubert’s blues”, un altro grande pezzo, viene quasi da piangere ad ascoltare il suono della voce di Tom: “… è come se fosse stata immersa in un tino di whisky, poi appesa in un affumicatoio per qualche mese e infine portata fuori e investita con una macchina…”. Così la descrisse il critico musicale Daniel Durchholz, e aveva ragione.

Provare a descrivere la voce di Tom Waits non è certo semplice. Illustrazione dell’artista anglosassone Jimmy Lockey.

“Coloro che si rifugiano nella realtà, hanno paura di affrontare le droghe…”, disse una volta Tom, decine di stanze vuote nella sua casa, una moglie incredibile che da anni lo affianca nel suo lavoro, sì, anche l’amore, la passione, la felicità, la sofferenza, il dolore, son droghe, sì, tutto ciò che crea dipendenza può esser considerato come droga.

Ascoltate Tom Waits e non ve ne pentirete, mai.

 

di Claudio Simoncini  

Deconstructing Claudio

Elogio dell’Imperfetto

Elogio dell’Imperfetto.

I tempi verbali accompagnano le nostre azioni. Funzionano come motori di ricerca: fissano l’istante, aggiungono contorni, mostrano possibilità, filtrano informazioni.

L’imperfetto è il tempo di uno sguardo a qualcosa di appena passato, un voltarsi lento e appena accennato a tutto ciò che ancora ci segue e segna il nostro passaggio.

La sua etimologia latina imperfectus ci riconduce al non compiuto e che forse è o non è disponibile al compimento. Ma l’imperfetto ha in nuce il divenire, il desiderio o l’idea del miglioramento, la frenesia dell’attuazione, la tensione verso l’inesauribile.

Il perfetto, invece, è il tempo del compiuto o dell’irreparabile. Dal latino perfectus, participio passato del verbo perficere, ovvero finire, completare, impone l’idea del già compiuto, di un irreparabile destino, dell’impossibilità al superamento di ciò che siamo stati e che non saremo.

Perfetto è l’intero, la chiusura fisica e mentale, l’inammissibilità di un accrescimento, di una aggiunta, di una minima postilla al nostro essere. Se sei perfetto appartieni al tempo dell’arrestabile istante, della cristallizzazione dei movimenti e delle azioni che furono e che non più saranno.

Così principio e fine sono racchiusi in un unico guscio, gabbia di ferro dell’illogico che non soddisfa il presente né ipotizza un futuro e ci mostra l’impossibilità di mutare l’anteriore, lasciandocene solo il ricordo.

Quando Schopenhauer parla del tempo come la forma ideale per l’apparizione della volontà, cita il presente come unico solo momento di cui abbiamo il reale possesso:

La forma dell’apparizione della volontà è solo il presente, non il passato né il futuro; questi non esistono se non per il concetto e per l’incatenamento della coscienza, sottoposta al principio di ragione. Nessuno ha vissuto nel passato, nessuno vivrà nel futuro: il presente è la forma di ogni vita, è un possesso che nessun male può strapparle…Il tempo è come un cerchio che giri infinitamente”.

Elogio dell’imperfetto. Arthur Schopenhauer

Il presente è l’atto del sentire momentaneo, fuggevole, arbitrario, frazione di tempo che non discerne il futuro né può voltarsi a guardare il passato.

Il presente è l’apparente, fugace insieme di mille percezioni, un intricato attimo di piacere o di dolore, ma questo istante si trova necessariamente invischiato nella tela di ragno di tutto ciò che siamo stati e che ci ostiniamo a credere di non essere più. Viviamo il presente come l’azione del futuro e ci affidiamo a un tempo che forse sarà, come unica conferma.

Il presente non è essere ma la negazione di esso. E come sottolineava Borges:

Contrariamente a quanto afferma Schopenhauer nella sua tavola di verità fondamentali, ogni frazione di tempo non riempie simultaneamente lo spazio intero, il tempo non è ubiquo”.

Così mi ostino a essere perché forse sarò e non potrò più essere ciò che sono stato.

L’imperfetto è il tempo della potenzialità, della padronanza del senso, capace di spostare il piano di realtà da un livello all’altro. Si mostra a noi come un filo di lana che si allunga verso un presente futuribile. È il tempo delle istanze, della speranza di poter ancora essere o non essere, la porta di passaggio tra diversi piani, un nuovo spazio d’azione.

L’imperfetto penetra il vuoto oscuro del perfetto mostrandoci la strada verso un viaggio iniziatico alla conoscenza di noi stessi, senza limiti, né strutture logiche, né frazioni oppositive.

Perché la vita è un istante imperfetto” (F. Kafka). E così, siamo “imperfetto”, sempre.

 

di Mariaclara Menenti Savelli

Nutriamoci di parole

Avete mai pensato di cibarvi di parole e accenti?

Di considerare la letteratura come un cibo da odorare, masticare, inghiottire e digerire? Di fare delle parole un nutrimento mentale che offra sapori pungenti, decisi, tattilmente consistenti o odori aspri, dolci, avvolgenti? Di condire le parole con asprezze per farne una pietanza dolceamara, di spargere termini salmastri in periodi dolcigni, o mascherare un linguaggio arcigno con un velo di dolcezza e servire il tutto come in un menu di cucina fusion?

La letteratura è cibo quando accentua quella sensazione di gusto armonioso e delicato o di disgusto traboccante, indigeribile, soverchio. È cibo quando si spinge dall’appagante profumo di un desiderio ai nauseabondi bocconi amari. Spesso è arte del gusto, in opere da consumare lentamente, in lunghi passaggi dai contorni brucianti, da rigurgitare e ricominciare.

È cibo da meditazione, nella letteratura attenta, ricca di indecifrabili essenze, succosa, carnale, umorale; è assaggio frettoloso nella letteratura pigra, sonnolenta, lattiginosa. La letteratura si tramuta in cibo da consumare velocemente, quando si mostra metafora sociale, racchiudendo, nel suo involucro croccante, incontri e scontri, per rimane poi sulle labbra a sottolineare differenze o somiglianze. Cibo come letteratura tra piatti gourmet irreali e ossessivi, tra pietanze elaborate che nascondono correnti emozionali, tra avanzi e briciole, tra vita e morte, tra mondi che non esistono e sogni possibili.

Spesso la letteratura usa il cibo per condire un linguaggio percettivo e immaginario, per parlare di illusione, piacere e rinuncia, per esplorare porte d’accesso al dualismo, al magico, al rimosso.

Scrittura di un mondo rovesciato, dove il rifiuto del cibo costituisce un simbolo, la manifestazione delle proprie ossessioni, un lucido rifiuto dei fremiti del cuore, del passaggio pulsante della vita nelle vene, di una nuova alterna coscienza.

Molti scrittori e poeti hanno raccontato (attraverso la funzione meccanica e dissociante del cibo che da ghiotta tentazione diviene nutrimento superfluo dei cuori distratti, da bisogno emergente si trasforma in alimento deviante per menti disattente) di terre di speranze e disperazione, di nuove scoperte e di vecchi principi.

Il cibo nei racconti ha spesso il sapore disgustoso del macabro, che sfuma in contorni dolorosi e deliranti, diventando metafora di ciò che è socialmente buono o cattivo, giusto ed ingiusto. Il cibo da semplice alimento estende la sua potenza e mostra il suo obiettivo aggregante.  Diventa quantitativamente rilevante e socialmente riconoscibile, comunica, distingue le persone ed i gruppi, unisce identità di dolore.

Cibo non enumerato, non determinato, non tratteggiato nei suoi caratteri più comuni ma compiutamente espressivo, potente, distruttivo, catalizzatore dei mali del mondo, voce di cuori e coscienze, come nei racconti di Nathaniel Hawthorne.

Letteratura che si serve del cibo per allestire banchetti esaltanti e perversi, in cui il cibo rappresenta l’ingresso ad un mondo rituale e primitivo, fungendo da richiamo, da morbosa attrattiva sessuale e vampirica: è fonte di riti magici per desideri e appetiti antropofagi. Il cibo descritto per essere divorato con oscena voracità, poiché è il simbolo di un rituale di morte, uno strumento comunicativo efficace ed espressivo. Tavole imbandite e ricche di cibo morto, elegantemente presentato e rabbiosamente afferrato. Un cibo letterario che ha il gusto ed il profumo del proibito, spartiacque tra la brutalità e bisogno di immortalità, come nei feuilleton di Gaston Leroux.

Cibo che diventa personificazione del contrasto, forma e visione di una società immatura e frivola, segno di rottura e di declino delle coscienze, metafora di un mondo sul ciglio del baratro, che si consegna nelle mani del vizio, del lusso e della gola, per sfuggire orrori e responsabilità.  Cibo svelato da contenitori sottili e trasparenti, segno tangibile di bellezza e decadenza morale, presenza viva e corporea, che ostenta se e stesso, esibendosi su un palcoscenico illuminato dallo sfarzo e oscurato dal vizio e dall’apatia, come in Rainer Maria Rilke.

Ma il cibo letterario è anche passaggio, chiave di accesso per una delle tematiche centrali della letteratura scapigliata: il dualismo, la doppia immagine della coscienza. Cibo capace di assolvere la sua funzione perturbante oltre i limiti biologici, mostrando il suo valore simbolico, come ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti, capace di gettarci nell’ombra profonda di una realtà lontana da noi o di mostrarci l’approdo a una più sicura coscienza ordinaria.

Rewilding: ridisegnare il rapporto tra essere umano e natura

La sottrazione di aree alla natura selvaggia – nella speranza di riuscire poi a farne a meno – è una caratteristica fondante della nostra civiltà: dai campi coltivati ai pascoli, dalle città alle fabbriche, il nostro sviluppo economico e sociale si è retto finora sulla nostra capacità di riorganizzare, modificare e alterare gli spazi naturali, ovvero di renderli funzionali alle attività umane, controllando e confinando le espressioni più selvagge della natura. Questo processo ha un nome: antropizzazione. Ma alla luce della crisi ambientale che stiamo vivendo è lecito chiedersi: un modello diverso è possibile? Il concetto esiste già: si chiama “rewilding”.

Ma che cos’è il rewilding? 

Il World Economic Forum lo definisce come “l’atto di riportare un’area del pianeta al suo stato originale”, modificando perciò il pensiero tradizionale di controllo e gestione della natura come azione dall’alto, incorporando invece “nuovi elementi di progettazione architettonica o paesaggistica” che concilino le necessità degli esseri umani con quelle degli ecosistemi, con prospettive di sostenibilità a lungo termine.

Non parliamo di tutelare gli “spazi verdi” bensì di permettere alla natura di riappropriarsi di alcuni spazi.

John muir
Rewilding: ridisegnare il rapporto tra essere umano e natura. John Muir, ambientalista e narratore della natura selvaggia.

Il rewilding è un modo per ridisegnare il rapporto tra noi e la natura.

La natura di cui abbiamo bisogno, infatti, non è quella di un curato prato all’inglese: perché i meccanismi di autoregolazione funzionino, perché gli insetti impollinatori facciano il loro lavoro e non si assista al prevalere di una specie sull’altra, abbiamo bisogno di una “natura autentica”. Si tratta di una visione volta al reale ripristino degli ecosistemi, la quale non può che prevedere che sia l’uomo a fare un passo indietro. Il nuovo paradigma richiede saggezza e analisi per giungere alla riduzione degli sprechi e del proprio impatto ambientale. Occorre ridisegnare un modello nuovo.

 

Rewilding: ridisegnare il rapporto tra essere umano e natura. Il rewilding ha come obiettivo quello di ispirare e motivare le persone a restaurare gli ambienti e i processi naturali.

Un’assunzione di responsabilità che dallo scorso Febbraio ritroviamo anche in Costituzione: innanzitutto nel comma all’articolo 9, in cui si ribadisce che la Repubblica si impegna a tutelare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi (questi ultimi due termini sono particolarmente significativi, in quanto rimandano alla “natura autentica” di cui sopra), anche nell’interesse delle future generazioni. Ma anche negli incisi all’articolo 41, i quali, in relazione all’iniziativa economica, ribadiscono che essa non possa svolgersi recando danno all’ambiente. Poche, semplici parole che costituiscono una svolta epocale. A patto, però, che a queste segua la reale adozione di modelli innovativi.

Non è un progetto che si possa improvvisare: perché il rewilding sia sostenibile, sicuro e vantaggioso, occorre un approccio scientifico e il coinvolgimento di tutti gli attori locali. Ma con quali vantaggi?

Secondo l’IUCN il rewilding è un asset fondamentale nella lotta al cambiamento climatico: aumenta lo stoccaggio di CO2 e protegge inoltre le popolazioni dai rischi legati agli eventi climatici estremi.  Si registra anche un impatto positivo significativo “sulla salute umana, in particolare per gli abitanti delle città con meno accesso agli spazi esterni”.

A differenza di quanto si potrebbe pensare, inoltre, esso rappresenta anche un’efficace misura contro il rischio zoonosi. Uno studio del 2021 apparso su Restoration Ecology mette in luce come il ripristino di ecosistemi perduti, anche in città, debba essere considerato come un vero e proprio imperativo in quanto “servizio reso alla salute pubblica”: non solo un ecosistema in salute si “autoregola”, tenendo lontani i virus, ma ci permette anche di attuare “contromisure ecologiche”, utili a ridurre i microrganismi circolanti e i loro vettori (come studiato per il patogeno responsabile della malattia di Lyme, il batterio Borrelia, in Giappone).

Per creare un nuovo “patto di sostenibilità” occorre però un cambio di paradigma. Significa infatti “riappacificarsi” con la natura, lasciandole i suoi spazi e godendone, imparando a far sì che non si debba più scegliere “tra noi e lei”.

La natura, anche in città, promuove il nostro benessere psico-fisico.

 

Anche la Royal Swedish Academy of Science ha di recente ribadito che la transizione verso nuovi sistemi è qualcosa che richiede più di un semplice sforzo: è una svolta di prospettiva radicale nella nostra concezione della relazione uomo-natura. Si tratta, in effetti, di saldare una frattura (che è tale sia in quanto percepita, sia perché legata ai nostri modelli di organizzazione); un passaggio che però, nell’era dei cambiamenti climatici e delle minacce ambientali, potrebbe davvero fare la differenza.

Rewilding vuol dire felicità. Esso ha infatti, più indirettamente, numerosi effetti positivi sul raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità e di pace sul nostro pianeta: più viviamo a contatto con la natura, più ce ne sentiamo parte e più ci attiviamo per la sua salvaguardia. Il contatto con l’ambiente sviluppa le nostre visioni sistemiche e ci rende più consci della necessità di cooperare tra comunità umane.

La natura è fonte di creatività e ispirazione. Servizi ecosistemici di incalcolabile valore.

Uno studio pubblicato su Applied Research in Quality of Life lo scorso aprile conferma infatti i dati raccolti nel corso di una famosa ricerca dell’Università dell’Illinois condotta alla fine del decennio scorso: non solo “gli individui con una migliore relazione con la natura sono più inclini ad adottare uno stile di vita sostenibile” ma da questa relazione traggono anche benefici maggiori, che si traducono in livelli di benessere generale più elevati, di felicità e qualità delle relazioni con gli altri statisticamente migliore.

Una lezione che, alla luce dell’esperienza pandemica e di quanto stiamo vivendo in queste settimane, non possiamo permetterci di dimenticare.

Johan Robinson, a capo dell’unità dedicata alla biodiversità nel Global Environment Facility del programma UNEP, ha dichiarato:

il COVID-19 ci ha insegnato che la vita sulla terra è interconnessa. Come specie dominante nella rete delle interazioni abbiamo la grande responsabilità di agire operando le scelte più giuste.

La salute del nostro ambiente è influenzata dalle nostre azioni, che ce ne ricordiamo o meno, con tutte le conseguenze e le responsabilità che questa posizione comporta.

 

Salute del pianeta e salute umana sono strettamente correlate.

La nostra salute e le nostre economie (in una parola, la nostra sopravvivenza) dipendono dalla qualità della relazione che siamo capaci di tessere con la natura e con le altre comunità umane, oltre le semplici visioni meccanicistiche di sfruttamento.

Un nuovo patto di pace passa anche da qui.

 

Ambiente in Costituzione

Ambiente in Costituzione.

L’8 febbraio 2022 passerà alla storia come una tappa fondamentale nell’attualizzazione dei principi accolti dalla nostra Carta costituzionale del 1948. In quella data, infatti, la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva la Legge costituzionale n. 1/2022, che inserisce un espresso riferimento alla tutela dell’ambiente e degli animali, recando modifiche agli articoli 9 e 41.

In particolare, all’articolo 9, che nella versione originale recitava: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, ora è stato aggiunto un terzo comma:

Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.

Ritocca, inoltre, l’articolo 41, con l’inserimento di alcuni incisi che, riferendosi allo svolgimento dell’iniziativa economica, precisano che essa non può svolgersi in modo da recare danno all’ambiente.

Le modifiche alla Costituzione non sono così frequenti e l’iter che porta alla loro approvazione non è per nulla semplice, anzi. Colpisce che, nonostante la larga maggioranza con cui si è passati all’approvazione, vi siano state astensioni o addirittura un voto contrario: beni così primari come l’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi e per di più in una prospettiva rivolta al futuro, come indica il richiamo all’interesse delle future generazioni, avrebbero ‘meritato’ l’unanimità. 

I Padri costituenti non sono esenti da colpe in quanto alla mancata previsione di una tutela ambientale, specialmente in connessione con il diritto alla salute propugnato dall’art. 32: di certo all’epoca non potevano prevedere tutti i cambiamenti e le trasformazioni subiti dal nostro pianeta degli ultimi decenni, ma non potevano non conoscere, da un lato, le conseguenze dannose provocate dalla Rivoluzione industriale della seconda metà dell’Ottocento, dall’altro, la coeva costituzione dell’International Union for the Conservation of Nature, prima organizzazione mondiale ad occuparsi di ambiente e la cui missione è da sempre quella di persuadere, incoraggiare ed assistere le società di tutto il mondo nella conservazione dell’integrità e della diversità della natura e nell’equo sfruttamento delle risorse naturali.

Pur se “la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema” già era nominata all’art. 117 Cost., ma solo per annoverarla tra le materie di competenza esclusiva statale, senza particolare rilievo in sé e per sé, ora viene ad essere inclusa tra i valori e principi fondamentali.

In questa direzione si era peraltro già espressa la Corte costituzionale con una recente sentenza, la 179 del 2019, ove si sottolineava la necessità di riconoscere – e tutelare – “una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale”.

La riforma si allinea così sia alla normativa europea, sulla scia, ad esempio, della cosiddetta Carta di Nizza del 2000, sia all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU, tra i cui obiettivi vi è quello di “proteggere il pianeta dalla degradazione, attraverso un consumo ed una produzione consapevoli, gestendo le sue risorse naturali in maniera sostenibile e adottando misure urgenti riguardo il cambiamento climatico, in modo che esso possa soddisfare i bisogni delle generazioni presenti e di quelle future”.

Questo sguardo rivolto al futuro si ritrova anche nelle costituzioni di molti Paesi europei, come nella c.d. “Carta dell’ambiente” francese, che qualifica come obbligo la partecipazione alla tutela e al miglioramento dell’ambiente da parte di ogni individuo, o nella Grundgesetz tedesca, ove le fondamentali condizioni naturali di vita e gli animali ricevono protezione anche nell’ottica di “responsabilità verso le generazioni future”.

Non dimentichiamo, accanto all’ambiente, il riferimento al mondo animale, che compare per la prima volta nella Costituzione con la previsione di una riserva di legge per stabilire i modi e le forme di tutela degli animali.

Un passo che si pone nel solco delle linee guida della normativa europea contenute nel Trattato sul Funzionamento dell’UE del 2007, ove si puntualizza che “l’Unione e gli Stati membri devono, poiché gli animali sono esseri senzienti, porre attenzione totale alle necessità degli animali sempre rispettando i provvedimenti amministrativi e legislativi degli Stati membri relativi in particolare riti religiosi, tradizioni culturali ed eredità regionali”.

Ora, sulla carta sembrano essersi realizzate grandi conquiste. Ma è lecito chiedersi: cosa succederà in pratica?

Anzitutto, gli articoli così modificati impongono che qualsiasi legge o altro atto sia valutato alla luce dei nuovi principi: quindi, per un verso, se esiste una legge contraria alla tutela dell’ambiente o alla biodiversità potrà essere portata dinanzi alla Corte costituzionale per chiederne la dichiarazione di incostituzionalità; per un altro verso, se manca una legge in linea con questi principi, sarà possibile pretendere la presentazione della proposta in Parlamento.

Pensiamo, ad esempio, ad una legge come quella sulla caccia del 1992, che, stando ad un report pubblicato dal WWF il 10 febbraio, proprio nel trentennale della sua approvazione, vede un 76% di italiani contrari a questa pratica: ci si augura una revisione della stessa, considerati anche i forti limiti che la normativa ha evidenziato soprattutto in fase d’applicazione, insieme all’esigenza di fare un imprescindibile passo avanti nella tutela di tutta la fauna selvatica, anche quella contemplata come ‘minore’.

È fuori di dubbio che i nuovi principi non possano agire retroattivamente, ma è verosimile che possano avere una qualche ricaduta nei confronti dei processi già avviati, in quanto la giurisprudenza non potrà non tenere in conto le nuove norme costituzionali nella definizione dei suoi orientamenti.

La guardia di ogni cittadino nei confronti di questi temi deve essere costantemente alta, perché la riforma costituzionale non rimanga lettera morta.